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Conversazione vs comunicazione: che scelta per l’azienda?

Conversazione vs comunicazione: che scelta per l’azienda?

Solo comunicazione o anche conversazione per le aziende? Ne hanno parlato Carlo Turati e Annalisa Galardi al Festival della Comunicazione

Sono passati ormai quasi vent’anni da quel Cluetrain Manifesto che ricordava agli addetti al settore (e non) come i mercati siano conversazioni. Tradotto significa che le persone sul mercato parlano con voce umana e vorrebbero che lo stesso facessero le aziende. In quanti casi questo avviene? Quante volte le aziende moderne ricordano che parlare alle persone può essere alla base del loro successo? È questo il cuore dell’intervento di Carlo Turati, autore televisivo e docente di Organizzazione aziendale, al Festival della Comunicazione di Camogli.

L’ostacolo principale è, a detta dell’esperto, che le aziende troppo spesso scambiano oggi l’informazione per la conversazione. La prima è gerarchica, stretta entro piani editoriali, strategie, contenuti decisi dall’alto e pensati per essere rassicuranti. Non a caso una delle parole più ricorrenti quando si fa riferimento al complesso della comunicazione aziendale è “compliance”, conformità, ai valori, all’immagine, alla mission dell’azienda. Al contrario, invece, la conversazione – o, meglio, quello che ancora si intende per conversazione nella maggior parte dei contesti aziendali – è inefficiente. Quasi sempre, infatti, in azienda o nei luoghi dei lavoro le conversazioni si limitano a essere intese come le chiacchiere nei corridoi, durante la pause pranzo, evidentemente inefficienti sia nei luoghi che nello spazio, perché apparentemente non remunerative.

Apparentemente, appunto. Troppo spesso le aziende dimenticano, infatti, che le persone sono nate conversando (non comunicando) e solo quando conversano stanno bene. Non serve essere esperti di organizzazione aziendale allora, ribadisce Turati, per capire come, in una catena logica, il benessere delle persone influisca sul bilancio di un’impresa.

A voler considerare solo aspetti più concreti, però, le conversazioni fanno bene all’azienda. Se si guarda all’ambiente di lavoro, per esempio, quelle stesse conversazioni “inefficienti” tra dipendenti davanti alla macchinetta del caffè, nei corridoi, possono dare idea della loro soddisfazione lavorativa, senza la necessità di spendere (il ritorno, quindi, è assolutamente concreto) in indagini di satisfaction aziendale.

Anche se si guarda al comportamento del cliente, le conversazioni sono importantissime: lo dice, per esempio, il successo delle recensioni di prodotti e servizi, il modello Amazon&TripAdvisor in altre parole, perché considerate credibili poiché scritte da “pari” e quindi quanto più simili possibile alle proprie esigenze di consumo. E lo dice anche il successo degli influencer che convincono, più dei classici testimonial o endorser, perché molto più vicini al consumatore “comune”.

La Rete ha ricreato un mondo provinciale – spiega, insomma, Carlo Turati –, un mondo accogliente, con una sua identità, in cui si va in piazza, si chiacchiera e ci si fida uno dell’altro perché ciascuno ha un ruolo. E anche il mercato non può che essere un mercato di piazza”. Se si pensa a servizi come BlaBlaCar o Airbnb o Uber, del resto, non sono altro che strumenti per la coordinazione della vita sociale: prima di semplificarci le azioni quotidiane, anche le più banali, hanno fatto dell’economia della condivisione un driver per trasformarci di nuovo un persone 1.0, persone sociali.

In un simile contesto, quindi, per un’azienda le conversazioni che interessano i propri prodotti o servizi, quando non il brand in generale, contano più della comunicazione in cui pure investe risorse economiche, creative. Non accettare questa evidenza potrebbe distruggere l’azienda stessa. Se ciò non bastasse, almeno sei motivi dovrebbero convincere le imprese moderne all’importanza delle conversazioni:

  • La conversazione fa stare meglio le persone e un cliente soddisfatto, esattamente come un dipendente entusiasta, è la base per il successo del business.
  • Le persone fanno conversazione a prescindere: meglio sfruttarla a proprio vantaggio.
  • È tramite le conversazioni che in un’impresa, specie se opera nel mercato della conoscenza, si creano effetti di rete, si condividono conoscenze, soft skill, reti di contatti.
  • Le conversazioni non sono beni rivali: se condivise il loro valore non diminuisce, ma aumenta.
  • La conversazione stimola la conoscenza e il progresso ed è un incentivo all’intelligenza collettiva.
  • Dalle conversazioni nasce la capacità critica.

L’errore spesso commesso dalle aziende nell’approcciarsi alla conversazione è, tuttavia, quello di affidarsi al semplice storytelling, quello che spopola nelle campagne pubblicitarie e di comunicazione. Per uscire veramente dalla propria comfort zone fatta di messaggi dall’alto e perché non si riduca a imporre la propria idea di benessere, l’azienda dovrebbe riuscire, infatti, a passare allo storydoing, come sottolinea Annalisa Galardi, docente ed esperta di Comunicazione d’impresa, nello stesso intervento al Festival della Comunicazione.

Si tratta di pensare alla narrazione che un’azienda vuole fare di sé secondo il principio del social by design. La storia raccontata dall’azienda, in altre parole, deve essere una storia che si trasformi in qualcos’altro, che generi azione, coinvolgimento, condivisione, che sia coerente con il proprio progetto di business e, allo stesso tempo, abbia una certa utilità per i propri stakeholder . L’ideale per un’azienda sarebbe, insomma, far diventare clienti e portatori di interessi i propri primi ambassador, partecipi nello stesso processo di storydoing. I vantaggi? Tanti e vanno ben oltre quello concreto del risparmio sull’investimento in comunicazione e payed media.

Certo, come ogni inversione di rotta, investire nelle conversazioni può richiedere un investimento iniziale anche non indifferente. Si tratta, nello specifico, di insegnare ai clienti, ai dipendenti o a chi altro parteciperà al processo di storydoing come raccontare una storia. È l’esperimento che un’agenzia di learning&communication ha fatto con #whereismydesk: il tema in questione era, nello specifico, l’evoluzione dello smartworking e l’ hashtag dava la possibilità a chiunque di raccontare il proprio modo di intendere il lavoro e la carriera, di fatto contribuendo seppur indirettamente a raccontare una storia ben precisa, quella dei servizi offerti dall’agenzia.

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