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Web marketing, brand protection e concorrenza sleale online: il Cybersquatting

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La conoscenza delle condotte non consentite, quali il cybersquatting, risulta uno strumento essenziale per tutelare il proprio brand online.

L’evoluzione tecnologica e in particolare la capillare diffusione di Internet hanno comportato lo sviluppo di nuove tipologie d’impresa e di innovative modalità commerciali che oggi assumono primaria rilevanza economica e sociale.
Superata l’iniziale corrente di pensiero secondo cui il mondo virtuale non sarebbe sottoposto alle leggi dell’ordinamento giuridico, è ormai pacifico che gli operatori economici della rete debbano competere nel rispetto delle regole di concorrenza. Tuttavia, accanto alle “classiche” forme di concorrenza sleale, la società dell’informazione ha visto nascere nuove fattispecie illecite.
Nell’elaborare efficaci strategie di web marketing, tenuto conto delle esigenze di tutela del brand online, è quindi opportuno conoscere quelle che sono le principali pratiche scorrette sviluppatesi nel mondo virtuale.

Tra i fenomeni più diffusi che si riferiscono all’uso non autorizzato di marchi altrui ci sono il registrarli come nome a dominio (cybersquatting o domain grabbing) e l’utilizzarli come keyword nei motori di ricerca (meta-tag). Esistono tuttavia ulteriori pratiche commerciali scorrette, che saranno analizzate in un secondo articolo sull’argomento.

1. Cybersquatting o Domain Grabbing

Il cybersquatting consiste nella registrazione di nomi a dominio corrispondenti al marchio e/o alla denominazione sociale/nome altrui allo scopo di sviarne la clientela e, in caso di marchi rinomati, sfruttarne la notorietà, ovvero per ottenere un indebito arricchimento dalla vendita del dominio al legittimo titolare del segno distintivo.
Il titolare del marchio si vedrà così preclusa la possibilità di registrare il dominio corrispondente al proprio segno ma, soprattutto in caso di marchi notori, vedrà il proprio segno distintivo indebitamente sfruttato da un terzo, che beneficerà della proprietà industriale altrui in termini di accessi al sito e visibilità del portale.
La diffusione capillare della pratica scorretta del cybersquatting è dovuta alla stessa regola su cui si fonda l’assegnazione dei nomi a dominio: il cosiddetto principio delfirst come, first served’. Le registration authorities, infatti, nell’assegnare i vari nomi a dominio seguono un criterio puramente cronologico: il primo a richiedere la registrazione di un nome a dominio sarà colui al quale il nome a dominio verrà assegnato. A scopo cautelativo, sarebbe quindi auspicabile valutare una strategia di registrazione di un portafogli di nomi a dominio simili al proprio brand, impedendone così la registrazione a terzi.

L’inerzia dei governi nazionali in ordine alla regolamentazione in materia di nomi di dominio ed in particolare di cybersquatting, ha comportato che della materia se ne sia occupata inizialmente un’organizzazione privata, l’ICAAN (Internet Corporation for Assigned Names and Number).
L’ICANN è l’autorità internazionale deputata all’amministrazione dei domini tematici, e svolge un ruolo di guida fissando i criteri generali che soprassiedono alla registrazione, avvalendosi della collaborazione di enti di registrazione, detti accredited registrars, ovvero di società selezionate dall’ICANN stessa.
Al fine di arginare il dilagare dei conflitti conseguenti alla registrazione di domain names, l’ICANN intervenne adottando il 26 agosto 1999 il documento “Uniform Domain Name Dispute Resolution Policy” (UDRP), che contiene i principi generali che devono essere tenuti in considerazione dai vari registrars per la risoluzione dei conflitti che nascono dall’utilizzo dei domain names. La Policy è stata adottata anche da alcune authorities nazionali, tra cui anche quella italiana (Registro.it).
Qualora sussistano determinati requisiti (nome a dominio identico o simile al marchio altrui; mancanza di interesse legittimo sul segno del titolare del dominio; registrazione e uso in malafede del dominio) il titolare del marchio può attivare la procedura amministrativa di cui alla UDRP che, con tempi e costi contenuti rispetto ad un giudizio ordinario, permette di ottenere il trasferimento o la cancellazione del nome a dominio contestato.

In Italia, la giurisprudenza prevalente ha fatto ricorso alla normativa in materia di marchi e segni distintivi, stabilendo che il titolare di un marchio registrato ha il diritto di servirsene in modo esclusivo e, di conseguenza, di registrarlo anche quale dominio.
Nel caso di registrazione ed utilizzo di marchio altrui quale domain name, il titolare potrà quindi agire in giudizio, anche con procedura d’urgenza, e richiedere, oltre al trasferimento e/o alla cancellazione del dominio contestato, il risarcimento dei danni subiti.

Un’ipotesi particolare di domain grabbing è la pratica del typosquatting, che consiste nella registrazione di un nome a dominio del tutto simile ad un marchio altrui ma contenente un refuso, allo scopo di intercettare traffico internet derivante da errori di battitura nell’ url . Poiché comporta lo sfruttamento parassitario del traffico internet dirottato, questa è considerata pratica di concorrenza sleale confusoria.

2. Meta-tag

È illecito l’utilizzo di meta-tags (ovvero le parole chiave utilizzate dai motori di ricerca per individuare ed indicizzare i vari siti presenti sulla rete) corrispondenti al segno distintivo altrui, allo scopo di far comparire tra i risultati della ricerca il proprio sito web.
La giurisprudenza, sia italiana che comunitaria, si è espressa più volte sulla questione.
Una delle prime pronunce italiane in materia è stata quella del Tribunale di Roma che, con ordinanza del gennaio 2001, ha stabilito che compie atti di concorrenza sleale l’impresa operante nel medesimo settore che, sfruttando la notorietà del marchio altrui, utilizzi come keyword il segno distintivo della concorrente per far comparire il proprio sito web tra i risultati dei motori di ricerca. Veniva invece escluso che tale condotta costituisse anche contraffazione del marchio, in quanto, essendo il meta-tag invisibile all’internauta, il segno non sarebbe stato utilizzato in funzione distintiva.
Con particolare riferimento ai servizi di keywords advertising (la pubblicazione tra i risultati dei motori di ricerca di annunci a pagamento correlati alle parole ricercate), con decisione del febbraio 2009 il Tribunale di Milano ha invece stabilito che l’uso di marchi altrui come parole chiave delle inserzioni a pagamento costituisce un’ipotesi oltre che di concorrenza sleale, anche di violazione di marchio.

A livello di Unione Europea, con decisione della Corte di Giustizia U.E. del 2011 (c.d. sentenza Interflora), i giudici comunitari hanno condannato una famosa impresa di gdo inglese che aveva utilizzato come meta-tag il noto marchio di un’azienda di vendita e consegna di fiori a domicilio, per pubblicizzare il proprio analogo servizio.
La sentenza ha stabilito che il titolare di un marchio che gode di notorietà ha il diritto di vietare l’uso del proprio marchio da parte di un terzo nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, qualora detto concorrente tragga indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio oppure nel caso in cui tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo o a detta notorietà.
I giudici si sono tuttavia premurati di specificare che il titolare di un marchio famoso non può vietare annunci pubblicitari fatti comparire dai propri concorrenti a partire da parole chiave che corrispondono al proprio marchio e propongono, senza arrecare pregiudizio alla funzione distintiva del marchio, un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del noto segno.

Sulla base dei criteri stabiliti dalla predetta decisione comunitaria, il Tribunale di Palermo nel giugno 2013 ha negato la responsabilità del fornitore del servizio pubblicitario, in quanto questi si limita a fornire un servizio di hosting, senza avere alcun obbligo di controllo sul contenuto delle informazioni immesse dagli utenti. Inoltre, nel caso di specie, una volta venuto a conoscenza dell’illecito, pur in assenza di un ordine dell’autorità, l’Internet Service Provider si sarebbe prontamente attivato per bloccare l’associazione delle inserzioni con il marchio in contestazione.

La Corte di Giustizia UE ha inoltre recentemente stabilito che non è responsabile di contraffazione di marchio l’azienda che dimostri di aver fatto tutto il possibile per eliminare inserzioni online che associno il proprio nome al marchio altrui, se il gestore del sito internet non dà seguito alla relativa richiesta di cancellazione.

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