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Perché la didattica a distanza non è scuola digitale e quali sfide andrebbero affrontate congiuntamente

Perché la didattica a distanza non è scuola digitale e quali sfide andrebbero affrontate congiuntamente

Alcuni studi forniscono per la prima volta dati e insight sulla didattica a distanza. Le prospettive non sono, però, così rosee come si può immaginare e i passi da compiere, verso una scuola davvero digitale e per tutti, ancora tanti.

DAD DDI sono acronimi con cui abbiamo imparato a familiarizzare fin dalle prime settimane di emergenza sanitaria, quando fu chiaro che tra le abitudini che la pandemia era destinata a stravolgere c’era anche il modo di fare scuola. Tanto che, non solo parte del boom di traffico Internet che insight e audit di settore hanno cominciato a registrare da marzo 2020 risultò fin da subito legato proprio agli studenti alle prese con la didattica a distanza, ma da allora anche nelle conversazioni social sul coronavirus per esempio il tema scuola è preponderante.

Lo conferma un’indagine di Mediacom che individua, tra l’altro, una forte correlazione tra la frequenza con cui didattica a distanza e didattica integrata diventano argomento principale di tweet, post su Facebook, Storie di Instagram e via di questo passo e l’approssimarsi di nuovi DPCM o nuove ordinanze. Ad animare le conversazioni sui social a tema DAD sono certo i genitori (più i papà che le mamme), ma anche alcuni personaggi con un buon seguito online e del mondo della politica. Ancora, il mood discussioni sui social che riguardano scuola e coronavirus sembra essere peggiorato nel tempo (solo tra dicembre 2020 e gennaio 2021 i contenuti a tema DAD sui social con sentiment negativo sarebbero aumentati dal 46.9% al 57.3%).

Forse anche perché più diffusa si è fatta l’idea che semplicemente spostare le vecchie lezioni scolastiche su piattaforme digitali come Teams o Zoom o creare al loro interno classi e aule virtuali sembra avere davvero poco a che vedere con il fare scuola digitale o abituarsi e abituare nuove generazioni di studenti al remote learning. Dallo stesso sistema scuola non hanno avuto remore, del resto, ad ammettere che quando, dopo il primo DPCM con le misure di contenimento del contagio da coronavirus, si arrivò alla didattica a distanza, lo si fece semplicemente «impreparati» – come ha ribadito al RomaXmasCamp 2020 anche Caterina Policaro, dirigente scolastica e blogger – e abituati a un modello, quello della semplice «integrazione», in cui tutto quello che si faceva sul o col digitale «tornava poi in qualche modo tra i banchi».

La DaD in qualche numero: piace agli studenti, soprattutto per consolidare le proprie conoscenze, ma richiede più studio autonomo

Che effetto ha avuto questa – iniziale e sistemica – impreparazione sugli studenti Un’indagine di AlmaDiploma/AlmaLaurea, condotta su studenti iscritti alle classi quarta e quinta di istituti superiori, ha provato a rispondere tenendo conto di numerosi fattori: quanto si sentono preparati gli studenti che hanno seguito le lezioni principalmente in remoto, come hanno vissuto anche emotivamente e in termini di relazioni con compagni e insegnanti questi mesi di didattica a distanza, cosa si aspettano dall’imminente futuro scolastico o lavorativo. Gli insight sono sorprendenti, a volte in positivo e a volte in negativo.

La prima buona notizia è che almeno l’88% degli studenti di scuola superiore ha seguito le lezioni tutti i giorni (anche se in qualche caso, meno di uno su cinque, le scuole hanno potuto garantire meno della metà del monte ore standard). Positivo è anche il giudizio sulle capacità organizzative degli istituti scolastici (per oltre il 77% del campione) e, ancor di più, su come i docenti sono stati in grado di assicurare una certa continuità nelle lezioni (la percentuale sale, in questo caso, a oltre il 90% del campione).

I professori, con la loro capacità di reinventarsi, sono i protagonisti indiscussi della DAD

Senza una certa capacità di reinventarsi di insegnanti e professori sarebbe stato impossibile per il mondo scuola rispondere alle nuove esigenze dettate dalla pandemia e farlo in tutta velocità. Secondo Idee per la scuola e Gimmelike, il 53% dei professori ha completamente rivoluzionato il proprio modo di fare lezione per adattarlo alla DAD: molti lo hanno fatto sperimentando app (usate dal 33.7% del campione) o video (29.7%); c’è chi ha sfruttato anche i social network per la didattica a distanza (il 18.8% dei professori intervistati), ma soprattutto per riuscire a mantenere vivo un certo rapporto personale e di empatia con gli alunni (il 40% del campione si è detto d’accordo che possa essere questo il principale vantaggio di sfruttare servizi digitali come Facebook, Instagram o TikTok quando le lezioni si seguono in remoto) e in pochi (solo il 4%) hanno fatto ricorso alle vecchie lezioni registrate.

La maggior parte dei professori ha esplorato forme e metodi della DAD da autodidatta (così ha riconosciuto almeno il 60% del campione) o facendo affidamento perlopiù su idee e buone pratiche condivise dai colleghi sul web (il 19%). Forse anche questo potrebbe aver influito su come è stata valutata fin qui l’efficacia della didattica a distanza.

cosa pensano gli insegnanti della dad

Una panoramica su cosa pensano gli insegnati della didattica a distanza. Fonte: Idee per la scuola/Gimmelike


Per tornare ai dati di AlmaDiploma/AlmaLaurea nonostante uno studente su tre vorrebbe continuare anche con la DAD quando sarà possibile tornare a scuola, gli iscritti a licei, istituti tecnici e professionali sembrano più convinti delle potenzialità della didattica a distanza per recuperare o consolidare conoscenze già acquisite che non per apprenderne di nuove e, soprattutto, appena di poco superiore al 16% è la percentuale degli studenti che più genericamente reputano la didattica a distanza più efficace delle lezioni in presenza.

Ancora buona parte degli studenti intervistati da AlmaDiploma/AlmaLaurea (il 71,5%) ha ammesso di aver dovuto aumentare il numero di ore dedicate durante la giornata allo studio e all’approfondimento individuale ed è un dato in accordo con quello secondo cui – se ne dice convinto poco meno dell’80% del campione – il carico di compiti e task giornalieri assegnati dai professori alle proprie classi si è fatto maggiore da quando le lezioni si fanno online.

didattica a distanza dati

Raccolti alla fine dell’anno scolastico 2019/2020, i dati sulla didattica a distanza nelle scuole italiane sono sorprendenti sotto diversi aspetti. Fonte: AlmaDiploma/AlmaLaurea

Sono dati che concordano con quelli di un’altra indagine condotta da Ipsos, Parole O_stili e Istituto Toniolo per tirare le somme dopo un anno di didattica a distanza. Anche gli studenti di quel campione si sono detti «meno soddisfatti» della propria attività di studio (è così per il 40% dei rispondenti) e per molti di loro è peggiorata quest’anno la capacità di seguire le spiegazioni dei professori (per il 65%), studiare (43%) e svolgere sia le verifiche scritte (39%) e sia le interrogazioni orali (32%).

Oltre la DaD: sfide e prospettive digitali per una scuola (davvero) digitale

Colpa anche, come suggerisce tra gli altri Agenda Digitale, di linee guida sulla didattica digitale integrata che fin dall’inizio sembravano preoccupate più di far tornare i conti tra la percentuale di attività di svolgere in sincrono e quelle da svolgere in asincrono o, ancora, di rimandare in classe alla ripresa dell’anno scolastico dopo la pausa natalizia quanti più alunni possibile che non di abituare davvero questi ultimi a nuove modalità di apprendimento, a modalità di apprendimento per così dire “aumentate”.

Obiettivi come gli ultimi richiedono uno sforzo più serio verso il peer learning, come ha sottolineato tra gli altri Stefania Bassi dell’Equipe Formativa Territoriale del Lazio ancora durante il RomaXmasCamp 2020, capace di coinvolgere in egual misura studenti, insegnanti, famiglie in una «esperienza condivisa» fatta di gioco, riflessione, creazione e, cosa non meno importante, di ritmi più lenti. «Lo stare bene in Rete si costruisce pian piano, con la stessa cura e la stessa pazienza di un contadino» ha commentato l’esperta a proposito di un carico e di un certo stress digitale in più che la didattica a distanza avrebbe fatto cadere sugli alunni (troppe ore trascorse davanti allo schermo, secondo una delle argomentazioni classiche in questo senso, aumenterebbero il rischio di dipendenza dalla tecnologia dei più piccoli, oltre che potenzialmente danni fisici alla vista o alla postura per esempio).

Il dubbio che potrebbe sorgere spontaneo è, insomma, che in questi mesi di didattica a distanza si sia ceduto alla tentazione di delegare la buona riuscita della stessa alle competenze digitali degli alunni e delle loro famiglie (è oltre il 56% degli stessi docenti coinvolti nella già citata indagine di Ipsos, Parole O_stili e Istituto Toniolo a essersi detto convinto, per esempio, che in un anno di DAD sia cresciuto soprattutto il divario tra quegli studenti che possono contare su più risorse socio-economiche e i loro coetanei che non possono fare lo stesso).

Si è dato per scontato, molto più pragmaticamente, che una platea di ragazzi della generazione z e bambini della generazione alpha fosse perfettamente – e indifferentemente – in grado di padroneggiare strumenti e piattaforme digitali come quelli a disposizione della didattica a distanza. In qualche occasione più e meglio di quanto lo fossero docenti e personale scolastico: è la stessa indagine di INDIRE sulle pratiche didattiche durante il lockdown (nel report integrativo di dicembre 2020) a suggerire, neanche troppo velatamente, che scuole e singoli docenti non sono risultati sempre pronti a reagire alle esigenze della didattica a distanza. In extremis ciò ha portato, per esempio, all’esclusione dalla DAD di quasi uno studente su quattro tra gli studenti disabili o con bisogni educativi speciali, come suggerisce il rapporto ISTAT 2019-20 sull’inclusione scolastica: la percentuale sale fino al 30% soprattutto al Sud.

Per guardare più direttamente a famiglie e studenti, andrebbero innanzitutto evitati parallelismi facili e automatici come quello che equipara il frequentare ogni giorno e avere familiarità con ambienti e piattaforme digitali al conoscere davvero i meccanismi sulla base dei quali gli stessi funzionano: c’è chi ha definito una conoscenza «solo touch» (Bonanomi G., “Sharenting. Genitori e rischi della sovrapposizione dei figli online“, Milano, Mondadori, 2020) la conoscenza che la maggior parte di bambini e ragazzi in età scolare ha degli strumenti digitali e spesso usati per la scuola digitale.

Ancora di più, questi mesi di didattica a distanza hanno richiamato l’attenzione su un tema, quello del digital divide inteso anche proprio come divario d’accesso alla tecnologia, che aveva smesso di sembrare prioritario nel nostro Paese: solo una famiglia su quattro in Italia avrebbe PC o tablet per ogni componente e piuttosto frequenti sono stati in questi mesi episodi di fratelli e sorelle costretti a seguire a giorni alterni la DAD, dovendosi dividere i (pochi) device a disposizione in casa.

Trasferire la scuola online ha creato il rischio di nuove forme di dispersione scolastica, come ha sottolineato tra gli altri Anna Rita Longo su Wired. Sono nuove forme di dispersione scolastica di fronte a cui spesso si è demandato ancora, come unica soluzione utile, alla creatività e alla buona volontà dei docenti e che pure richiederebbero di essere affrontate finalmente in maniera sistemica, ripensando alla scuola digitale come un bene pubblico e quindi necessariamente accessibile a tutti. Una buona idea potrebbe essere partire cablando gli edifici scolastici per assicurare buone connessioni a tutti come suggerisce su Internazionale Massimo Mantellini o fare in modo che lo Stato si faccia carico del 50% delle spese in connessioni delle famiglie o, ancora, assicurare l’accesso a computer, tablet e altri device di buona generazione.

I bisogni della scuola e di chi la frequenta, nelle aule fisiche quanto in quelle digitali, nell’era del new normal appaiono insomma come bisogni che prescindono in (larga) parte il raggiungimento degli obiettivi prefissati e standard della didattica, considerando – per tornare all’indagine AlmaDiploma/AlmaLaurea – che oltre la metà degli studenti di scuola superiore dice di essersi sentito «preoccupato» o «apatico» o «a disagio» nei mesi di didattica a distanza.

Un mood in generale poco positivo, anche se, come sottolinea in un’intervista Gabriele Giorgi, professore associato di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni all’Università Europea di Roma,

«potrebbero esserci differenze tra una tipologia di studente e l’altra. Chi è in una fase critica del proprio percorso, alle prese con una scelta scolastico-professionale o con la laurea o lesame di Stato, potrebbe sentire maggior stress legato alla perdita di certezze nel proprio futuro; chi è in una fase più spensierata potrebbe subire, invece, maggiormente lo stress da perdita di relazioni e isolamento

E, in effetti, i dati mostrano che le preoccupazioni degli studenti sono molteplici: oltre il 72% è convinto che la preparazione raggiunta con le lezioni online sia inferiore a quella che avrebbe raggiunto se avesse potuto seguire in classe; ciò si traduce nella preoccupazione rispetto alla possibilità di superare l’anno o l’esame di stato nel caso degli studenti di quinto anno (così ha detto il 40% del campione) e per il proprio futuro occupazionale, timore, quest’ultimo, su cui incidono certamente anche valutazioni sull’attuale condizione economica-lavorativa del Paese e preoccupazioni condivise in famiglia. È in considerazione di tutto questo che, continua l’esperto, la scuola non può permettersi di ignorare soprattutto

«il ruolo dell’intelligenza emotiva ossia la capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie e le altrui emozioni. In un momento dove tanto è virtualizzato, anche le stesse emozioni, è importante che gli studenti possano sentire ed esprimere emozioni autentiche nei variegati contesti di vita».

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