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Chi sono i nativi digitali? Un ritratto e qualche mito da sfatare

Chi sono i nativi digitali? Un ritratto e qualche mito da sfatare

Diversi studi hanno provato a definire chi sono i nativi digitali: sono emersi abitudini, dipendenze e miti da sfatare.

Chi sono i nativi digitali? Trovare risposta a questa domanda potrebbe risultare più difficile di quanto si immagini. La letteratura sul tema, infatti, è abbondante e in parte discorde, soprattutto quando si tratta di definire le caratteristiche anagrafiche che contraddistinguono questa generazione di individui cresciuti a stretto contatto con tecnologie e ambienti digitali dai cosiddetti “digital immigrants”, “migranti digitali” che sono arrivati solo più tardi e già adulti (o quasi) a familiarizzare con simili realtà.

Millennial o Gen Z: chi sono i nativi digitali?

C’è chi identifica, così, i nativi digitali con la categoria dei Millennial: nati a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, rappresentano la prima generazione che ha vissuto un’epoca pervasa dalle tecnologie della comunicazione e a improntare, in molti casi, addirittura le loro carriere sulle nuove professioni digitali molto richieste sul mercato.

Mentre spopolano, così, ritratti dei Millennial e studi che mirano a identificarne desideri, aspirazioni, abitudini di consumo o a sfatare i principali miti a riguardo, c’è anche chi sostiene però che non tutti i Millennial sono nativi digitali, esattamente come non tutti i nativi digitali sono Millennial. Tra i primi c’è, infatti, chi pur essendo cresciuto tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila ha avuto accesso limitato alle tecnologie digitali, per ragione socio-economiche per esempio. E d’altro canto c’è chi propone di riservare l’etichetta di digital natives alla sola generazione successiva, la Gen Z – in cui rientrato individui nati dopo il 1995 – o iGen, come la definisce la psicologa americana Jean Twenge in un omonimo libro e in un articolo su “la Lettura” del 20 agosto 2017: si tratterebbe, quindi, della «generazione dell’iPhone, che non ricorda un tempo senza Internet»

Come (e perché) nacque la definizione di nativi digitali

Più che chiedersi chi sono i nativi digitali da un punto di vista demografico e generazionale, insomma, vale la pena prendere in considerazione fattori più “soft” come il ruolo sempre crescente che tecnologie e ambienti digitali hanno assunto nella vita privata e lavorativa di giovani e giovanissimi.

Non a caso, del resto, l’espressione nativi digitali (“digital natives”, in origine) è stata coniata da Marc Prensky, un educatore professionista che sostenne come i bambini esposti fin da subito all’uso della tecnologia digitale sviluppassero strutture d’apprendimento diverse rispetto a quelle della generazione immediatamente precedente, quella dei cosiddetti “migranti digitali” e che elaborassero persino le informazioni in maniera differente. Le posizioni di Prensky risultarono da subito controverse e numerosi altri studiosi hanno contribuito nel tempo ad alimentare il dibattito sulle presunte capacità di elaborazione, comprensione, apprendimento diverse dei nativi digitali. Alcuni studiosi hanno sostenuto, per esempio, che il cervello di chi è cresciuto in “era digitale” presenti addirittura strutture e legami in parte diversi perché esposto a nuove forme di stimoli creati dalle interfacce digitali. Ciò si traduce, in qualche caso, nelle posizioni apocalittiche di chi sostiene che quello della iGeneration sarebbe un cervello “prosciugato” (“brain drain” è la formula originale con cui gli studiosi americani si riferiscono al fenomeno, ndr) dalla continua esposizione, che si fa dipendenza, a tutta questa tecnologia “tascabile”. La stessa Jean Twenge è, per esempio, tra la schiera di chi sostiene che il solo possesso di uno smartphone – del resto sempre più precoce poiché, secondo alcuni dati, già i tredicenni ne avrebbero uno – sia in grado di ridurre le capacità cerebrali.

Cosa fanno in Rete i nativi digitali?

Complice, s’intende, un ammontare di ore trascorse online che è da anni in crescita costante. È del 2015, per esempio, un’infografica sui comportamenti tipo dei nativi digitali realizzata da Il Sole 24 Ore sulla base di alcuni dati OCSE riferiti al 2012 che sottolinea come in età scolare i giovanissimi passino sul web molte più ore di quelle che, fino a qualche tempo fa, i loro coetanei impiegavano sui testi scolastici: mentre il tempo per i compiti scritti si riduce mediamente a mezz’ora, quello trascorso sul web sale ad almeno due ore al giorno, che diventano quasi tre – per la precisione una media di 171 minuti al giorno tra maschi e femmine – nel fine settimana. Quanto alle attività più popolari tra i digital natives ci sono

  • l’uso dei social media : un nativo digitale su due li usava quotidianamente già allora ed è facile immaginare che la percentuale sia aumentata considerevolmente in due anni;
  • l’intrattenimento: oltre il 44% degli adolescenti dichiarava, infatti, di usare giornalmente Internet per divertimento;
  • l’uso di chat, frequentate ogni giorno, nel 2015, da almeno il 30% del campione.

infografica nativi digitali

Solo dopo vengono attività come il download di musica, film, giochi e software (meno di un utente su quattro lo fa ogni giorno), la fruizione di notizie online (in questo caso la percentuale oscilla tra un 15.5% delle ragazze e il 22.6% dei coetanei maschi) e la ricerca di informazioni sui motori di ricerca più comuni (che supera appena il 10%).

Quando le abitudini “online” contagiano la vita “offline”

Non solo online, però, le abitudini dei digital natives sarebbero in parte diverse da quelle delle generazioni precedenti anche quando si considera la vita e le attività quotidiane fuori dalla Rete. Lo stesso approfondimento de “la Lettura”, che riporta le opinioni della Twenge su chi sono i nativi digitali e quali sono i pericoli a cui vanno incontro più dei loro genitori, evidenzia alcuni comportamenti dei giovanissimi nella vita reale molto diversi rispetto a quelli di chi è cresciuto in epoca “pre-digitale”. Il numero di adolescenti che si vede ogni giorno con gli amici, per esempio, è crollato di oltre il 40% in quindici anni, tra il 2000 e il 2015. Lo stesso è successo con i primi appuntamenti: appena il 56% dei diciottenni di oggi ne ha uno, contro una percentuale che era di oltre l’85% per la generazione precedente di Baby Boomer e Gen X. Il risultato? Nell’ultimo caso, per esempio, sono sessualità e dimensioni affettive stravolte dalla tecnologia. Anche il mito “lavoretto estivo” per pagarsi la macchina (che, a proposito, ancora secondo la studiosa americana non sarebbe più l’oggetto dei desideri dei giovanissimi, scalzata dallo smartphone, ndr), gli sfizi, le vacanze non sedurrebbe più i nativi digitali che, come anche molti altri studi hanno dimostrato, risulterebbero nel complesso anche decisamente meno felici, più soli e a rischio depressione delle generazioni precedenti. Inutile sottolineare però che, se è vero che una dipendenza da social network , smartphone e tecnologie c’è, questa potrebbe essere spia – e non foriera, invece – di un disagio molto più profondo e con radici da cercare nel contesto familiare e ambientale vissuto da giovani e giovanissimi.

Nativi digitali: qualche mito da sfatare

Rispondere alla domanda su chi sono i nativi digitali, del resto, non significa automaticamente essere in grado di smentire alcuni falsi miti che circolano su di loro. Il Nielsen Norman Group ci ha provato nell’ambito di un’indagine sulle abitudini degli Young Adult, una delle etichette più usate per riferirsi ai venti-trentenni specie come target ben definito di prodotti editoriali, cinematografici, multimediali, ecc.

La prima e più importante falsa credenza da sfatare è risultata, in questo senso, quello che digital natives e Millennial tendano a evitare i rapporti personali, specie quelli faccia a faccia, e a preferire le interazioni online. Un esempio su tutti? È vero che i più giovani prediligono le app di messaggistica istantanea, ma sembra effettuino anche lo stesso numero di chiamate vocali dei loro genitori. In altre parole? Messaggi e chat non sono che uno strumentosupplementare”, che non rimpiazza le comunicazioni dirette e a voce, specie quando si tratta di ottenere aiuto o informazioni utili.

Ai nativi digitali, poi, viene spesso attribuito un innato multitasking, cioè la capacità di compiere più azioni contemporaneamente: si tratta soltanto di una mezza verità. È vero, infatti, che più di qualsiasi altra fascia d’età i giovani tendono a passare velocemente da un’attività all’altra o a utilizzare più media diversi contemporaneamente — si consideri, in questo senso, l’abitudine al second screen che rappresenta il fenomeno più rilevante quanto a una fruizione nuova della televisione. Che siano più propensi a scegliere il multitasking non significa, però, che riescano bene nello svolgere più attività contemporaneamente: anzi, numerosi studi hanno mostrato gli effetti negativi del multitasking su capacità di concentrazione, efficacia e qualità dei risultati ottenuti, ansia da prestazione persino.

Il più grande mito sui nativi digitali riguarda, comunque, la loro presunta familiarità innata con la tecnologia: a sfatarlo bastano le evidenze che hanno mostrato come le competenze digitali degli studenti italiani siano nella maggior parte dei casi non convincenti e poco competitive o che molti dei Millennial fatichino addirittura a riconoscere il significato di termini essenziali della sharing economy. Di vero c’è, invece, una maggiore confidenza con gli ambienti digitali che “frequentano” ogni giorno – secondo il Nielsen Norman Group avrebbero maggiore familiarità, per esempio, con concetti come gli hashtag o i wiki usati per l’apprendimento, tra l’altro – e una maggiore capacità di mettersi in gioco. Guai a immaginare, insomma, quella dei nativi digitali come una super generazione di tech-savy.

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