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Startup che non decollano: quando la sharing economy non funziona

Startup che non decollano: quando la sharing economy non funziona

I big della sharing economy hanno raggiunto un fatturato di miliardi di dollari, ma questo fenomeno ha anche tanti limiti.

La sharing economy è un fenomeno molto ampio e dai confini non ancora ben definiti che attualmente sta vivendo un grande successo. Il “consumo collaborativo” nelle sue diverse sfaccettature e nei suoi molteplici ambiti di applicazione sta avendo un impatto molto forte sull’economia contemporanea, tanto da portare alla richiesta di norme chiare e semplici per controllare questo fenomeno in ascesa. Queste regole, però, non saranno valide soltanto per l’Italia ma per l’intera Comunità Europea e consentiranno di riconoscere chiaramente chi opera in questo settore in maniera professionale, distinguendolo da chi semplicemente ne fa uno strumento per eludere le tasse e arricchire il proprio portafogli.

L’idea di sharing economy nasce dalla volontà di creare un sistema basato sullo scambio e la condivisione di beni e servizi per motivi solidaristici come, ad esempio, la riduzione del consumismo e dei suoi effetti negativi sull’ambiente, ma anche per la possibilità di ottenere un risparmio.

Diverse ricerche evidenziano una crescente consapevolezza dei cittadini dell’Unione Europea nei confronti della sharing economy, con una media di utilizzo di una persona su sei ed una buona prospettiva di sviluppo. Ciononostante, accanto a diversi vantaggi – fra cui spicca su tutti la possibilità di risparmiare vivendo al contempo un’esperienza di acquisto o una fruizione differente dal comune – non sono pochi i limiti della sharing economy.

A dirlo non sono soltanto i sindacalisti intenzionati a tutelare i lavoratori coinvolti nel processo di condivisione o gli imprenditori preoccupati per le sorti delle loro attività minacciate dalla “concorrenza sleale” generata dalla sharing economy, ma i fatti e il fallimento di diverse aziende basate sull’economia della condivisione.

Se indubbiamente numerosi sono i vantaggi, soprattutto fiscali, di cui godono le startup di consumo collaborativo, esse possono essere influenzate da diversi fattori esterni che ne determinano il successo e la sopravvivenza oppure il fallimento. Per questo motivo appare utile analizzare la situazione di aziende della sharing economy che vacillano o che sono già fallite, proprio per comprenderne le difficoltà e provare ad imparare dagli errori. 

  • SpoonRocket: la startup di food delivery
    Spoon Rocket nasce con l’idea di fornire un servizio veloce ed economico di consegna pasti su richiesta. Organizzato secondo un menù di piatti limitato, in modo da poterli preparare velocemente ed eseguire le consegne entro 10 minuti con auto equipaggiate con sistemi di riscaldamento, il servizio doveva essere più veloce ed economico rispetto al cucinare o all’ordinare in un ristorante tradizionale. Aspirava pertanto a divenire lo Uber del settore food. Nonostante la raccolta di 13,5 milioni di dollari nel 2013, le cose non sono andate come sperato e, scemato l’entusiasmo iniziale, SpoonRocket non è stato in grado di mantenere i prezzi bassi inizialmente promessi.
  • Homejoy: la startup delle pulizie a domicilio
    Questa start up metteva in contatto addetti alle pulizie con chiunque potesse avere bisogno del servizio. Dopo circa due anni, Homejoy è fallita principalmente a causa di problemi legali connessi al rapporto con gli operatori e anche a causa della norma americana che regola il rapporto fra azienda e lavoratore autonomo. Uno dei problemi più rilevanti per la sharing economy è relativo al fatto che le aziende di questo tipo non sono tenute a pagare le tasse, i contributi, né alcuna copertura assicurativa ai lavoratori in quanto non non risultano dipendenti.
  • Quirky: la startup degli inventori
    Esemplare è il caso di Quirky, soprattutto per i circa 185 milioni di dollari di alcuni dei migliori venture capitalist americani bruciati. Considerata per molto tempo
     un modello di riferimento fra le piattaforme che uniscono i creativi e tutti le persone interessate a nuove forme di sostenibilità economica, essa consentiva agli utenti di votare invenzioni con l’obiettivo di finanziarle e realizzarle. Questa piattaforma riceveva moltissime idee ogni settimana e registrava circa mezzo milione di iscritti. Probabilmente è la volontà di lanciare sul mercato troppi prodotti contemporaneamente ad averne causato il fallimento. Secondo molti, però, sono stati spesi troppi soldi per finanziare la creazione di oggetti troppo innovativi che mai sarebbero arrivati sugli scaffali.
  • SnapGoods: la startup per l’affitto di oggetti
    Questa piattaforma, nata nel 2010, consentiva di affittare oggetti di ogni tipo da utilizzare poco, in modo da non obbligare le persone all’acquisto. Ancora oggi citata da molti giornalisti come un esempio positivo per la sharing economy, in realtà è semplicemente scomparsa. Nessun fallimento dichiarato, nessuno che ne abbia parlato apertamente, eppure SnapGoods ha cessato di essere attiva dall’agosto del 2012.

Molteplici possono essere le cause di fallimento di una startup di sharing economy come, ad esempio, la mancanza di norme che regolamentano il settore e tutelano i lavoratori, l’insufficienza di fondi economici per sostenere l’attività e tutte le varie ragioni che possono coinvolgere una comune impresa. Sicuramente prima di lanciarsi con entusiasmo in una nuova impresa di consumo collaborativo sarà utile osservare i problemi delle aziende sopracitate e analizzare i rischi e le difficoltà che stanno portando un numero rilevante di startup a fallire.

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