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Il brand activism funziona davvero? Un punto della situazione

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Uno studio di Ominigroup PR Italia prova a rispondere alla domanda: il brand activism funziona davvero? I principali insight.

Il brand activism funziona davvero? Il dubbio sorge legittimo in un’epoca in cui è praticamente impossibile per le aziende mostrarsi neutrali davanti alle grandi questioni di interesse sociale. Con “Purpose Italia” Omnicom pr Group Italia ha provato a indagare, così, che implicazioni – in senso lato e, cioè, non solo sugli acquisti o sulle preferenze accordate da consumatori e utenti – abbia per le aziende italiane l’aver fatto una scelta di campo, l’aver eletto un purpose appunto verso cui orientare il proprio business.

Il dato più macroscopico, con buona pace di qualsiasi analisi teorica sull’importanza dell’attivismo di brand, sottolinea come per il 63% degli italiani il sostegno che le aziende danno a cause come l’ambiente, la parità di diritti, l’accesso all’istruzione e via di questo passo sarebbero in realtà soltanto parte del business e ancora più alta è la percentuale di italiani che considera le aziende ancora poco o per niente interessate davvero alla realtà che le circonda.

Quando, perché e come il brand activism funziona davvero

È più facile capire, però, se il brand activism funziona nei fatti tenendo in considerazione alcune discriminanti legate alla natura dell’azienda e a quella della causa sociale a cui si dice devota, per esempio, o a quali obiettivi si intendano raggiungere e, ancora, a che target ci si rivolge.

Secondo “Purpose Italia”, per esempio, piccole e medie imprese e aziende a conduzione familiare come ce ne sono tante in Italia risultano nel complesso più credibili delle grandi aziende quando si schierano a favore di una causa. Allo stesso modo piani di corporate social responsibility e forme di attivismo aziendale sono meglio percepite in settori come la gdo , il food & beverage e tutto ciò che riguarda tecnologia, digitale e innovazione , tanto che in una sorta di top list di aziende che sono riuscite nello scegliere un purpose coerente con la propria storia e i propri valori e d’appeal per i propri consumatori i primi posti sono di brand come Coop, Conad, Ferrero e Barilla.

Come si accennava, anche la natura della causa sostenuta gioca un ruolo importante: le aziende che scelgono di sostenere una causa ambientale (secondo il 36,8% del campione Omnicom), quelle che si dedicano a sviluppare modelli di crescita sostenibile o a rendere paritarie le condizioni di accesso al lavoro (32,5%) e, ancora, quelle sensibili ai temi della salute (30,6%) o attivamente impegnate per risolvere il gender gap in busta paga e non solo (30,5%), parimenti a chi ha all’attivo progetti per l’accesso all’acqua potabile sono ritenuti più credibili nel loro ruolo sociale dai consumatori italiani. Poco rilevante sembra essere ancora, invece, l’attivismo in campo digitale: fuori di metafora, gli italiani sembrano essere convinti che sia solo business – o comunque fortemente legato al raggiungimento di obiettivi di profitto – il fatto che le aziende si schierino a favore di un accesso diffuso alla rete Internet (purpose ritenuto credibile da appena il 15,6% del campione) o sostengano ricerche in campo di robotica e intelligenza artificiale.

Le aziende che hanno scelto una causa a cui dedicarsi o che hanno preso una posizione chiara in riferimento a questioni sociali importanti ne avrebbero guadagnato, comunque, già in preferenze accordate da parte dei consumatori italiani: oltre il 74% del campione preferirebbe soggetti business che hanno un ruolo sociale attivo, cosa che si traduce in un 46,6% di consumatori nostrani che sceglie di acquistarne i prodotti a prezzo pieno anche quando prodotti competitor risultano in offerta e in un 46,8% di utenti che si dice disposto addirittura ad accettare prezzi maggiori. Il brand activism funziona, però, anche in termini di fidelizzazione del cliente, con un 63,5% del campione Omnicom che torna a comprare da aziende già scelte in precedenza che hanno un chiaro purpose sociale, di desiderio del cliente di consigliare ad altri il brand e fare passaparola (così si dica d’accordo il 63,6% degli intervistati) e, ancora, di attrattività dell’ambiente di lavoro, con più di un italiano su due che si dice più propenso a lavorare in aziende che abbiano una certa vocazione sociale.

Chi crede davvero nell’importanza di un chiaro purpose sociale per l’azienda

Quanto a quali tipologie di consumatori reputano importante i programmi di responsabilità sociale delle aziende e il loro ruolo pubblico, “Purpose Italia” sembra smentire un luogo comune: al contrario di quanto si potrebbe pensare, infatti, non sono i consumatori più giovani, millennials o della Gen Z, ad apprezzare in particolar modo – o a pretendere, quasi – che i propri love brand prendano una posizione. L’82% di chi ha tra i 55 e i 65 anni, infatti, acquisterebbe più volentieri prodotti di brand con un chiaro purpose, mentre la stessa percentuale scende al 59% nella fascia 18-24 anni. Non c’è molto da stupirsi, considerato che i baby boomers sono oggi un target oltre che con notevole potere di spesa anche più consapevole e legato all’idea di acquisti dal valore identitario.

Due delle criticità più forti da tenere in considerazione quando si tratta di capire se il brand activism funziona o meno sono, infine, la reale consapevolezza da parte del consumatore della causa o dei progetti che l’azienda sostiene e la capacità di mantenersi fedele all’obiettivo sociale che ci si è posti. Appena il 40% del campione sarebbe in grado, infatti, di nominare aziende – italiane o straniere – che abbiano missione sociale. E quasi il 60% del campione non ha remore ad ammettere che smetterebbe di acquistare i prodotti di un’azienda se questa non si è dimostrata coerente con il suo stesso purpose. Come a dire, insomma, che senza strategia l’attivismo di brand è sempre un’arma a doppio taglio.

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