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Blue Whale: il caso mediatico del fenomeno tra fake news e psicologia

Blue Whale: il caso mediatico del fenomeno tra fake news e psicologia

Il caso mediatico del Blue Whale è l'esempio di come pubblicare fake news incida sulla reputazione ma anche sulla vita degli adolescenti.

Come mai una notizia vecchia di un anno torna improvvisamente d’attualità, viene condivisa spasmodicamente sui social e ripresa anche dalle testate più tradizionali, arrivando ad alimentare allarmismo e panico? La domanda è più che lecita, specie se il riferimento è a notizie come quelle che hanno generato il caso mediatico del Blue Whale.

Come spiega bene un articolo di debunking di Valigia Blu, la prima notizia della presunta challenge suicida che arrivava dalla Russia è della primavera del 2016: un articolo pubblicato sulla Novaya Gazeta sostiene che su VK (ossia VKontakte, uno dei social network più popolari in Russia, ndr) ci siano veri e propri gruppi della morte, all’interno dei quali degli speciali curatori sfidano i partecipanti, giovanissimi, in prove iniziatiche di difficoltà crescente che terminerebbero, appunto, col suicidio. È solo nel marzo del 2017, però, che la notizia approda sui media internazionali con una serie di articoli, da fonti più o meno credibili, che si richiamano e si citano a vicenda e insinuano il dubbio che, nel frattempo, il Blue Whale abbia fatto vittime anche in altri Paesi.

Blue Whale: una notizia troppo bella per essere vera… e infatti non lo è

Eppure c’è un mantra ben noto tra chi si occupa di informazione: se una notizia sembra troppo bella per essere vera, probabilmente non lo è. Una delle prime azioni che redazioni e outlet media avrebbero dovuto compiere, allora, sarebbe stato verificare l’affidabilità delle fonti, tanto più che – come sottolineano in un’intervista ai nostri microfoni da Bufale Un Tanto Al Chilo (BUTAC), tra i principali soggetti che hanno fatto in Italia un lavoro di debunking sul caso Blue Whale – la notizia fu mediata allora da soggetti come il Daily Mail o il Sun, per antonomasia devoti a un giornalismo da clickbaiting e sensazionalistico e ben noti per questo tra gli addetti al settore tanto da essere esclusi da Wikipedia dalla lista delle fonti affidabili. Cosa non ha funzionato, allora, nel meccanismo di fact-checking e cosa ha fatto esplodere il caso mediatico del Blue Whale? Lo abbiamo chiesto a Matteo Flora, esperto di Reputazione, Forensics e IP Protection e fondatore di The Fool.

Quella del Blue Whale è una quasi notizia perfetta perché ha la giusta dose di credibilità, cioè è credibile che ci sia qualcuno che abbia questi interessi. Allo stesso tempo è difficile da controllare perché arriva da un’altra parte del mondo e, tra l’altro, una delle poche parti del mondo che utilizza una lingua e un alfabeto difficili da tradurre, come la Russia. È proprio questa la ragione per cui hanno preso a circolare diversi video che mostravano lanci da palazzi molto alti e suicidi di ragazzi, video in cui c’erano persone che parlavano una lingua incomprensibile, che poi fosse russo o cinese poco importa. Terza ragione: la notizia del Blue Whale è abbastanza scandalistica da essere interessante per quel gusto del morboso che tutti abbiamo. Per quanto riguarda le fake news è una cosa che accade spesso: tra le bufale che si diffondono con più frequenza in Italia, così, per esempio, ci sono i presunti crimini degli immigrati. “Magrebino immigrato che sta negli hotel a cinque stelle, mentre gli italiani sono nelle tende, e prende 38 euro al giorno stupra ragazzina italiana che va a scuola”: è l’esempio tipico di scandalismo, paura incontrollata, attrazione morbosa. E non è neanche un fenomeno tutto italiano, tanto che la fake news sul Blue Whale si è diffusa in tanti paesi di lingua inglese e latina, per esempio. Lo ha fatto a partire da una serie di fonti che vengono trovate o create ad arte e, sebbene molto poco autorevoli, vengono riprese e ripresentate da altre fonti più o meno autorevoli: da qui in poi il circolo è semplice da comprendere. Tutte le volte che media outlet mediamente intelligenti – o ritenuti tali – riprendono una di queste fonti c’è un pericolo fake news.

Così la “Balena Blu” ha rischiato di alimentare un dibattito scorretto sui suicidi giovanili

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Un fotogramma di “Suicidarsi per gioco”, il servizio de “Le Iene” da cui è nato in Italia il caso mediatico del Blue Whale.

Chi ha una certa familiarità con il mondo dell’informazione e conosce i meccanismi che portano alla notiziabilità di un fatto, insomma, dovrebbe possedere tutti gli strumenti teorici e pratici giusti per tenersi al riparo da notizie come quelle che hanno portato allo scoppio del caso mediatico del Blue Whale. In frangenti come questi, soprattutto, non è ammissibile alcuna «leggerezza», termine utilizzato da Matteo Viviani, autore del servizio de “Le Iene” – a cui ha fatto seguito in Italia la psicosi Blue Whale – per giustificare, in un’intervista a “Il Fatto Quotidiano”, il suo atteggiamento nei confronti dei filmini mostrati come prova che stessero avvenendo suicidi comandati, poi rivelatisi palesemente falsi. Si tratta, infatti, di notizie con un alto impatto a livello sociale e potenzialmente in grado di generare psicosi. «C’è un esperimento di psicologia sociale – continua Matteo Flora — che parla di profezie auto-avveranti: se dico, cioè, che a metà del 2015 ci sarà un’epidemia di panico in giro per il mondo posso stare tranquillo che a metà del 2015 il panico arriverà davvero. In questo caso è stato ancora peggio, poiché si sa che il fenomeno dei suicidi tra ragazzini ha un forte tasso di emulazione. Per questo, anche se non fosse stata palesemente una bufala (come invece era!), sarebbe stato fondamentale far passare il messaggio che si trattava di una fake news per non incorrere nel rischio di aumentare il pericolo emulazione e per evitare di aggiungere eroicità al gesto». È quello che prevedono anche le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul rapporto fra mass media e suicidi: dalla necessità di non utilizzare toni allarmistici al rispetto della dignità della persona coinvolta e del dolore dei suoi familiari, passando per il divieto di offrire descrizioni dettagliate sulle modalità del suicidio, si tratta di buone pratiche che qualunque giornalista dovrebbe padroneggiare. «La famosa frase, ripresa dal “Ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde, “Nel bene o nel male purché se ne parli”, viene ormai abusata per giustificare una comunicazione priva di contenuti di qualità – ci spiega, infatti, in un’intervista Andrea Micheletti, assegnista di ricerca all’Università di Padova – quando, invece, un dibattito pubblico sano si alimenta puntando su una comunicazione che non spettacolarizzi la morte facendo leva su contenuti a carattere fortemente emozionale per alimentare panico o fenomeni di emulazione. Bisogna, cioè, incentrare il dibattito su temi reali quali il disagio giovanile, l’incapacità delle agenzie educative di riferimento (come scuola e famiglia) di supportare i giovani ed il ruolo che i nuovi media assumono nella comunicazione odierna».

Fake news e reputazione: cosa ha da insegnare il caso mediatico del Blue Whale

Meglio, insomma, correre il rischio di bucare una notizia (cioè, in gergo giornalistico, non pubblicare qualcosa di cui altre testate si stanno occupando, ndr), piuttosto che contribuire a viziare l’ecosistema dell’informazione con fatti non verificati, né verificabili. Del resto «bucare una notizia è un’eventualità che può sempre capitare nel lavoro giornalistico, mentre fornire al lettore una notizia non verificata va contro i doveri etici e professionali di chi fa questo mestiere», sottolinea Andrea Zitelli che si è occupato per Valigia Blu di fare chiarezza sul caso mediatico del Blue Whale. Quello che sempre più voci critiche stanno facendo emergere, tra l’altro, è che il dilagare di fake news, fatti alternativi, post-verità rischia di minare la credibilità dell’intero sistema mediatico, già del resto scesa ai minimi storici.

blue whale fake news hashtag

Alcuni degli hashtag usando i quali si potrebbero recuperare post legati alla challenge della Blue Whale.

«La cosa buffa del circolo vizioso delle fake news – ci spiega ancora Matteo Flora — è che il risultato a breve e medio termine della loro diffusione su media outlet teoricamente ritenuti affidabili fa in modo di screditare l’intera categoria. Qualche anno fa eravamo abituati al fatto di stare attenti “all’Internet” perché “sull’Internet” c’erano le notizie false (ovviamente non era vero, ma era così che diceva la vox populi) e “l’Internet” era un posto meno affidabile dei media tradizionali. In questi ultimi anni, invece, il conscio, progressivo, doloso lassismo nel diramare le fake news da parte di alcune testate ha fatto in modo di screditare l’intero comparto. Oggi come oggi, allora, la vox popoli è cambiata: non è più “l’Internet” che è considerata poco affidabile, sono i giornali. E come darle torto? In un ambiente come quello dei mainstream media che, teoricamente, dovrebbe essere regolamentato e normato, con Ordini che nascono in teoria a garanzia della correttezza dell’informazione, assistiamo negli ultimi anni a un totale lassismo, disinteresse e a un atteggiamento di corporativismo e di difesa. Sappiamo tutti, per esempio, che ci sono testate che hanno fatto della diffusione di fake news o notizie dell’odio” un vanto e un posizionamento preciso all’interno della catena del valore del mercato, ma nessuno si muove a livello di organi preposti per far cessare il fenomeno, non accorgendosi che l’unico antidoto alle fake news e l’unica modalità con cui si potrebbe far in modo che le mainstream news riacquistino quella posizione di privilegio è il controllo, ma anche il fatto di sapere che c’è qualcuno che dice che certi tipi di news e certi tipi di atteggiamenti non sono permessi all’interno di un sistema protetto».

Non solo per l’intero sistema, però, che effetto ha la pubblicazione di fake news sulla credibilità della singola testata o del singolo giornalista?

Alcune testate perdono credibilità in modo difficile da recuperare. Altre, specie se vivono di scandalistico, notizie dell’ultima ora, panico generato, riescono a conservare credibilità perché ingannano le persone con la possibilità che ogni nuova cosa che raccontano possa essere vera. Altre ancora, non riescono a rialzarsi, soprattutto se c’è una componente dolosa, cioè se si è consci che si sarebbe potuto fare qualcosa, ma non si è fatto. Per il singolo giornalista, invece, ci sono molti più problemi: l’attacco alla credibilità di chi ha condiviso bufale è spesso tanto forte da precludere nuove possibilità di fare o anche solo di recuperare. Non sempre, infatti, il giornalista è in cattiva fede quando sbaglia nel modo di trattare una notizia, ma il reiterarsi dell’errore certo non giova.

Il lato “luminoso” della Rete: così è stato smentito il Blue Whale

Di contro, parentesi come il caso mediatico del Blue Whale hanno anche il pregio di portare alla luce iniziative lodevoli, singole o collettive, di community specializzate nel contrasto alle bufale e, più in generale, di debunking (letteralmente demistificazione, ndr) delle notizie non verificate. Quali sono gli strumenti, le soft skill, le strategie e le dinamiche da mettere in atto in questo senso? Si può provare a ricostruire la storia «partendo da fonti primarie, in questo caso dall’articolo pubblicato da un sito d’informazione russo da cui era iniziato tutto e dal dibattito critico che si era creato già sempre in Russia – ci spiegano da BUTAC — e poi si può incrociare quanto emerso con altri articoli d’inchiesta a livello internazionale che abbiano già lavorato a un fact-checking della storia. È estremamente difficile, comunque, che la smentita riesca ad avere la stessa risonanza di una notizia costruita sul sensazionalismo».

Cosa ha significato fare debunking nel caso mediatico del Blue Whale e come ci si approccia a una notizia che ha un potenziale allarmistico così forte?

Ci si approccia con l’umiltà del non sapere, con il tentativo di dare una corretta informazione al lettore, ma più che altro al giornalista e a chi si occupa di comunicazione nelle redazioni. Quindi si cerca di evitare toni sensazionalistici: non siamo online per strillare ma per approfondire, cercando di usare toni corretti per un argomento delicato, rivolgendoci magari a professionisti per suggerimenti, quando necessario, ma sempre dando fonti al lettore per non perdersi.

Rimettere il lettore al centro del sistema informazione: il lascito del Blue Whale

Il lettore, del resto, è e deve rimanere al centro di ogni processo informativo. Oggi più che mai, considerato che gli ambienti digitali hanno contribuito al suo empowerment e lo hanno reso sempre più un produttore e non un semplice consumatore di notizie. Non è raro, tra l’altro, che proprio le community di lettori abbiano un ruolo fondamentale quando si tratta di smentire bufale e fake news o ricostruire correttamente una notizia. C’è chi dice, infatti, che il web sia un enorme catalogo dei più folli interessi e delle più folli specializzazioni umane. «L’aiuto che può arrivare dai lettori è importantissimo: segnalazioni di spunti da verificare, articoli di approfondimento, pareri tecnici da chi è competente in una certa materia, riflessioni critiche, ecc., sono alcuni dei consigli e delle forme di assistenza che un lettore è in grado di fornire. Per questo credo che sia fondamentale – sostiene ancora Andrea Zitelli – creare una comunità di persone attente al lavoro giornalistico, perché “fare rete” permette di potenziare moltissimo le possibilità di verifica di una storia e quindi fornire un’informazione quanto più corretta».

C’è, allora, una sorta di indiziario che dovrebbe mettere in allarme anche l’utente più comune riguardo alla  credibilità di certe notizie?

Non esiste una soluzione definitiva al problema delle notizie false, che sono sempre esistite, e della loro diffusione. Da un po’ di tempo, c’è però un filone di Media Literacy che punta a fornire gli strumenti agli utenti per una lettura critica delle notizie. Marco Nurra (di Valigia Blu, ndr), per esempio, ha ripreso diversi consigli di professionisti per “combattere le fake news”: consultare i siti di fact-checking; seguire i link pubblicati nell’articolo, quando ci sono, per capire qual è la fonte della notizia; diffidare delle dichiarazione esagerate e quindi provare a verificarle; fare attenzione alle immagini perché in più di un’occasione i media hanno pubblicato foto e video sbagliati di terremoti o di attentati terroristici e così via.

E cosa dire, infine, anche della credibilità del singolo individuo che, consciamente o meno, condivide notizie non verificate o fake news? Anche in questo senso il caso mediatico del Blue Whale ha molto da insegnare: «la sua reputazione soffre molto – conclude Matteo Flora – specie se sbugiardato in maniera totale. L’opinione pubblica comincia a distinguere, infatti, tra gli “imbecilli della Rete” e le persone che sanno usare il mezzo. È questo, infatti, il problema principale: non parleremmo di fake news se non parlassimo di quell’analfabetismo funzionale che fa in modo che la gente condivida senza alcun tipo di spirito critico qualsiasi tipo di notizie. Lo shaming, il mettere alla gogna chi condivide contenuti di un certo tipo, allora, è forse l’unico metodo efficace per limitare la diffusione di fake news: inculcare la paura sociale del giudizio del terzo che mi reputa un imbecille se condivido cose finte è l’unico modo per contrastarne la diffusione. Molti studi dicono, infatti, che all’interno di una bolla di pensiero, cercare di contrastare con i fatti la notizia non avrà effetti, perché la persona si sentirà sempre nella posizione di conoscere altre e superiori e verità e vedrà quelli che provano a farlo come quelli che tentano di oscurare la vera verità. Lo shaming, il porre in una posizione di imbarazzo presso il suo uditorio la persona che condivide fake news, pur sempre senza cadere nell’hate speech, è uno dei mezzi che ne potrebbe rallentare la proliferazione». 

BLUE WHALE TRA PSICOLOGIA ED EFFETTI

Non solo sulla reputazione e la credibilità dei singoli giornalisti, delle loro testate di riferimento, dei media outlet che hanno veicolato la notizia e dei singoli utenti che l’hanno condivisa: il polverone mediatico del Blue Whale sembra aver avuto in primis effetti sociali non indifferenti. Chi in Italia ha provato a fare chiarezza sulla challenge suicida della balenottera blu che in determinate condizioni si spiaggia sulle coste correndo il rischio di non essere più in grado di rientrare in acqua e morendo quindi per asfissia e disidratazione (proprio da questo comportamento anomalo del cetaceo deriva il nome Blue Whale, ndr) ha raccontato di centinaia di genitori di adolescenti che si sono rivolti, nei giorni di massima diffusione della notizia, alla Rete alla ricerca di indizi che potessero suggerire un eventuale coinvolgimento dei propri figli in “giochi” simili o, più in generale, di consigli su come affrontare correttamente il tema suicidio con i più piccoli. Vera o no — e soprattutto credibile o no— che fosse, la notizia del Blue Whale una conseguenza concreta e indesiderabile sembrerebbe averla avuto subito: far aumentare l’interesse e la curiosità, a tratti anche morbosa, dei più giovani verso questo tipo di sfide. Lo suggerisce il volume delle ricerche con query a tema (blue whale, blue whale regole, eccetera) sui principali motori di ricerca, che prevedibilmente mostra un picco in Italia tra il 14 e il 20 maggio 2017 .

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La distribuzione nel tempo delle ricerche effettuate su Google Italia con query blue whale, blue whale regole, eccetera. Fonte: Google Trends

Mentre le ragioni sono da ricercare, forse, oltre che nel semplice voyerismo, in quei bisogni di appartenenza e di identificazione così forti nell’adolescente. Per molti versi — come ha sottolineato in una intervista ai nostri microfoni anche la dottoressa Federica Boniolo, psicologa e presidente di #Unitiinrete, Associazione di Promozione Sociale che si occupa di contrastare bullismo e cyberbullismo — il Blue Whale assomiglia infatti in tutto e per tutto alle challenge, quelle sfide social (e ce ne sono state nel corso del tempo di completamente diverse, dall’Ice Bucket Challenge al Mannequin Challenge, ndr) che un individuo deve effettuare e, soprattutto, poter testimoniare con foto o filmati e che finiscono per diventare moderne e digitali “catene di Sant’Antonio”. Nel caso del Blue Whale a complicare le cose è stata una analogia, millantata da molti, con i procedimenti tipici dei riti di iniziazione, ovvero quei rituali istituiti per far approdare l’adolescente al mondo adulto, quindi carico di responsabilità, attraverso il compimento di varie prove di difficoltà crescente. Tuttavia, le prove su cui questo fenomeno sembrerebbe basarsi non sono “migliorative” e non contribuiscono ad una crescita morale e spirituale come quelle che sono alla base dei riti di iniziazione. Andrea Micheletti sostiene che «più che un rito d’iniziazione, il Blue Whale può essere definito come un “rito di identificazione” nella comunità dei pari. L’iniziazione ha infatti a che fare con il passaggio da uno status sociale all’altro, mentre in questo caso abbiamo a che fare con adolescenti che in mancanza di riferimenti identitari forti cercano l’accettazione nel gruppo, nella tribù. Le prove a cui sarebbero sottoposti non li rendono di fatto migliori agli occhi dei pari o dei genitori, ma li aiutano a sentirsi accettati».

Una forma di comportamento autolesionistico

In effetti, in termini psicologici il Blue Whale potrebbe essere inserito in un discorso molto più ampio sull’autolesionismo – un insieme di atti di “violenza” rivolti a se stessi –, comportamento tipicamente adolescenziale. Dal momento che l’adolescente è per sua natura una persona con un sistema di valori, regole, principi in continua evoluzione e formazione – il che contribuisce a creare una condizione di stabilità personale precaria che è all’origine della fragilità tipica di quest’età –, alla continua ricerca dell’approvazione altrui, risulta comprensibile che possa essere affascinato da gesti e comportamenti estremi, anche di natura macabra, con i quali farsi notare, ricercare stima, emulare i compagni e, in molti casi, comunicare il proprio disagio e la propria sofferenza. Soprattutto in quest’ultimo caso si osserva una grande ‘corrispondenza tra gesti autolesionistici e atti di comunicazione non verbale che esprimono il tentativo di trasferire il dolore interno all’esterno attraverso ferite corporali, come, del resto, spiega Federica Boniolo: «il fenomeno Blue Whale è servito per mettere in luce una problematica che la maggior parte degli adulti ignorava: l’autolesionismo. Non è stato, però, il Blue Whale a dare il via a questo fenomenoil tagliarsi, o comunque il provocarsi lesioni nei modi più disparati (con coltellini, taglierini, temperamatite) o abrasioni (con le gomme da cancellare, per esempio) è un’abitudine abbastanza frequente tra i giovani. Un modo per interrompere o distogliere momentaneamente il dolore dall’anima al corpo, ritenendo il dolore fisico più accettabile di quello interiore; un’azione per scaricare la tensione e la rabbia provate quando qualcosa non va per il verso giusto; infine, un modo per mettersi alla prova, per misurare la propria resistenza e coraggio». Proprio in Russia, paese da cui arriverebbe la challenge in questione, per esempio, l’OMS registrerebbe da anni tassi di suicidi adolescenziali tre volte superiori alla media mondiale, portando il paese a classificarsi come il primo in Europa per numero di suicidi di minorenni. 

Blue Whale e adolescenti

Come accennato, del resto, l’adolescente vive in continua tensione tra bisogni opposti ma complementari di protezione e di indipendenza e, di conseguenza, una continua instabilità lo rende facilmente “manipolabile”. Ed è proprio la manipolazione mentale il meccanismo psicologico principale su cui sembra si fondi questo fenomeno del Blue Whale, come chiarito dalla Boniolo: «la manipolazione mentale, la cui modalità è la stessa usata all’interno delle sette, è senza dubbio il meccanismo psicologico di base di questo fenomeno. Partendo dall’adescamento in Rete, e puntando su azioni pensate per abbassare ulteriormente le difese del minore, si innesca un meccanismo che rende il ragazzo incapace di uscire dalla spirale creatasi».

Ovviamente, affinché possa “attecchire”, un tentativo di manipolazione deve smuovere qualcosa nel profondo della psiche del destinatario: in altri termini, per rendere la manipolazione efficace, il ricevente deve capire cosa può ottenere in seguito all’esecuzione dei comportamenti proposti. Nel caso del Blue Whale, gli adolescenti avrebbero dovuto credere di avere l’opportunità irripetibile di farsi notare e di essere accettati dal gruppo dei pari attraverso dei comportamenti che dimostrano il proprio coraggio e la propria spavalderia.

Come ribadito dalla Boniolo, «fra i bisogni principali dell’adolescente vi è l’essere riconosciuto ed accettato dal gruppo dei pari. […] Gli adolescenti vivono un’età di passaggio, di crisi, in cui la ricerca continua della propria identità passa anche attraverso comportamenti che sfidano i propri limiti ed il proprio coraggio». In linea generale, però, è doveroso precisare che una simile manipolazione trova terreno fertile in personalità predisposte e che sono, per vari motivi, molto fragili oppure che mostrano tendenze depressive, problemi relazionali, sia con i pari – dai quali cercano approvazione e accettazione – sia con i genitori da cui vorrebbero aiuto, sostegno e comprensione.

Il fenomeno, quindi, avrebbe dovuto far leva sulla precarietà adolescenziale, ma non solo: come ribadito dall’esperta, infatti, altri fattori chiamati in causa con un ruolo piuttosto predominante sarebbero «la scarsa consapevolezza del pericolo, ed in alcuni casi una percezione di immortalità che può portare a sottovalutare i rischi o a sovrastimare la propria capacità di cavarsela in determinate circostanze», che nell’era digitale viene accentuata dall’incapacità di riuscire a distinguere del tutto tra la realtà e il virtuale.

Come accorgersi di problemi simili nella vita di un adolescente?

A questo punto sorge spontaneo chiedersi come poter accorgersi della presenza di questo fenomeno o della volontà di emularlo. Come più volte sostenuto dagli esperti, in ogni aspetto della vita, per scongiurare ed esorcizzare i pericoli della Rete, risulta fondamentale il dialogo e il confronto. Federica Boniolo, nell’intervista ai nostri microfoni, sostiene che «per accorgersi di determinate problematiche bisogna prima di tutto avere una conoscenza adeguata del ragazzo, che implica due azioni imprescindibili: il parlargli e lo starci insieme. Il consiglio che mi sento di dare è di cominciare a parlare insieme molto precocemente, di tutto, in modo che il ragazzo senta che nessun argomento è tabù in famiglia. Così facendo si diminuisce la probabilità che in futuro nasconda le cose o dica bugie».

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