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Con il Digital Services Act l'Europa chiederà più trasparenza e responsabilità a piattaforme e gestori di servizi digitali (ma la strada è ancora lunga)

Con il Digital Services Act l'Europa chiederà più trasparenza e responsabilità a piattaforme e gestori di servizi digitali (ma la strada è ancora lunga)

Il Digital Services Act sarà il nuovo "pacchetto" di regole europee per servizi digitali e gestori delle piattaforme: quali sono i suoi nodi principali?

Sono passati vent’anni dall’ultima volta in cui, con la direttiva sull’ ecommerce del 2000, l’Europa è intervenuta sulla complessa materia del digitale. La notizia, così, è che di recente la Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica per scrivere «il futuro regolamento per i servizi digitali» insieme con imprenditori, gestori di piattaforme, accademici, ONG, parti civili. Sarà il cosiddetto Digital Services Act: a guardare bene fa parte fin dall’inizio degli obiettivi della presidenza von der Leyen, in parte è stato già anticipato da una serie di provvedimenti che fanno chiarezza, per esempio, sul rapporto tra piattaforme e utenti business e, soprattutto, dovrà rappresentare il «quadro normativo» che armonizzi definitivamente – e finalmente, verrebbe da aggiungere – regole frammentate e disomogenee come quelle fin qui adottate dai diversi Paesi membri per quanto riguarda servizi e piattaforme digitali appunto. Al centro dell’attenzione in particolare sicurezza online, libertà d’espressione, imparzialità e, soprattutto, libera concorrenza come principio cardine anche della digital economy.

Perché l’Europa ha bisogno del Digital Services Act

È innegabile, del resto, che il nuovo Digital Services Act si muova nel solco di quanto già stabilito in passato, anche grazie all’intervento delle diverse corti europee, in merito soprattutto al commercio digitale all’interno del mercato unico, ma anche alla responsabilità dei gestori delle piattaforme sui contenuti postati dagli utenti per esempio. A questi gestori delle piattaforme i documenti preparatori del nuovo pacchetto di regole europee per il digitale si rivolgono come intermediari o, meglio, come «gatekeeper online» e, fin qui almeno, la promessa, vaga, è di «regole chiare e moderne», valide per tutti, anche per quei soggetti non comunitari ma che operano stabilmente sul mercato europeo. Il riferimento, poco velato, è a big digitali come Amazon, Google, Facebook, Twitter e, del resto, anche la lunga querelle d’oltreoceano tra il presidente Trump e gli ultimi due è una prova di come sia arrivato ormai il momento di regolamentare meglio la cosiddetta “platform society“.

Le parole d’ordine sono invece trasparenza, interoperabilità, accesso non differenziato ai servizi, libertà – per gli utenti soprattutto di accedere e uscire dalle piattaforme in qualsiasi momento senza che quest’ultime operino meccanismi di lock-in –, protocolli aperti, condivisione dei dati e autoregolamentazione: un giusto equilibrio, insomma, tra libero mercato e quei diritti fondamentali riconosciuti dall’Unione ai propri cittadini.

A dover declinare concetti come questi, che da anni ormai fanno parte del discorso pubblico su digitale, piattaforme, aziende tech e decisori politici, più pragmaticamente e in una serie di regole che, una volta approvate, rappresenteranno il nuovo corpus di norme europee sui servizi digitali sono i diversi soggetti, a cui già si accennava all’inizio, come aziende di diverse dimensioni e operanti in diversi settori, ma anche organizzazioni senza scopo di lucro per esempio, coinvolte nella consultazione pubblica per il Digital Services Act e a cui è stato sotto un questionariodi 43 pagine, sottolinea Agenda Digitale – che dovrebbe servire a inquadrare meglio comportamenti e aspettative nei confronti delle big tech. Secondo Reuters sarebbe in arrivo anche un bando europeo dal valore di 600mila euro per la ricerca di esperti di mercato che possano occuparsi soprattutto di aspetti come concorrenza e antitrust nel digital market.

Il digital market europeo è davvero UN mercato libero (e concorrenziale)?

Tra i macro obiettivi del Digital Services Act ci sarebbe, del resto, «livellare il campo da gioco» di un mercato dei servizi digitali oggi «sbilanciato», scrive la Commissione europea, anche se sarebbe più realistico dire concentrato nelle mani di pochi – o pochissimi – big player. Assicurarsi che in un futuro prossimo i consumatori europei abbiano più ampia scelta quanto a piattaforme da frequentare, servizi digitali di cui usufruire, ecc. è l’unico modo per far sì che il mercato digitale europeo rimanga «competitivo e aperto alle innovazioni», in accordo con gli obiettivi digitali di più ampio respiro della Commissione. Al momento, però, come fa notare ancora Agenda Digitale, le misure antitrust del nuovo pacchetto di regole europee per i servizi digitali appaiono vaghe e fumose e l’ipotesi dei più critici nei confronti del Digital Services Act è che contro lo strapotere delle big tech l’UE abbia «armi spuntate».

Mentre Google e Facebook acquisiscono quote di compagnie di telecomunicazioni e anche Amazon si prepara a fornire servizi di rete in banda larga, più in generale le big digitali si lanciano, infatti, sempre più spesso in acquisizioni di startup in campi ormai strategici come quello dell’intelligenza artificiale o del riconoscimento facciale o sconfinano verso settori merceologici – il cinema, la finanza, ecc. – lontani dal proprio business originario: così facendo occupano «spazi di cittadinanza pubblica [e li stanno] trasformando o utilizzando a fini commerciali con l’uso dei dati», mentre mancherebbe del tutto «una risposta visionaria e audace» da parte del decisore europeo.

Un primo passo in Europa: arriva il Regolamento Platform to Business

Mentre si aspettano i risultati della consultazione pubblica per il Digital Services Act (aperta fino all’8 settembre 2020), infatti, fin qui l’unica novità concreta per quanto riguarda i servizi digitali in Europa è l’entrata in vigore (12 luglio 2020) del cosiddetto Regolamento europeo Platform to Business – P2B che, semplificando molto, dovrebbe garantire agli utenti commerciali – a chi, cioè, sfrutta marketplace come Amazon o investe in social media advertising, ecc., ma non ancora agli utenti finali – più «equità e trasparenza» da parte di piattaforme, motori di ricerca, servizi di intermediazione online.

Al centro dell’attenzione contratti e requisiti, termini e condizioni previsti per accedere ai servizi che dovranno essere sempre facilmente reperibili, semplici e di immediata comprensione, completi anche di informazioni riguardo alla condivisione dei dati con soggetti terzi o all’utilizzo di canali di distribuzione diversi per esempio. Nel caso dei motori di ricerca, invece, i riflettori sono puntati soprattutto sulla necessità di maggiore trasparenza per quanto riguarda i criteri di posizionamento, con l’obbligo in capo al gestore di comunicare ai propri partner commerciali i parametri – dalle caratteristiche dei beni e servizi offerti alla pertinenza col target , passando per le caratteristiche grafiche del sito – che più influiscono in questo senso. Anche in questo caso, però, mancano ancora linee guida dettagliate e molte delle misure previste dal Regolamento sono ancora in attesa di attuazione o di sanzioni nel caso di inadempienza da parte delle big tech: tutto ciò sembrerebbe confermare l’ipotesi che quando si tratta di servizi digitali, piattaforme e regolamentazione in Europa ancora molto sia delegato alla buona volontà delle big digitali che, però, è bene ricordare, sono prima di ogni cosa soggetti business e, in quanto tali, hanno interessi naturalmente di parte da difendere.

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