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Coronavirus e informazione online: gli utenti preferiscono i media tradizionali ai social, ma hanno paura delle fake news

coronavirus e informazione online

Dati e studi su coronavirus e informazione online parlano di fiducia ritrovata nei confronti dei media tradizionali e paura per le fake news.

La pandemia in corso ha già cambiato il nostro rapporto con giornali, notizie e fonti di informazione? Numerosi studi hanno provato a indagare il binomio coronavirus e informazione online (soprattutto), con approcci diversi e arrivando a risultati in parte diversi.

Coronavirus e informazione online: più news generaliste

Un filo rosso tra tutti è stato, però, l’aumento della quantità di informazione consumata nei paesi in lockdown. Secondo Comscore, per esempio, in Italia le visite ai siti generalisti di news sono aumentate del 142% allo scoppio dei primi focolai di coronavirus rispetto solo alla prima settimana del 2020. L’indagine, allargata ai paesi europei attualmente più interessati dalla pandemia, ha messo in luce però almeno un altro aspetto interessante: l’emergenza coronavirus ha «monopolizzato l’attenzione dell’opinione pubblica”» dei diversi paesi in maniera, per così dire, graduale e cioè solo a partire da quando il numero di contagi è cominciato a crescere dentro i confini del territorio nazionale. Non a caso il boom di visite ai siti di general news sarebbe iniziato in Italia già tra il 17 e il 23 febbraio 2020 e in altri paesi Europei (come Francia, Germania, Regno Unito) solo più tardi, nella settimana tra il 9 e il 15 marzo.

coronavirus e informazione online aumento traffico siti di news

Così sono aumentate le visite ai siti generalisti d’informazione europei allo scoppio dei diversi focolai d’infezione da covid-19. Fonte: Comscore

L’analisi di Audiweb dell’audience online durante l’emergenza coronavirus arriva a conclusioni simili, identificando però sia le fasce di utenti a cui è attribuibile questa quantità di tempo in più trascorso sui siti di informazione, sia le sottocategorie di siti risultate più visitate nelle diverse settimane, man mano che ci si abituava all’idea – e al bisogno – di restare a casa. Donne leggermente in più degli uomini (si è trattato di un aumento, per le prime, del 101% e per i secondi del 91%) e, per lo più, nelle fasce d’età tra i 35-44 e i 45 e 54 anni (rispettivamente +118% e +114%) stanno passando più tempo sui siti di online news ora che si trovano in quarantena domestica rispetto a quanto avvenisse nella normalità. Nelle prime due settimane di lockdown italiano, più nel dettaglio, la curva dell’audience online è cresciuta soprattutto per i siti di news e informazione, che hanno raggiunto in media un +102% di audience e fatto segnare picchi di +123%, per esempio, in categorie come “current events & global news“. Alla terza settimana di quarantena la crescita nel numero di lettori online di news online si stabilizza e il boom sembra riguardare, invece, sempre di più anche i siti di “home & fashion” (+114% nella settimana dal 16 al 22 marzo 2020) e, in misura minore, quelli di intrattenimento (+31%) o appartenenti alla categoria “family & lifestyles” (+23%): gli italiani a casa sembrano manifestare, così, il bisogno di contenuti «utili» per passare il tempo tra cucina, fai da te, cura della persona e smart working .

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Mentre nelle prime due settimane di lockdown gli italiani sembrano aver passato gran parte del proprio tempo online su siti di news, a partire dalla terza hanno cercato anche contenuti “utili” per trascorrere il proprio tempo in casa. Fonte: Audiweb

meno social DURANTE L’EMERGENZA: un ritorno di fiducia VERSO I media tradizionali?

Altro aspetto che sembrano avere in comune molti studi su coronavirus e informazione online ha a che vedere con la scelta dei social media come fonte primaria d’informazione. Ormai da anni presenti nelle diete mediatiche degli italiani e, in non pochi casi, come fonte privilegiata per informarsi, soprattutto quando si è fuori casa o in movimento, in pochi opterebbero in questi giorni per social come Facebook, Twitter o il più nuovo TikTok quando si tratta di tenersi informati sulla situazione dei contagi, del numero delle vittime, dei provvedimenti intrapresi dai governi. Secondo il già citato studio di Comscore, infatti, il tempo trascorso su piattaforme come queste sarebbe aumentato durante questa pandemia, sì, ma di appena il 30% in Italia e, soprattutto, appena il 32% degli italiani le sceglierebbe come fonti di informazione uniche o privilegiate, al penultimo posto nella classifica di fonti considerate “fiduciarie” della speciale edizione dell’Edelman Trust Barometer, prima solo di famiglia e amici. Potrebbe entrarci, certo, la volontà degli utenti di riservare ai social un utilizzo più personale, legato alla possibilità di restare in contatto con familiari e amici lontani da un lato e, dall’altro, di esprimere messaggi positivi che abbiano a che vedere con solidarietà, senso di responsabilità civile, necessità di far fronte comune davanti all’emergenza (questo è almeno quello che sottolinea l’Osservatorio “Italiani e social media in tempo di coronavirus”).

Senza dubbio in gioco c’è però anche la componente fiducia. L’edizione speciale dell’Edelman Trust Barometer a cui si accennava, infatti, ha provato a stilare una classifica dei soggetti di cui europei e non solo hanno dimostrato di fidarsi di più durante la pandemia di COVID-19 ancora in atto. In Italia le persone sembrano fidarsi soprattutto degli sforzi per far fronte all’emergenza di ospedali e personale sanitario (il livello di fiducia è, in questo caso, del 92%). Anche il Governo italiano, però, è considerato una fonte di informazione attendibile (da almeno il 63% del campione), soprattutto se si guarda a risultati di paesi come l’America in cui appena un quarto della popolazione crede di potersi fidare dei propri rappresentanti politico-istituzionali o se si considera che il nostro Paese è l’ultimo quanto a percentuale di persone (il 45%) che ha timori concreti rispetto a una possibile strumentalizzazione politica dell’emergenza. Tanta anche la fiducia che gli italiani ripongono in aziende e datori di lavoro: non solo il 63% del campione Edelman li considera fonti affidabili d’informazione, ma c’è un 83% che crede che possano avere un “ruolo attivo” nel fermare la diffusione del coronavirus proteggendo adeguatamente i propri lavoratori con buone pratiche di smart working, sanificazione degli ambienti di lavoro, turnazioni, chiusure degli impianti, ecc.

I media giungono, insomma, in coda a questa classifica di fiducia, dopo tra l’altro figure di opinion leader come gli scienziati o i medici di famiglia (che hanno guadagnato, durante questa emergenza, fiducia fino a toccare percentuali rispettivamente dell’89% e dell’84%): c’è, però, un’evidente inversione di tendenza, con i media tradizionali che, rispetto ad altre edizioni dello stesso Trust Barometer, ritrovano parte della fiducia perduta e tornano a essere considerati fonti affidabili da oltre la metà del campione (55%), mentre i social perdono affidabilità in questo senso (solo il 32% del campione, si è già detto, continua a sceglierli come fonte d’informazione primaria).

Coronavirus e informazione online: domina la paura delle fake news

Le ragioni? Sono certamente da cercare nella paura di imbattersi in fake news , notizie non verificate o manipolate ad arte, paura che non ha avuto remore ad ammettere ancora quasi l’80% del campione Edelman riferito all’Italia e a cui pure farebbe da contraltare una certa fiducia nelle proprie capacità di riconoscere notizie vere da notizie false e disinformazione, più alta negli italiani che in popolazioni di altri paesi (il 38% del campione italiano si è detto, infatti, in grado di riconoscere sempre le fake news su una media globale del 45%).

Più empiricamente, del resto, quando si tratta di coronavirus e informazione online non si può non tenere conto, per esempio, delle ricerche su Google riguardo a un presunto legame tra il nuovo coronavirus e la birra Corona, così comuni soprattutto quando il focolaio dell’epidemia era ancora la sola Cina, o della diffusione virale che ha avuto, più tardi e quando si era quasi raggiunto nel frattempo il picco di contagi anche in Italia, un vecchio servizio di TG Leonardo su un coronavirus prodotto in laboratorio e impiantato sui pipistrelli o, ancora, del numero crescente di intossicazioni e avvelenamenti da disinfettanti domestici registrati dai Centri Antiveleni di tutta Italia, tale da costringere il Ministero della Salute a smentire la bufala che gargarismi a base di candeggina, acido acetico o persino metanolo potessero proteggere dal contagio. Gli esempi potrebbero continuare a lungo e comprendere, per esempio, farmaci da assumere o evitare per scampare all’infezione da coronavirus o, ancora, presunte cure sperimentali.

Spiegare perché sia circolata – e continui a farlo – tanta disinformazione riguardo al coronavirus richiede un’analisi multifattoriale, la stessa che prova a spiegare come nascono, perché si diffondono, che impatto hanno le fake news sulla vita associata. L’ultimo atto dell’indagine conoscitiva AGCOM sul sistema dell’informazione in Italia, un documento dal titolo significativo di “Percezioni e disinformazione: molto “razionali” o troppo “pigri”?” offre, in questo senso, un utile modello interpretativo. Una molteplicità di fattori incide sulla diffusione di fake news e soprattutto sulla probabilità che ciascuna persona cada nella loro trappola. Si tratta di fattori legati al grado di istruzione, al contesto socio-economico di riferimento, al modo in cui ci si informa ma, anche, a quelle che dall’Autorità Garante identificano come «(dis)percezioni», ossia delle percezioni erronee riguardo a temi rilevanti per il dibattito pubblico.

coronavirus e informazione online perché tante fake news

Il modello multi-fattoriale con cui l’Autorità Garante spiega la diffusione di fake news. Fonte: AGCOM

Un po’ prevedibilmente lo studio arriva, insomma, alla conclusione che

  • almeno metà della popolazione italiana è vittima di queste cattive percezioni,
  • soprattutto quando si tratta di temi, pubblicamente rilevanti appunto, come immigrazione, situazione economica, disoccupazione, ecc.;
  • la maggior parte di questi fenomeni, insieme anche a criminalità e terrorismo per esempio, viene sovrastimata nelle dimensioni
  • e sono soprattutto i cittadini in condizioni economiche o d’istruzione precarie ad avere della realtà una percezione perlopiù negativa;
  • questa «(dis)percezione» della realtà rende più difficile distinguere le notizie vere da quelle false e, più in generale, fare fact-checking;
  • su questa capacità di distinzione però incidono notevolmente, e in positivo, anche un alto livello di istruzione, il grado di attenzione richiesto o possibile al momento della fruizione dell’informazione e, ancora, la capacità di esercitare un certo pensiero critico, così come la rilevanza che il tema o l’argomento in questione hanno all’interno della propria personale agenda.

Giornali e giornalisti: che responsabilità nella copertura dell’emergenza coronavirus?

Quando le notizie sono di tipo tecnico-scientifico, infine, ci sarebbe per l’AGCOM un errore di valutazione maggiore circa l’affidabilità delle stesse ed è forse, questa, una delle ragioni che più semplicemente spiegano perché, per certi versi, parlare di coronavirus e informazione online significhi parlare, in realtà, di coronavirus e disinformazione online. C’entra, certamente, la più generale difficoltà di comunicare la scienza in Rete, difficoltà a cui la macchina delle testate tradizionali riesce a opporre meno strumenti creativi di quanto facciano ormai, invece, science influencer e altri divulgatori scientifici con una buona presenza digitale per esempio.

Certi bias del giornalismo tradizionale come tematizzazione , spettacolarizzazione, drammatizzazione, sensazionalismo, copertura in tempo reale, insomma, non hanno fatto che favorire, anche involontariamente, la diffusione di disinformazione sul coronavirus. «La natura è per sua natura non-lineare. Le epidemie non fanno eccezione», scrive Paolo Giordano in “Nel Contagio” a proposito delle ormai famose curve di diffusione del COVID-19, «ma un comportamento che non stupisce gli scienziati può lasciare atterriti tutti gli altri. L’aumento dei casi diventa così «un’esplosione», nei titoli dei giornali è «preoccupante», «drammatico», laddove era solo prevedibile. È questa distorsione di cosa è normale a generare la paura».

In emergenza, come in tempi normali, insomma, i giornali dovrebbero essere i primi a fare mea culpa rispetto alla crisi del giornalismo e della fiducia nei media tradizionali. E, in effetti, con un gesto più dal valore simbolico, anche l’Ordine dei Giornalisti si è detto disposto a «fare la sua parte» contro «manipolazioni e falsificazioni» che circolano in Rete da quando è scoppiata anche in Italia questa emergenza sanitaria. I professionisti dell’informazione dovrebbero considerare, però, che in gioco, anche nella copertura di grandi emergenze come queste, c’è sempre la propria reputazione come news brand . Proprio in riferimento a coronavirus e informazione online, Reputation Review ha provato a calcolare quella delle principali testate italiane, tenendo conto sia di fattori oggettivi come la disponibilità di certificazioni di qualità per esempio sia di fattori soggettivi tra cui il sentiment di lettori, ascoltatori e utenti: i risultati migliori, che la incoronano la prima tra le testate italiane più autorevoli nella copertura dell’emergenza coronavirus, sembrano essere stati quelli di un’emittente all news come Sky TG 24, seguita sul podio da l’agenzia Ansa e da un quotidiano economico come “Il Sole 24 Ore”.

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