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Brexit ed Europa: quali conseguenze sociologiche si prospettano?

Brexit ed Europa: quali conseguenze sociologiche si prospettano?

La Brexit, a lungo andare, porterà grandi sconvolgimenti in vari contesti. Quali saranno, però, quelli sociologici più rilevanti?

Il 23 giugno 2016 ha segnato la fine di un’epoca per la comunità europea: il referendum britannico ha espresso a grande voce la volontà del popolo inglese di uscire dall’Unione europea, dando luogo alla Brexit. Considerando che l’Unione è stata costituita con il presupposto di promuovere politiche basate sull’affermazione di determinati valori quali il rispetto della dignità umana e dei diritti umani – compresi quelli degli appartenenti a minoranze –, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza, attraverso il pluralismo, l’assenza di discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la parità tra uomini e donne, è chiaro che la Brexit segnerà degli sconvolgimenti ben più gravi e radicali rispetto a quelli che si era disposti ad ammettere e, probabilmente, ad affrontare. Sconvolgimenti che si ripercuoteranno sull’impostazione valoriale e culturale sia della Gran Bretagna che della restante comunità europea. Si è trattato di una scelta che non era paventata dai più e che invece ha spiazzato tutte le aspettative e le credenze in merito, portando a serie ripercussioni in molti ambiti, tra cui quello sociologico. In particolare, saranno tre gli sconvolgimenti sociologici principali:

  • l’affermazione di un’identità comunitaria o individualistica;
  • il verificarsi di fenomeni culminanti nell’etnocentrismo o nell’integrazione;
  • l’affermazione di un gruppo dominante e le conseguenti minoranze.

La Brexit affermerà un’identità comunitaria o individualistica?

La Brexit può minare il senso di un’identità culturale comunitaria. Per comprenderne le ragioni risulta necessario considerare che i valori con cui è stata fondata l’Unione europea riflettono gli obiettivi che la stessa comunità si era imposta di raggiungere al momento della sua costituzione e cioè

  • garantire la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali all’interno del suo territorio attraverso un mercato europeo comune e la cittadinanza dell’Unione europea;
  • promuovere la pace, i valori e il benessere dei suoi popoli favorendo il progresso scientifico e tecnologico;
  • mirare alla stabilità politica, alla crescita economica e alla coesione sociale e territoriale tra gli Stati membri, cercando di attenuare le differenze socio-economiche e incrementarne il benessere;
  • lottare contro l’esclusione sociale e la discriminazione.

Fatte simili premesse – che chiariscono come il principio alla base dell’esistenza stessa dell’Unione europea e del suo mantenimento sia l’affermazione di un senso comunitario, a dispetto di un tradizionalistico individualismo occidentale – la Brexit può configurarsi come l’evento che ribalta questo scenario, rinnegando tale principio fondamentale. Infatti, dal punto di vista simbolico, sancisce il diniego dell’originario senso comunitario europeo in virtù della tipica affermazione occidentale di individualistico potere, in cui la condivisione di ideali e valori a livello globale viene meno dinanzi alla volontà umana di primeggiare e di imporre la propria autorità e i propri valori fondanti, contribuendo così al ripudio dei concetti europei di cultura ed identità comunitaria.

Inoltre, nello specifico, la Brexit mina il senso dell’identità comunitaria. Premettendo che per identità si intende la concezione che le persone hanno di se stesse e di ciò che per loro è significativo, l’identità comunitaria è una delle tante declinazioni di questo concetto, che si è concretizzata grazie alla formazione dell’Unione europea.

Difatti, con la sua fondazione l’identità ha subito un’ulteriore trasformazione, diventando un’identità ‘collettiva’, in base alla quale i cittadini degli Stati europei si riconoscono come appartenenti ad un gruppo molto ampio ed in virtù del quale condividono gli stessi ideali, diritti, valori, obiettivi, la stessa storia e lo stesso destino della Comunità europea. Un’identità che si fonda sulla condivisione e sull’eguaglianza e definisce l’uomo come portatore di valori accettati da un gruppo vasto, costituito da persone di diversa nazionalità che, sebbene culturalmente diverse, hanno eguali diritti e doveri in qualità di cittadini europei.

Tuttavia la Brexit ha denunciato il bisogno avvertito dal popolo britannico di ritornare ad affermare e a preferire la propria identità nazionale rispetto a quella europea, prendendo maggiormente le distanze da una Comunità cui non ha mai preso parte completamente. Ed il risultato del referendum ha concretizzato la direzione – già ben tracciata – di tralasciare l’ innovazione comunitaria in favore di un ritorno ad un passato individualistico in cui si facevano i conti solo con la propria storia e con la propria tradizione e non con quelle delle altre 28 nazioni.

Sembra effettivamente che con questo voto i britannici abbiano voluto rompere il castello dorato della Comunità basato sull’apparente condivisione di storia e cultura, per affermare una più anti-etica, ma forse più naturale, affermazione della propria individualità.

Il referendum fa riflettere, poi, profondamente sulla condivisione valoriale europea alla base dell’identità comunitaria che non sembra essere, in effetti, così stabile e accettata, come chiarisce la manifesta volontà di altri Stati membri di uscire dall’Unione.

Gruppi, relativismo culturale ed etnocentrismo

Se lo scopo principale dell’Unione europea era quello di “eguagliare” tutti i cittadini degli Stati membri equiparandoli e classificandoli tutti e indistintamente come europei, con la Brexit tutto ciò viene messo in discussione, se non addirittura sovvertito, dando il via libera a fenomeni di razzismo culturale. Difatti, il popolo britannico in questo modo ha chiaramente voluto affermare il primato della propria cultura su quella comunitaria e questo potrebbe generare vari fenomeni inquadrabili come forme di pregiudizi e stereotipi connessi all’etnocentrismo, che indurrebbe i membri della comunità europea a sentirsi come degli ospiti non graditi.

Il concetto di etnocentrismo si ricollega a quello del relativismo culturale, il quale si riferisce alla tendenza ad interpretare o valutare, senza giudicare, le altre culture partendo dalla propria. Sebbene possa sembrare relativamente negativo, in sociologia tale fenomeno ha un’accezione positiva poiché è definito, nello specifico, come «la comprensione di un’altra cultura alle sue condizioni in modo abbastanza simpatetico da farla apparire come progetto di vita coerente e significativo» (Greenwood 1977). Secondo questa definizione, l’obiettivo del relativismo è, dunque, capire le altre culture senza giudicarle, partendo dal presupposto che ciò che è considerato morale in una cultura può essere amorale o eticamente indifferente in un’altra.

Herskovitz, antropologo statunitense esperto di relativismo culturale, affermò il carattere universale di civiltà e culture, sottolineandone la specificità in base ai contesti di riferimento, poiché ogni società è unica e diversa dalle altre e i suoi costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. In questo modo l’antropologo sosteneva l’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e giudicati nell’ambito della propria civiltà senza considerarli come strumenti di paragone per innalzare o condannare (giudicando, quindi) tali culture (Herskovits 1979).

Il relativismo impone di comprendere i fenomeni sociali incompatibili, inquadrandoli nel sistema storico-sociale all’interno del quale si verificano, e di adottare una visione reale delle culture al di là di pregiudizi e stereotipi, senza però mettere da parte i valori appresi nella propria società, ma considerandoli come parte del bagaglio di conoscenze con cui confrontare le nuove culture per avere, teoricamente, più punti di vista e poter valutare una stessa esperienza, grazie ad alternative ragionevoli. Tuttavia, nella maggior parte dei casi ciò non avviene poiché nell’atto di comprendere l’altra cultura, si finisce per rapportala implicitamente alla propria e questo porta, poi, a giudicare quegli stessi usi e costumi in riferimento ai propri, arrivando, in ultima analisi, al cosiddetto fenomeno dell’etnocentrismo.

«Etnocentrismo è il termine usato dagli antropologi per indicare l’opinione secondo la quale il proprio modo di vita è corretto e naturale, anzi il solo vero modo di essere pienamente uomini. Si tratta di una forma di riduzionismo, perché riconduce l’altro modo di vita a una versione deformata del proprio: se il nostro è giusto il loro non può essere che sbagliato» (Schultz e Al. 1999).

L’incontro fra diverse culture presenta una serie di problemi di non facile risoluzione. Infatti, occorre dare pari dignità alle molteplici civiltà, grazie ad una prospettiva multidimensionale che può essere fornita solo dal modello interculturale in cui un ruolo fondamentale è giocato dal sistema di accoglienza dello Stato.

Il sistema sociale di accoglienza, per integrare i diversi usi e costumi, impone il proprio modello culturale agli ospiti/migranti, realizzando ciò che viene definito processo di acculturazione; esso consiste nella trasmissione/imposizione del modello di cultura che caratterizza un sistema sociale a tutti coloro che giungano in esso dall’esterno. Il modello dell’acculturazione è quello che domina, tuttora, nei rapporti fra i sistemi sociali di accoglienza e i migranti.

La crescente spinta verso il multiculturalismo, come soluzione ai problemi nei rapporti fra culture diverse, pone le premesse per un “ammodernamento” del modello di acculturazione, attraverso un sistema che presuppone la coesistenza del mix di cultura basato, da un lato, sull’impostazione, da parte dello Stato ospitante, della propria cultura, e, dall’altro, sull’adozione di un atteggiamento “aperto” verso i costumi, le rappresentazioni, le credenze e le tradizioni appartenenti alla cultura degli ospiti. In questa prospettiva, il concetto di multiculturalismo si manifesta in un atteggiamento di accettazione e apertura verso le culture ospiti, nonché di riconoscimento reciproco fra le culture in contatto. 

A partire da queste generali considerazioni sull’etnocentrismo e sull’integrazione, la preoccupazione dei milioni di cittadini europei che vivono nel Regno Unito è quella di potersi sentire o, peggio ancora, essere trattati dallo Stato ospitante alla stessa stregua degli extracomunitari migranti. In effetti, la Brexit ha segnato il rifiuto della cultura europea in favore della propria e la volontà di affermare il proprio processo di acculturazione ed impostazione dei principi britannici agli stranieri che ora non sono più solo extracomunitari ma anche gli stessi cittadini europei.

Gruppi dominanti e minoranze

Un ulteriore aspetto connesso a quanto finora argomentato sull’etnocentrismo risulta essere la possibile presenza di gruppi di minoranze – extracomunitari ed europei – in aperto conflitto con il gruppo dominante, i britannici. Bisogna precisare, innanzitutto, che i problemi di integrazione dei “nuovi arrivati” non sono equiparabili a quelli affrontati per integrare le cosiddette “minoranze storiche” che hanno costituito per la gran parte degli Stati-nazione esistenti.

Le minoranze, infatti, sono costituite da gruppi di popolazione interni a un sistema sociale e caratterizzate da forme di appartenenza (nazionale, religiosa, linguistica) differenti da quelle assegnate dal sistema stesso. L’unica differenza fra le minoranze e i gruppi di migranti è data dal fatto che le prime sono generalmente integrate nella cultura del sistema sociale in cui trovano cittadinanza, sia culturalmente – accettando i sistemi valoriali e normativi dello Stato ospitante – sia politicamente, godendo dei diritti elettorali; inoltre sono integrate socialmente, godendo dei medesimi diritti e condividendo anche doveri e status.

Viceversa, i migranti sono portatori di una cultura in molti casi estremamente distante da quella del sistema sociale di accoglienza e ciò comporta gravi problemi di gestione delle tensioni che possono sorgere non soltanto sul tema dell’assegnazione dei diritti e degli status ma anche su quello dei valori culturali e dei modelli di comportamento.

Ebbene, se prima della Brexit si poteva assumere che nel popolo britannico i cittadini europei erano pienamente integrati allo Stato ospitante e  che non costituivano, dunque, alcuna minoranza, ora con il referendum la demarcazione tra minoranze e gruppi di migranti potrebbe annullarsi e creare un’unica grande minoranza costituita dagli extracomunitari migranti e dagli stessi cittadini europei, oramai ripudiati dalla Gran Bretagna. Infatti, i cittadini europei, trovandosi a non condividere più gli ideali e i valori della cultura dello stato ospitante, potrebbero avere gli stessi problemi di integrazione che hanno i migranti.

Una spiegazione dei problemi di integrazione, oltre a quelle fornita dal relativismo e dall’etnocentrismo culturale, potrebbe essere fornita dalla teoria del conflitto secondo cui i problemi di integrazione e di gestione delle minoranze possono essere spiegate dalla necessaria presenza del conflitto.

I teorici di tale teoria, infatti, partono dal presupposto che la società si trovi in uno stato costante di cambiamento, in cui il conflitto è una caratteristica permanente, considerata non solo come una violenza aperta ma anche come dissonanza, tensione, ostilità, competizione e dissenso tacito sugli obiettivi e valori. Da ciò si ricava la visione del conflitto non come un evento occasionale che interrompe il funzionamento generalmente armonioso della società, bensì come una parte costante e necessaria della vita sociale. Poiché ciò che generalmente interessa alle persone – e cioè potere, ricchezza e prestigio – è quasi sempre di scarsa disponibilità e la domanda supera l’offerta, chi controlla queste risorse riesce a proteggere i propri interessi a spese degli altri, generando malcontento ed anche tensioni.

In questa prospettiva i teorici del conflitto sostengono che chi detiene il potere costringe il resto della popolazione alla conformità. In altre parole, l’ordine sociale viene mantenuto non con il consenso popolare, ma con la forza o con la minaccia dell’uso della forza. In questo senso il conflitto non è una forza necessariamente distruttiva: può avere spesso dei risultati positivi, in quanto può portare a cambiamenti sociali che altrimenti non si realizzerebbero, impedendo così che la società ristagni.

In conclusione, per i teorici del conflitto la società è composta da gruppi distinti, ciascuno dedito al proprio interesse, e sarebbe questa la maggior causa di conflitto. In effetti, l’esistenza di interessi distinti comporta la costante presenza di un conflitto: quelli che prevalgono nel conflitto diventano gruppi sociali dominanti, quelli che soccombono diventano gruppi sociali subordinati. Ed è proprio questo lo scenario che ha delineato il referendum: il popolo che voleva uscire dall’Europa è diventato dominante, mentre alla restante parte della popolazione non è restato che subire le conseguenze passive di questa scelta. Ciò, a lungo andare, potrebbe creare sia malcontento che diniego dei valori condivisi con l’altra parte, finendo, in ultima analisi, per generare un vero e proprio gruppo minoritario.

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