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Chiamate mute e telemarketing: la situazione in Italia nel 2016

È arrivato lo stop della Cassazione alle "chiamate mute" su telefoni cellulari da parte di call-center di società di telemarketing.

Sono tantissime le società di telemarketing che, avvalendosi di sistemi di chiamata automatizzati, contattano simultaneamente più numeri di quanti gli operatori telefonici presenti non siano in grado di gestire, causando, pertanto, un elevato numero di “chiamate mute” (senza risposta).

Le prescrizioni del Garante in seguito ad attività ispettive

Dopo numerosi accertamenti ispettivi, il Garante per la protezione dei dati personali, ritenute le suddette “chiamate mute” non conformi ai principi informatori della normativa a tutela dei dati personali, prescriveva alle società ispezionate, con l’obiettivo di ridurre il disagio provocato, di adottare tutte le misure – anche tecniche – finalizzate a garantire la non «reiterazione di chiamate su contatto abbattuto» (chiamate mute). Il Garante, pertanto, escludeva la possibilità di richiamare la specifica utenza per un intervallo di tempo pari almeno a trenta giorni.

Il pregiudizio subito dai consumatori

Secondo il Garante il fenomeno di tale tipologia di “chiamate mute” «ingenerano nel chiamato ansietà, allarme, interrogativi circa la provenienza e disappunto, sia poiché si è naturalmente portati a porle in diretta relazione con comportamenti illeciti (controlli indebiti, molestie, verifiche di malintenzionati preliminari alla commissione di eventuali reati, quali furti o aggressioni etc.), sia perché si ha la sgradevole sensazione dell’impossibilità di essere messi in contatto con qualcuno potenzialmente foriero di rilevanti informazioni» [cfr. Provvedimento generale a carattere prescrittivo sulle c.d. “chiamate mute” del 20 febbraio 2014 (doc. web n. 3017499)].

L’opposizione al provvedimento

Due delle società interessate dal provvedimento – rispettivamente un’azienda di teleselling ed un gestore di piattaforme ICT – decidevano, pertanto, di ricorrere al Tribunale di Roma. Quest’ultimo, ritenendo provata la condotta dei gestori alla luce delle numerose segnalazioni al Garante da parte dei consumatori, rilevava come le chiamate mute non abbiano alcuna utilità se non allarmare il cittadino coinvolto, senza poi concretizzarsi in alcuna trattativa commerciale.

A parere del Giudice di prime cure, quindi, tale modalità di telefonate multiple (parte delle quali “mute”) è illegittima in quanto configura un trattamento di dati non conforme al principio di correttezza prescritto dall’art. 11 del Codice della privacy (di seguito, “cod. privacy”), creando unicamente disagi in capo ai consumatori.

I gestori decidevano, dunque, di ricorrere alla Corte di Cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Roma.

Il ricorso in Cassazione: nuovi principi sulla legittimazione del trattamento

Nell’impugnazione le ricorrenti sostenevano che il singolo Stato membro non potesse, a norma dell’art. 7 delle Direttiva 95/46/Ce, prevedere ulteriori nuovi principi in ordine alla legittimazione del trattamento dei dati personali: la presenza di un consenso documentato, ovvero l’impiego del sistema di “opt-out”, dovrebbe costituire elemento di liceità e legittimazione, non potendosi aggiungere alcun ulteriore vincolo.

Ciò nondimeno, la Corte, pronunciando sul ricorso, ha ritenuto che l’art. 7 della Direttiva abbia un sufficiente grado di elasticità tale da consentire che ciascun Stato membro possa integrare le previsioni addizionando ulteriori principi, se ritenuti essenziali per la maggior protezione dei dati personali degli utenti.

I sistemi automatici di chiamata e le chiamate mute

Un ulteriore interessante aspetto della motivazione della sentenza in parola è relativo alla deduzione della Suprema Corte che equipara le chiamate mute alle chiamate “automatizzate”. Essa, infatti, rileva che tali tipologie di chiamate «non rientrano nel concetto di marketing diretto con operatore, ma involgono sistemi automatici di chiamata […] proprio perché in esse l’operatore manca».

Il consenso dell’interessato alla luce della Direttiva 2002/58/Ce

Secondo i Giudici di legittimità la norma di cui all’art. 130, co. 3 bis cod. privacy («il trattamento dei dati di cui all’art. 129 […] è consentito nei confronti di chi non abbia esercitato il diritto di opposizione») non ha il significato generalissimo che le ricorrenti intendono attribuirle, ma va interpretata in coerenza con la Direttiva 2002/58/Ce sull’e-privacy, la quale completa la direttiva sulla protezione dei dati personali e comprende tutte le tematiche di potenziale interesse per la sfera privata nell’ambito delle comunicazioni elettroniche. Infatti – sostengono gli ermellini – la direttiva sull’e-privacy «consente l’opt-out per le chiamate con operatore, non mai invece per le chiamate automatizzate».

Le conclusioni della Corte

In conclusione, la Corte sostiene che in conformità alla Direttiva sull’e-privacy, relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, l’art. 130, co. 3 bis cod. privacy, che consente, in deroga al principio del consenso espresso previsto dall’art. 129, il trattamento dei dati personali mediante l’impiego del telefono per le comunicazioni di natura commerciale nei confronti di chi non abbia esercitato il diritto di opposizione mediante iscrizione della propria numerazione nel registro pubblico delle opposizioni (j), non trova applicazione nel caso in cui l’autore del trattamento abbia inviato telefonate senza operatore (cd. telefonate con contatto abbattuto o “mute”) né in quello in cui l’utenza chiamata non risulti inserita in uno degli elenchi cartacei o elettronici a disposizione del pubblico di cui all’art. 129 cod. privacy (come nel caso dei telefoni cellulari). Rigetta pertanto i ricorsi.

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