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Perché serve il commitment dei brand contro le discriminazioni razziali?

Brand contro le discriminazioni razziali: campagne e adv

Cosa fanno i brand contro le discriminazioni razziali è spesso materia di iniziative di CSR e di campagne di comunicazione d'impatto.

Le derive nazionalistiche non animano solo il dibattito pubblico e politico più attuale, ma costringono ogni giorno anche le aziende, come ogni altro soggetto pubblico, a prendere chiare posizioni in merito. Non conta tanto cosa facciano concretamente i brand contro le discriminazioni razziali, conta il loro più generale commitment verso una questione ormai, e da più parti, percepita come emergenziale, nell’America di Trump tanto quanto nell’Italia del governo giallo-verde, per restare sull’attualità più stringente.

Quando sono i clienti a chiedere responsabilità al brand contro le discriminazioni razziali

Chi tace acconsente” scrive, del resto, su Medium Paolo Iabichino – tra i più riconosciuti pubblicitari italiani e Chief Creative Officer di Ogilvy – riferendosi proprio alla necessità che hanno ormai i brand, le aziende di prendere posizione rispetto alla principali issue pubbliche, collettive.

C’entra innanzitutto il ruolo della marca , o meglio il modo in cui questo è percepito, notevolmente cambiato nel tempo: se gli acquisti sono sempre meno funzionali e hanno sempre più a che vedere con una dimensione di status, appartenenza, riconoscibilità, anche al brand si chiede infatti di trasformarsi in un’entità, una figura aspirazionale quasi, con valori, mission , storia in cui sia facile da consumatori riconoscersi. In altre parole? Il brand deve riuscire a mostrarsi umano, dotato di passioni – meglio, ovviamente, se le stesse del suo target di riferimento – devoto a una o a più cause. Serve a creare un senso di intimità con i consumatori, da cui discendono a cascata maggiore fiducia, coinvolgimento più profondo, persino un’esperienza di brand davvero totalizzante.

Ben oltre formule abusate e slogan di successo – come il famoso imperativo de i mercati sono conversazioni, per esempio – è necessario insomma che le aziende, i brand imparino a pensare se stessi non come entità chiuse e finite, ma come sistemi aperti al mercato, agli stakeholder , al contesto specifico in cui operano.

Diversi sono, del resto, rispetto a qualche anno fa innanzitutto i consumatori: l’abbondante narrativa sui Millennial, compresi i loro gusti e le loro abitudini di consumo, descrive per esempio questa generazione sempre meno propensa a usare il risparmio come criterio di scelta e a considerare rilevanti e più convincenti aspetti invece decisamente soft come i valori aziendali appunto o il coinvolgimento del brand nelle stesse cause sociali che la vedono impegnata in prima persona, ecc. Ben più che eventuali obblighi normativi o questioni legate alla cultura aziendale, così, è questa nuova sensibilità dei consumatori a spiegare l’abbondanza e il successo delle iniziative di CSR.

Anche quello che fanno i brand contro le discriminazioni razziali rientra, così, nel filone di iniziative e progetti che suggeriscono un coinvolgimento attivo, concreto dell’organizzazione nella cosa pubblica. La natura specifica del business in questione conta ovviamente nella decisione di sostenere o meno una causa come quella dell’integrazione razziale. E ci sono elementi più contestuali come la storia e il portato culturale del brand, il suo core target, persino il preciso momento storico in corso che potrebbero portare le aziende a prendere apertamente posizione rispetto a un determinato tema. Come già si accennava, così, non stupisce che le ondate di nazionalismo e di intolleranza di questi tempi abbiano in qualche misura costretto i brand a rendere manifesta la propria posizione in materia. Si tratta, certo, di una forma di lealtà e persino di cura verso i propri consumatori. Non si può fare a meno di notare, però, come la giusta operazione di CSR possa portare al brand in questione anche una grande visibilità: con i media sempre più attenti a quello che succede nel mondo aziendale e con le aziende che, dal canto loro, hanno imparato intanto come fare newsjacking (e, cioè, come attrarre forzosamente su di sé l’attenzione mediatica, ndr), infatti, è difficile che una campagna contro le politiche migratorie di un nuovo governo o l’idea di un muro al confine tra Stati Uniti e Messico passi inosservata.

Da Nike al Super Bowl: le campagne dei brand contro le discriminazioni razziali

Lo sa bene Nike che è stata nell’occhio del ciclone sul finire dell’estate 2018 per la scelta, tra gli altri, di Colin Kaepernick come testimonial della campagna celebrativa per il trentennale del payoff Just Do It. Sono passati due anni – due anni in cui, tra l’altro, il campione non è stato ingaggiato da nessuna squadra della National Football League – da quando Kaepernick si fece sostenitore di “Take The Knee”, un’iniziativa che spingeva gli atleti a inginocchiarsi durante l’inno nazionale americano come forma di protesta contro le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine nei confronti dei neri.

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Il volto in bianco e nero e in campo pieno del giocatore, insieme allo slogan scelto (“Credi in qualcosa. Anche quando significa sacrificare tutto”) non potevano certo passare inosservati nell’America di Trump – tanto che proprio di Trump è uno dei tweet più polemici sulla campagna – ed è difficile pensare alla scelta di Nike come casuale e che non suggerisca l’impegno o per lo meno il coinvolgimento ideologico del brand contro le discriminazioni razziali.

Gli immediati precedenti erano stati, del resto, gli spot per il Super Bowl 2018. Vale la pena sottolineare, a questo punto, come la maggior parte dei brand che hanno preso posizione chiaramente e pubblicamente contro odio, pregiudizi e discriminazioni razziali lo abbiano fatto per lo più proprio attraverso campagne di comunicazione e adv: sono tra gli strumenti di CSR più immediati, con cui è più facile arrivare ai propri destinatari e comunque versatili, specie se le alternative sono progetti, più concreti certo, ma che poco hanno a che vedere con le attività core e specifiche del brand in questione.

Coca Cola, per esempio, di certo avvezza a una comunicazione emozionale, per la finale dell’ultimo Super Bowl ha pensato a uno spot di sessanta secondi che già dal titolo (“The Wonder of Us”) sottolineava la meraviglia della diversità che non esclude ma che, anzi, accomuna: non importa infatti il colore della pelle, il credo religioso, l’etnia di appartenenza, c’è la bottiglia di Coca Cola giusta per ciascuno. L’allusione è, ovviamente, anche alla strategia di differenziazione del brand tra prodotti a ridotto contenuto di zucchero, realizzati con la stevia, ecc.

A generare particolare polemica furono in quei giorni, però, le diverse versioni dello spot di 84 Lumber, un’azienda americana specializzata in materiale edilizio. La storyline era quella di un viaggio verso il sogno americano intrapreso da una mamma e una figlia messicane, sogno che nonostante le difficoltà superate e gli sforzi compiuti finiva per infrangersi sul fantomatico muro costruito al confine tra i due Stati. Il sottotesto dello spot era, ovviamente, l’idea trumpiana di un muro appunto tra Stati Uniti e Messico che aiutasse a regolare i flussi migratori tra i due paesi. E l’agenzia che aveva curato la realizzazione della campagna sottolineò allora l’urgenza e la necessità, soprattutto per i brand dalla spiccata identità nazionale, di schierarsi apertamente rispetto a un progetto che di fatto alterava la natura stessa dell’American dream.

Iniziative di brand contro le discriminazioni razziali, comunque, ce ne sono state diverse e anche al di fuori di occasioni specifiche come il Super Bowl appunto. P&G, per esempio, con lo spot “The Talk” ha provato a far riflettere, ancora una volta, sui pregiudizi di cui sono stati vittime da sempre gli afroamericani: non c’è genitore che non abbia dovuto fare una chiacchierata, appunto, con il proprio figlio sui pericoli dell’essere neri in America; se tutti parlassimo di più del problema però, forse, non ci sarebbe più ragione di dover fare queste chiacchierate tra genitori e figli, sembra essere il messaggio dello spot.

Visa ha basato parte consistente della sua comunicazione corporate sull’idea di poter essere disponibile a chiunque e ovunque. “Everyone, Everywhere” è proprio il titolo di una delle principali iniziative di corporate social responsibility del brand che ha come obiettivo abbattere le barriere tecnologiche, culturali, ovviamente anche infrastrutturali che rendono difficile usufruire di prodotti e servizi come quelli per i pagamenti digitali. Un pay off simile accompagnava uno spot realizzato con sequenze vere di veri scontri a sfondo razziale e, anche in quel caso, il messaggio di fondo aveva a che vedere con la necessità di superare pregiudizi e discriminazioni.

Quando la causa dell’accoglienza diventa filosofia aziendale

Se di coinvolgimento aziendale nella causa dell’inclusione si parla, comunque, una menzione speciale non può che andare a Airbnb. Con un progetto come Open Homes gli host del più famoso portale di home sharing hanno fornito alloggi temporanei a decine di migliaia di rifugiati, nella convinzione che tutti debbano avere un posto in cui sentirsi a casa. Sul piano prettamente comunicativo questa stessa idea, che è poi in fondo il cuore della proposta di un servizio come quello di scambio temporaneo di abitazioni e alloggi, si è trasformata in un commercial come “We Accept”: il messaggio è oltremodo chiaro anche in questo caso, non importa colore della pelle, lineamenti, taglio degli occhi in un Airbnb sono tutti, sempre, ben accetti.

Se l’estate 2018 è stata, in Italia, l’estate delle vicende Aquarius e Diciotti, una campagna come quella di Benetton incarna il senso più profondo del commitment dei brand contro le discriminazioni razziali. Due scatti realizzati da una fotografa dell’Ansa sono stati usati come unica componente di una campagna a stampa.

brand contro le discriminazioni razziali benetton

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Il vuoto semantico generato dall’assenza di un copy o di qualsiasi altro elemento a corredo delle immagini sembra dare particolare risalto alla drammaticità di quanto stava accadendo. Anche in questo caso le polemiche sono state accese, con l’intervento in prima persona di Matteo Salvini e una serie di tweet al vetriolo contro gli ideatori della campagna. Campagna che nella formula nell’estetica, comunque, non è nuova veramente: da anni il brand, per via della collaborazione con il fotografo Oliviero Toscani, ha fatto infatti della diversità e della lotta ai pregiudizi etnico-razziali il suo tratto – anche visivo – distintivo; tradotto significa che non c’è nessuno, o quasi, a cui lo slogan «Unite Color of Benetton» non richiami immediatamente alla mente, oltre che i colori dei filati del brand, le immagini della Vlora piena di migranti albanesi che sbarcavano in Italia negli anni Novanta o quella di mani e cuori, anatomici, intrecciati e indistinguibili nonostante la presunta diversità razziale.

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