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Guida al fact-checking e agli strumenti di verifica delle notizie

Guida al fact-checking e agli strumenti di verifica delle notizie

Verificare le notizie è essenziale per evitare il diffondersi di bufale e notizie false. Ecco i principali strumenti per il fact-checking.

C’è un mantra che chi frequenta il mondo dell’informazione conosce bene: se sembra troppo bello per essere vero, probabilmente non lo è. Con riferimento alle notizie, mette in guardia da tutti quei fatti che ogni giorno raggiungono newsroom e giornalisti e che però non possono (e non devono) essere considerati notizie.

Se c’è una minaccia alla credibilità dell’informazione digitale, infatti, si tratta delle bufale. Il mito della velocità e dell’aggiornamento continuo, la necessità di competere con i social e gli altri ambienti digitali dove le notizie corrono istantaneamente spesso inducono chi si occupa d’informazione a cadere nella trappola di notizie non verificate, false o confezionate ad hoc in una logica “acchiappa like”.

La vera soluzione? Riscoprire i tempi di un giornalismo slow”, che punti alla qualità più che alla quantità di notizie e all’aggiornamento continuo e, nel frattempo, preoccuparsi di diffondere una cultura del fact-checking, letteralmente della verifica delle notizie.

Un manifesto del fact-checking

Per farlo non bastano le iniziative isolate. Per questo il giornalismo, d’oltreoceano soprattutto, si è già inventato community contro le bufale all’interno delle quali i professionisti dell’informazione possono scambiarsi best practice e puntare all’alfabetizzazione dei lettori, affinché siano i primi stakeholder di un giornalismo di qualità. Più recentemente, alcuni dei maggiori soggetti internazionali che operano nel campo dell’informazione (tra cui Factcheck.org, The Washington Post, Poynter.org, etc.) hanno firmato un manifesto del fact-checking che ha come obiettivo quello di promuovere le eccellenze in materia di verifica delle fonti. «Crediamo che un fact-checking imparziale e trasparente sia il solo strumento efficace per un giornalismo credibile – scrivono nella presentazione – se improvvisato o fatto senza risorse, infatti, non fa che inquinare la sfera pubblica». Le regole d’oro per i fact-checker? Restare imparziali, rendere pubbliche le proprie fonti, garantire la massima trasparenza anche sulla metodologia e il tipo di elaborazione applicata e, non ultima, la totale sincerità sui finanziamenti ricevuti (indispensabile se si considera la quasi totale mancanza di editori “puri” e il fatto che il giornalismo, specie in America, attrae sempre più donazioni e charity).

Quali strumenti per il fact-checking?

Per difendere la credibilità dell’informazione (online e non), però, non basta un nuovo approccio alla verifica delle fonti. Ci sono diverse pratiche e tool che chi si occupa d’informazione può e deve utilizzare per non incappare nel pericolo bufale o notizie non verificate e non verificabili. Si tratta di strumenti utilissimi soprattutto quando ci si trova ad affrontare e gestire una crisi: è proprio nei momenti concitati di una catastrofe naturale, un attacco terroristico o a qualsiasi altra emergenza, infatti, che bufale e notizie non vere si diffondono a macchia d’olio, contribuendo a rendere ancora più caotica l’infosfera e impedendo a giornalisti e simili di assolvere davvero al loro dovere di servizio pubblico.

Curare le fonti

Soprattutto, si tratta di pratiche e strumenti che, a guardarli bene, fanno parte della più tradizionale “cassetta degli attrezzi” di un buon giornalista. Il primo passo per un fact-checking efficace, infatti, è il controllo delle fonti. Nel gioco di rimbalzi, condivisioni, passaparola tipico degli ambienti digitali può essere particolarmente difficile risalire alla fonte originale di una notizia. Ciò vale soprattutto nei casi in cui, di fronte a grandi avvenimenti improvvisi, in zone dove le redazioni non possono permettersi di avere corrispondenti stabili sono i “cittadini-giornalisti” a fornire i primi resoconti su quanto sta succedendo. Le rivoluzioni nel Medio Oriente, meglio conosciute come Primavera Araba, hanno fatto scuola in questo senso e sono state il banco di prova per il citizen journalism. In quell’occasione i giornalisti “tradizionali” si trovarono più volte a dover verificare l’attendibilità di fonti che si proclamavano direttamente coinvolte nelle rivolte. Già da allora si dimostrò essenziale, così, quello che fu indicato come un approccionetworked al giornalismo: di fronte all’abbondanza di informazioni che arrivano alle redazioni da fonti non tradizionali, il giornalista non può che lavorare “facendo rete” con le proprie. Significa selezionare, già prima e in anticipo rispetto al momento dell’emergenza, alcuni utenti che si mostrano più attendibili di altri, preparare liste (soprattutto su Twitter e altri social network ) di contatti da seguire per restare aggiornati sulla situazione, entrare in contatto con soggetti privilegiati (freelance, fotografi, videoreporter, operatori umanitari, etc.) che operano nella zona e che potrebbero fornire materiale di prima mano. Niente di diverso, insomma, del vecchio lavoro di cura e “coltivazione” delle fonti che ha sempre impegnato un giornalista tradizionale.

Gli strumenti digitali a prova di fact-checking

Non possono essere ignorati i numerosi strumenti d’ausilio al fact-checking offerti dalla tecnologia e dagli ambienti digitali: si va dai badge blu che contraddistinguono sui social i profili ufficiali di giornalisti, politici, personaggi pubblici alle diverse piattaforme che permettono di ricavare qualche informazione in più sui contenuti multimediali. Il giornalismo digitale deve gestire, infatti, una grande quantità di user generated content che arrivano nelle newsroom e che costituiscono spesso l’unico apparato multimediale disponibile per quella notizia. Come fare a stabilire, allora, la veridicità di una foto o di un video? Si può partire, per esempio, dall’analizzare i meta-dati eventualmente disponibili e che dicono qualcosa su quando e come sono stati scattati o girati, anche se la maggior parte dei social cancella questa tipologia di dati; si può usare la ricerca inversa, tramite immagini di Google Image, per verificare che quella stessa foto o un fotogramma del video non siano stati già pubblicati in precedenza e possano non riferirsi, quindi, all’evento in atto; si possono usare servizi come Google Maps o Wikimapia per confrontare alcuni dettagli urbani e paesaggistici, in modo da capire se foto o video siano stati realizzati realmente nel posto in questione. C’è chi suggerisce anche di tenere in considerazione i servizi meteo: conoscere le condizioni meteorologiche del preciso momento e del posto in cui stava avvenendo il fatto aiuterebbe a decidere sull’attendibilità anche dei contenuti multimediali disponibili.

Affidarsi all’intelligenza artificiale…

Qualcuno ha provato a costruire, addirittura, algoritmi che aiutino giornalisti e professionisti dell’informazione a valutare l’attendibilità dei post sui social. Ci sarebbero, infatti, elementi ricorrenti nei tweet o negli aggiornamenti Facebook che riportano bufale, notizie false o non verificate. Sono elementi sintattici come grossolani errori grammaticali (che potrebbero essere, per esempio, spia dell’uso di traduttori online), uno smodato uso dei pronomi o della punteggiatura o, persino, delle emoticon. In alcuni casi, però, anche elementi “paratestuali” come il nome utente, il numero e il tipo di follower , la data di attivazione dell’account e il tipo di attività registrata in precedenza o la lunghezza dei messaggi possono dire qualcosa sull’attendibilità della fonte e, quindi, sulla veridicità dei post.

…o a quella collettiva

Chi non voglia affidarsi all’intelligenza artificiale, però, può sempre affidarsi all’intelligenza collettiva. Gli ambienti digitali, infatti, renderebbero più facile il fact-checking anche per la possibilità di affidarsi al crowd-sourcing: un giornalista che debba verificare una notizia, in altre parole, può fare affidamento alla “folla”, partendo dal presupposto che la coda lunga della Rete permette di trovare facilmente l’esperto di qualsiasi materia. Ci sono state persino piattaforme come Verily (piattaforma non più attiva a febbraio 2020, ndr) che hanno sfruttato il principio della gamification per coinvolgere gli utenti nel processo di fact-checking. In questa piattaforma c’era una sorta di bacheca in cui le informazioni da verificare erano proposte agli utenti registrati come domande a cui rispondere semplicemente con ‘sì’ o ‘no’ oppure motivando la risposta e fornendo eventuali prove; anche chi non era in grado di rispondere poteva condividere la issue sui social e invitare i propri contatti a partecipare al processo di verifica, ricevendone in cambio bonus di punteggio.

Una sensibilità nuova per il fact-checking?

Non si possono non segnalare, infine, i passi avanti nella direzione del fact-checking condotti anche dai giganti dell’informazione 2.0. I big del social networking, per esempio, sembrano sempre più impegnati in materia: dopo tanto discutere sulle possibili soluzioni contro le bufale, è stato creato per esempio il Facebook Journalism Project con l’intento di agire sia sul fronte dei professionisti dell’informazione sia su quello dei lettori per una maggiore sensibilizzazione rispetto all’importanza di condividere solo notizie verificate e alle responsabilità anche giuridiche che derivano dalla diffusione volontaria di bufale.

Ad aprile 2017 è arrivata, poi, la conferma dell’impegno di Google contro le fake news . Dopo vari annunci che sottolineavano la volontà di penalizzare con l’algoritmo i siti che pubblicassero notizie false o non verificate, Big G ha introdotto infatti, sia nella sezione News che per i comuni risultati di ricerca, e in tutte le lingue, l’etichettaFact Check” con cui vengono segnalate le notizie che rispettano i più comuni criteri di verifica delle fonti o che provengono da siti e domini segnalati come attendibili. Perché l’etichetta sia visibile direttamente nello snippet, l’editore deve aver preventivamente dichiarato di aver utilizzato tutti gli strumenti a sua disposizione per verificare la notizia in questione (una piccola nota tecnica: per poter usufruire dell’etichetta, si deve utilizzare il markup ClaimReview di Schema.org sulle pagine in questione, ndr). Un meccanismo come questo di fatto solleva Google da qualsiasi responsabilità quanto all’effettiva veridicità della notizia, tanto che “queste verifiche dei fatti naturalmente non sono effettuate da Google e potremmo anche non essere d’accordo con i risultati“, ci tengono a sottolineare nel post ufficiale di presentazione dell’etichetta Fact Check. Si tratta pur sempre, però, di un primo passo per alzare il livello di guardia dei lettori e per spingerli a una lettura critica, specie di notizie controverse o che possono essere state oggetto di spin-doctoring.

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