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Scuola digitale: uno sguardo all'Italia tra obiettivi raggiunti e prospettive future

Scuola digitale: stato dell'arte in Italia e prospettive 2019

Un piano nazionale prevede fondi e finanziamenti per fare di quella italiana, finalmente, una scuola digitale: riflessioni e prospettive

Se la digital transformation non ha risparmiato neanche il settore educativo-formativo, parlare di digitalizzazione nelle scuole italiane significa da qualche anno parlare di Piano Nazionale Scuola Digitale – PNSD. Varato definitivamente nel 2015, prevedeva nella sua forma originale finanziamenti, incentivi, programmi di formazione, partnership col privato e numerose altre iniziative e azioni mirate a facilitare l’incontro della scuola italiana con il digitale appunto. L’obiettivo di base rimane, del resto, provare a colmare il tanto biasimato divario tra le competenze digitali richieste dal mercato del lavoro e quelle che i percorsi formativi – anche universitari e fortemente specialistici – effettivamente garantiscono agli studenti nostrani.

Una fotografia della scuola digitale in Italia

Peccato che, nella loro applicazione, i progetti per una scuola digitale non siano mai decollati veramente. E che, come Agenda Digitale ha denunciato nei primi giorni del 2019, il PNSD sarà frenato ulteriormente dall’ultima manovra finanziaria e la stessa sorte toccherà a finanziamenti e fondi che dovevano servire a migliorare la connettività degli edifici scolastici, inserire il coding tra il curriculum studiorum degli alunni italiani e fin dai gradi più bassi, incentivare l’utilizzo di device mobili, eccetera.

Ci sono dati come quelli raccolti ed elaborati dall’Agi che, sebbene fermi all’estate 2017, descrivono bene il tortuoso cammino che la scuola italiana sta compiendo verso il digitale. A partire da una difficoltà – e un’arretratezza, è il caso di dirlo – infrastrutturale. Solo il 13% delle scuole italiane, e con un vastissimo gap sia geografico sia legato al grado d’istruzione, è raggiunta dalla fibra ottica; oltre il 70% delle scuole italiane è connesso ancora tramite ADSL e i dati non sono più rassicuranti se si guarda a velocità e larghezza di banda, con ben più della metà degli istituti scolastici italiani che è collegato a meno di 10 Mbps. Nel complesso? Significa che appena una scuola su cinque ha connessione veloce, contro una percentuale del 40% che riguarda invece abitazioni, esercizi commerciali e altri luoghi pubblici. Certo, parlare di scuola digitale significa anche evidenziare come la maggior parte degli istituti italiani si sia ormai dotata di animatori digitali, che hanno il compito di facilitare e mediare la trasformazione 4.0 negli edifici, nelle pratiche e nei programmi scolastici, e di laboratori e aule multimediali che possano soddisfare, almeno formalmente, le necessità della didattica digitale. Dove attrezzature e forniture ad hoc scarseggiano si è sperimentato spesso anche un approccio byod , sfruttando la forte penetrazione di smartphone e tablet propri tra gli studenti a scopo formativo–educativo. Un dato quest’ultimo che, assieme a qualche best practice sull’uso per esempio di piattaforme in cloud o open source, conferma come per poter trasformare davvero la scuola italiana in una scuola digitale, accanto a finanziamenti e incentivi, serva soprattutto cambiare approccio culturale.

Il dibattito italiano sulla scuola digitale, tra apocalittici ed entusiasti

Fin qui l’istruzione italiana ha avuto «il terrore del digitale», scriveva infatti non molto tempo fa ancora su Agenda Digitale Roberto Maragliano, ex docente di Tecnologie dell’Istruzione e dell’Apprendimento dell’Università Roma Tre. Quello che le nuove tecnologie digitali minano, infatti, è lo stesso modello frontale, didascalico, verticale che è stato tipico fin qui dell’istruzione all’italiana. «La tecnologia ha il grosso pregio di essere trasparente: permette di vedere cose che prima non potevi vedere – chiariva l’esperto – e di comprendere, quindi, che l’apprendimento è un processo complesso, per il quale non è più sufficiente il vecchio modello di apprendimento statico frontale, basato sulla spiegazione e sulla restituzione, molto semplice e rassicurante, ma non adatto ai tempi attuali. E costringe (ancora la tecnologia, ndr) a rimettersi in gioco per ridiscutere cosa e come insegnare e a cambiare la qualità stessa dei contenuti. Non è un caso che oggi il digitale sia sfruttato più facilmente nella scuola primaria, laddove c’è maggior flessibilità e maggior attenzione all’apprendimento spontaneo, mentre nella secondaria prevale la disciplina rigida dettata dalle materie».

Com’è facile immaginare, il dibattito è animato e non mancano né le voci di condanna apocalittica alla scuola digitale, né chi pur più moderatamente mette in guardia dai rischi di un rebranding della scuola italiana – che come le altre grandi metanarrazioni della famiglia, la religione, la politica, ecc. sembra aver perso oggi almeno parte della fiducia di cui ha goduto fin qui – affidato in toto alla tecnologia digitale.

A proposito di posizioni apocalittiche, per esempio, molto ha fatto discutere la notizia di un liceo di Piacenza diventato il primo liceo phone-free, obbligando i suoi studenti a riporre prima dell’inizio delle lezioni smartphone e simili in una speciale tasca controllata dal docente e che li rende di fatto inutilizzabili.

Per tornare però al dibattito e alla letteratura sulla scuola digitale, c’è chi, a differenza di Maragliano, è alquanto diffidente. Benedetto Vertecchi, docente di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre, ha sostenuto, per esempio, che la tecnologia nelle scuole possa risultare addirittura nociva sotto certi aspetti per l’apprendimento del ragazzo: la pratica del copia e incolla potrebbe causare problemi nell’apprendimento e nella semplice comprensione di un testo, esattamente come la certezza di trovare con facilità risposte a tutti gli interrogativi non lascia spazio al ragionamento e alla deduzione e, per restare sul concreto, l’uso di strumenti come il controllo ortografico automatico a lungo andare rende incapaci di individuare e correggere da soli i propri errori.

Insomma «la tecnologia da sola non fa una buona scuola – come ha sottolineato Dianora Bardi, vicepresidente di ImparaDigitale e pioniera dell’utilizzo del digitale nelle scuole – anzi è inutile parlare di didattica digitale: la didattica è didattica e basta e deve essere ripensata in una modalità di costruzione del sapere condivisa e partecipata tra docenti e studenti, in cui i ragazzi possano diventare protagonisti del loro stesso percorso di apprendimento».

Che si tratti di entusiasti o diffidenti della scuola digitale, cioè, gli esperti del settore sembrano concordare sul ruolo primario di docenti e insegnati: «se l’approccio a uno strumento diverso rispetto alla formazione di partenza è percepito come alterità – spiegava, infatti, in un’intervista ai nostri microfoni Marco Gorini, docente ed esperto di new media e marketing, proprio in riferimento all’uso di ambienti e piattaforme digitali per l’apprendimento scolastico – è perché non lo si conosce. I docenti che non usano i new media sono destinati a essere autoreferenziali e imbalsamati nei loro saperi, mentre la vera docenza sarebbe da intendere come una mentorship, più che una mera diffusione di conoscenze, una guida alla metodologia d’apprendimento. Chi non applica questa filosofia è estraneo al Life Long Learning, l’evoluzione dell’insegnamento visto come una continua scuola per continuare a cambiare ed imparare. L’idea di girare link utili ai tesisti tramite social network, solo per fare un esempio, è utile a diffondere una conoscenza condivisa che altrimenti andrebbe persa».

Il sistema scolastico italiano e le sfide del mercato del lavoro: a che serve la digitalizzazione

Che la vecchia formula della scuola italiana, incentrata sull’education come retaggio di una dimensione di servizio pubblico e poco attenta invece all’aspetto learning non sia più efficace del resto lo dicono i dati. Dati come quelli di “EduON. The learning revolution”, una ricerca condotta da Talent Garden, secondo cui il sistema formativo italiano è ormai giunto a una piena consapevolezza delle proprie mancanze e della propria scarsa competitività, soprattutto in riferimento alle digital skill richieste da un mercato del lavoro che cambia, e gli studenti italiani sono sempre più propensi a scegliere per questo percorsi educativi alternativi, più personalizzabili, partecipativi, esperienziali, in grado di far sviluppare competenze trasversali e di metterli davvero al centro della didattica. Altri dati, elaborati da Microsoft in intesa con il MIUR, confermano che gli studenti che seguono percorsi di formazione e istruzione personalizzati raggiungono, nel 98% dei casi, risultati più soddisfacenti: un’evidenza tutt’altro che trascurabile di fronte a un mercato del lavoro che, com’è stato sottolineato in più occasioni, è sempre più affamato di soft skill, competenze trasversali, intelligenza emotiva.

Tutto senza contare, infine, come una scuola digitale – o, meglio, il corretto utilizzo delle tecnologie digitali nelle scuole – prometta di essere anche una scuola per la prima volta davvero inclusiva: un traguardo tutt’altro che di secondaria importanza se si considera la priorità che ha assunto ormai, in diversi campi, il tema dell’accessibilità. Dalle aule multimediali che facilitano la didattica speciale dedicata si sempre più numerosi alunni con disabilità (c’è una crescita dell’8% ogni anno, tanto da stimare che almeno il 43% delle classi italiane oggi ne abbia uno, ndr), a iniziative come il Project Torino, firmato ancora da Microsoft e che promette di aiutare gli studenti con deficit alla vista a sviluppare abilità nel coding grazie a un linguaggio di programmazione fisico, gli esempi possibili sono tanti: a guardarli bene, però, tutti parlano di una scuola che non si è limitata a introdurre tecnologie e strumenti digitali ma ha sviluppato una vera cultura del digitale.

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