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Quello che la decisione di boicottare certi profili o certi hashtag dice del rapporto tra cancel culture e social media

Quello che la decisione di boicottare certi profili o certi hashtag dice del rapporto tra cancel culture e social media

C'è un rapporto, più intrinseco di quanto si creda, tra cancel culture e social media. Alcuni studi provano a indagarlo a partire dalle azioni degli utenti.

I sondaggi nelle Storie di Instagram sono un modo, non scontato, per ingaggiare la propria community e Wiko, l’azienda francese produttrice di smartphone, sembra averli utilizzati qualche tempo fa per indagare un tema piuttosto discusso in questi mesi: quello della cancel culture o, meglio, del rapporto tra cancel culture e social media .

Espressione dell’anno del 2019, la “cultura della cancellazione” consisterebbe nel boicottaggio di un personaggio pubblico, un movimento, un’azienda, una corrente di pensiero ma anche prodotti dell’ industria culturale portatori di idee e visioni controverse. Da Woody Allen a Via col vento, in un passato recente ha mietuto molte vittime: ultima in ordine di tempo, per esempio, anche Netflix è stata vittima di call-out quando, dopo la messa in onda di Cuties, è diventato virale l’hashtag #cancelNetflix, un chiaro invito agli utenti dei social a boicottare la piattaforma per lo streaming video, accusata di sessualizzare estremamente delle minorenni nel trailer e nella locandina del film, campagna hashtag che, tra l’altro, sarebbe costata a Netflix il meno 5% in azioni. In cosa si traduce, però, nella vita di tutti i giorni la cancel culture? E come gli internauti cancellano via quotidianamente vip, personaggi pubblici ma anche aziende o influencer da cui sono rimasti delusi?

Più di un instagramer su due ha boicottato altri utenti a causa delle loro opinioni controverse

Secondo i sondaggi di Wiko – che sono validi, sì, ma più che altro come prova sul campo di cosa significhi parlare di cancel culture e social media o, più nello specifico, di cancel culture su Instagram – negli ambienti digitali non si è tanto infastiditi da personaggi famosi, figure pubbliche o influencer che sfruttano popolarità e visibilità di cui godono per sensibilizzare su temi o cause rilevanti a livello pubblico o che sono argomenti caldi di discussione del momento (così per il 58% dei rispondenti su Instagram). Nella maggior parte dei casi, però, quando le opinioni che esprimono o le cause di cui si fanno portavoce sono contrarie alle proprie opinioni, al proprio modo di vedere il mondo o al proprio sistema di valori gli instagramer non hanno remore a boicottare i vip, il personaggio pubblico in questione (lo fa il 70% di chi ha risposto) e quasi sempre lo fanno smettendo di seguirli (azione preferita da almeno l’84% del campione Wiko, soprattutto perché non è un’azione di cui l’altro si accorge facilmente).

Vittime di forme diverse di call-out – un sinonimo di cancel culture – sui social media sono spesso, però, anche persone comuni, altri utenti conosciuti in Rete o amici, familiari e conoscenti che si seguono anche online. Ancora, il 75% di chi ha partecipato ai sondaggi di Wiko ammette di aver smesso di seguire qualcuno tra i propri contatti proprio perché in disaccordo con le sue opinioni o perché deluso da alcuni suoi comportamenti dentro e fuori la Rete.

Altri dati, riportati da Politico e riferiti a un pubblico perlopiù americano, sottolineano come gli utenti dei social siano anche i meno propensi a dimenticare: per più della metà (il 54%) degli intervistati anche dichiarazioni o comportamenti controversi vecchi più di uno anno sono capaci di cambiare «completamente» o «in parte» la propria opinione sul loro autore; solo poco più di una persona su quattro è disposta a lasciar correre in casi come questi.

Ci sarebbe, poi, una sorta di propensione generazionale a rispondere con il boicottaggio a messaggi di personaggi pubblici o aziende, soprattutto se grandi e considerate alla stregua di love brand , inappropriati, contrari all’idea che ci si era fatti degli stessi o al ruolo che essi ricoprono. Ancora secondo Politico, la generazione z sarebbe la più propensa a mettere in pratica la cancel culture, sui social e non solo, seguita a breve distanza dalla generazione dei millennials : gran parte delle ricerche di mercato, del resto, descrive queste due generazioni come le più attente a compiere scelte – di consumo, di stile di vita, di voto, ecc. – perfettamente in linea con i valori in cui credono e le più intransigenti nei confronti di chi tradisce questi stessi valori.

QUANDO ALCUNE FORME DI call-out rischiaNO di AVVICINARSI AL bullismo

C’è un aspetto decisamente più controverso, però, che non dovrebbe essere trascurato quando si parla di giovani o giovanissimi, cancel culture e social media. Cancellare via, tramite strumenti e funzioni offerte dalle piattaforme digitale come la possibilità di bloccarle o silenziarle e metterle in pausa, persone con cui non ci si trova più d’accordo può essere, a volte, una forma di cyberbullismo , al pari del doxing o del furto dei profili social per esempio. The New York Times racconta in un articolo alcune storie di pre-adolescenti e adolescenti che si sono ritrovati a non essere più seguiti sui social dalla maggior parte di compagni e amici di scuola da un giorno all’altro e il vuoto da cui erano attorniati si è presto trasferito dai soli feed virtuali anche agli spazi fisici della mensa scolastica per esempio. Se la cancel culture fa, per definizione, terra bruciata attorno a chi ne è vittima, quando di mezzo ci sono bambini e ragazzi il rischio è che ci si ritrovi a cancellare via semplicemente chiunque abbia idee, storie familiari, un passato diversi dal proprio: non dovrebbero sorprendere, insomma, le confessioni ancora al New York Times di ragazzini che hanno deciso di cancellare via, non rivolgendogli più parola, questo o quell’altro compagno di scuola perché vicini alla black culture.

Cancel culture e social media: due facce della stessa medaglia?

La cultura della cancellazione, insomma, vista più da vicino può sembrare una sorta di frattale di logiche e meccanismi con cui funzionano gli ambienti digitali, tanto che a volte parlare di «cancel culture è una distrazione», titola un altro articolo di The New York Times. Da sempre, già prima che cancel culture diventasse espressione dell’anno, negli ambienti digitali e grazie ai social network le persone hanno l’opportunità di rivolgersi a pubblici potenzialmente sconfinati e dire la propria: se l’emittente di un messaggio ha un certo potere dato dalla visibilità e dall’esposizione inedite dei suoi stessi messaggi, il destinatario ne ha un altro, non meno decisivo, quello di smettere di ascoltarlo o di metterlo a tacere quando vuole, grazie a funzioni ad hoc. Anche le dinamiche di gruppo sono decisamente più fluide: con facilità si entra e si esce da «parti abitate della Rete» diverse e si può essere certi che ciascuna di questa sarà una echo chamber delle proprie idee, delle proprie opinioni, dei propri valori; senza contare che, si sa, in gruppo le posizioni si estremizzano, si polarizzano con estrema facilità. Quello tra cancel culture e social media è, insomma, un rapporto controverso che non si può credere esaurito indagando come gli utenti boicottano negli ambienti digitali personaggi e idee controverse, ma che ha molto più a che vedere invece con come la cultura digitale dà forma al nostro modo di rapportarci con gli altri.

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