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App per il terzo settore: quando la beneficenza è a portata di smartphone

Le app per il terzo settore aiutano a contribuire alle cause che si hanno a cuore. Perché chi fa no profit non dovrebbe rinunciarvi?

La digital disruption non ha risparmiato neanche il terzo settore, con associazioni e volontari che, esattamente come le aziende, si sono trovati a fare i conti in questi anni con innovazioni e tecnologie moderne da integrare nei propri asset e nella propria routine quotidiana. Per il no profit, così, pensare a una strategia e a una presenza digitale ha significato per esempio imparare a sfruttare i vantaggi offerti dal social media marketing per il terzo settore: vantaggi che vanno dalla possibilità di rendere letteralmente “virale” la propria causa, al creare una community e coinvolgerla attivamente in ogni fase del proprio lavoro. Anche prendere a improntare la propria strategia in primis su un piano mobile, però, è diventata negli anni un’esigenza primaria per gli operatori del settore: è superfluo ricordare infatti il costante aumentato delle connessioni e del traffico da dispositivi mobile, ma è proprio per venire incontro a una audience sempre più “in movimento” che sono nati anche nel no profit siti responsive, strategie di contenuto mobile first e app per il terzo settore.

Le app per il terzo settore: qualche numero di scenario

Sono proprio quest’ultime, le app per fare beneficenza, a destare molto interesse tra gli esperti del settore: era solo il luglio 2010 quando “Third Sector” segnava un aumento vertiginoso nei sei mesi precedenti di app pensate apposta per fare donazioni, partecipare a cause e campagne delle più diverse, sostenere una onlus di riferimento. Da allora il panorama delle applicazioni mobile è molto cambiato: solo sui market store italiani sono disponibili oltre tre milioni di app diverse e se si considera il mercato internazionale si generano profitti di oltre 40 miliardi di dollari annui, cifra che dovrebbe aumentare entro il 2020 (i dati, riferiti al 2015, sono della società californiana App Annie, ndr). Non stupisce, allora, che anche la fetta di app per il terzo settore sia sempre più spessa.

Si tratta di app di natura diversa: qualcuna permette di fare direttamente la donazione, altre mettono in contatto volontari e attivisti per la stessa causa o consentono di seguire le attività di una specifica associazione e ci sono addirittura app create appositamente per eventi di settore.

Le migliori app per fare beneficenza

Tra le più note e le più amate dai “filantropi 2.0” c’è, per esempio, Charity Miles: com’è facile da intuire dal nome, si tratta di una sorta di “contapassi della solidarietà” che per ogni chilometro percorso in bici, correndo o camminando, grazie a degli sponsor, dona dai 10 ai 25 centesimi alle associazioni di volontariato in precedenza scelte dall’utente. Sono trenta in totale, operanti in tutto il mondo, e delle più svariate: dalla cura del cancro ai programmi di assistenza per i reduci di guerra. Fino al luglio 2017 sono stati raccolti oltre due miliardi e mezzo di dollari.

Gli stessi numeri sono stati raggiunti da Donate a photo: in questo caso basta fare un autoscatto e caricarlo direttamente sull’app perché venga destinato un dollaro a foto per una serie di attività no profit diverse che vanno dai programmi alimentari e d’istruzione per i bambini dell’Africa alla costruzione di pozzi di acqua potabile, fino, per esempio, a cure e terapie per patologie rare. L’applicazione fa parte del programma di corporate social responsibility di una nota casa farmaceutica e può essere facilmente fatta rientrare nel solco di tutte quelle iniziative a scopo culturale, sociale, ecc., anche recenti, che hanno mostrato l’utilità dei selfie. Per chi doni con una certa assiduità, tra l’altro, è possibile seguire passo dopo passo i progetti scelti: opzione che non fa che aumentare il coinvolgimento e, in certa misura, gioca con quel principio di completamento che è il vero motivo per cui non si riesce ad abbandonare un “compito” prima che sia finito, nel caso in questione in un circolo virtuoso che spinge a donare di più.

Il meccanismo su cui si basa la maggior parte delle app per il terzo settore, del resto, è proprio questo: sfruttare a buon fine quella sorta di dipendenza da smartphone da cui nessuno è escluso. Per chi è incapace di prendersi una parentesi di buono e sano digital detox, insomma, che almeno sfrutti il suo essere “always on” per una buona causa, in questo caso nel senso più letterale del termine.

Nell’universo variegato delle app per fare beneficenza, del resto, c’è posto davvero per qualsiasi causa. Lo sa bene chi almeno una volta ha giocato a Pet to Give. Il verbo giocare non è per niente causale: mentre sui social è il trionfo dell’instant gaming, infatti quest’app dedicata alla beneficenza verso il mondo animale funziona un po’ come un vecchio Tamagotchi: si sceglie un animale ogni giorno diverso e lo si riempie di coccole virtuali a suon di tap sullo schermo; più lo si fa, più quanto ricavato grazie agli sponsor verrà dato in donazione alle associazioni che si occupano di animali sfortunati o maltrattati.

E a proposito di app per il terzo settore che sfruttano le “manie” degli internauti per una buona causa, come non segnalare infine un’app come Feedie che trasforma la condivisione di foto fatte a quello che si sta per mangiare in condivisione di un pasto per i più bisognosi? Numerosi ristoranti in tutto il mondo (ma, stranamente, non in Italia dove il food è tra i più importanti driver turistici e dove non si fa altro che parlare di cibo, anche a tavola, ndr) hanno già aderito e tanti chef rinomati a livello internazionale si sono fatti ambassador dell’app, permettendo fin qua di donare oltre 12 milioni di pasti ai più bisognosi.

Come progettare un’app per il terzo settore: i consigli degli esperti e un caso di scuola

Nonostante il loro proliferare, però, c’è chi mette in guardia dalla corsa a creare a tutti costi una app per il terzo settore. Anche in questo caso, come nella maggior parte dei casi di prodotti client oriented, infatti, la cosa più importante da chiedersi è se l’app soddisfa i bisogni del proprio target di riferimento o, in alternativa, se può essergli quantomeno utile. Se la risposta è no, investire in un’applicazione per il mobile potrebbe essere una spesa inutile per l’associazione o l’ente no profit. Anche in considerazione del fatto che, perché funzioni bene, sia usabile e ottimizzi l’esperienza dell’utente, un’app deve essere realizzata da un professionista e potrebbe avere anche un costo sostenuto.

Un’altra utile considerazione, infine, andrebbe fatta su che tipo di app per il terzo settore è più utile. Ancora gli esperti di “Third Sector”, qualche anno fa suggerivano di non fossilizzarsi sull’idea di creare un’applicazione “per” donare, che permettesse cioè di effettuare direttamente e senza uscire dall’app i propri pagamenti. Le ragioni erano di motivo pratico: si temeva allora che le app specializzate nel fundraising venissero penalizzate da un sistema come quello dell’Apple Store perché prevedevano un circuito di pagamento terzo che rendeva vulnerabile la sicurezza dei dati e delle informazioni degli utenti. Oggi i timori sulla sicurezza digitale di chi scarica un’app di questo tipo sono, almeno in parte, superati. Rimane, però, la considerazione che un’app per fare beneficenza funziona più e meglio se invece di chiedere denaro a chi la utilizza chiede il suo tempo, se è progettata per rendere quanto più ottimale possibile l’interazione, per coinvolgere gradualmente il donatore e creare prima una sorta di esperienza “di brand ”, poi un legame di fiducia che non lascerà dubbi sull’opportunità di partecipare alla causa non solo in maniera virtuale ma anche in maniera concreta. In altre parole? Il successo di una app per il terzo settore dipende dalla sua rilevanza e dalla capacità di creare valore per chi la utilizza.

Un caso di scuola in questo senso? Sembrerebbe essere un’app realizzata appositamente per l’edizione del 2015 della Maratona di Londra: era un’app che si rivolgeva soprattutto ai partecipanti e lo faceva nella consapevolezza che la maggior parte di questi fossero maratoneti “seriali” e cioè partecipavano a diverse manifestazioni simili nel tentativo di raccogliere personalmente quanti più fondi possibili. Installata sui propri dispositivi, così, l’applicazione permetteva agli utenti di verificare i propri progressi nel fundraising. Secondo delle stime, fu anche grazie a quell’app che quell’anno fu raccolto almeno il 19% di donazioni in più.

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