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Diritto all’informazione e presunzione di innocenza: il delicato ruolo dei media

Diritto all’informazione e presunzione di innocenza: il delicato ruolo dei media

Il difficile rapporto tra diritto ad essere informati e la presunzione di non colpevolezza dinanzi al moderno sistema di divulgazione di news

Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha determinato una vera e propria rivoluzione nell’ambito del mondo dell’informazione. Dal 2010, ad esempio, si è assistito alla diffusione delle cd. “reti all news”, ovverosia emittenti che offrono una copertura giornalistica pressoché costante, anche attraverso il ricorso ad articolazioni redazionali dislocate in ambito nazionale ed internazionale. Queste evoluzioni assecondano – secondo la legge della domanda e dell’offerta – una vera e propria “bulimia informativa” degli utenti che, difatti, non solo desiderano conoscere gli aspetti più delicati delle vicende che suscitano l’interesse pubblico ma, soprattutto, desiderano essere posti al corrente il più velocemente possibile gli esiti delle “storie” che gli vengono raccontate, quasi come se le vicende di cronaca si trasformassero in una sorta di serie TV di cui si è curiosi di conoscere il finale di stagione.  Per assecondare questa “sete” di notizie, tuttavia, c’è il rischio che talvolta gli operatori dell’informazione offrano giudizi semplicistici o approssimati.

Esercizio e abuso del diritto all’informazione

Considerato, poi, che generalmente le storie di maggiore appeal sono quelle che riguardano fatti delittuosi, soprattutto se cruenti o riprovevoli, può essere utile cercare di comprendere quali siano i confini e i modi entro i quali può ritenersi ammissibile la divulgazione di informazioni di questo tipo. A tale scopo, occorre partire da due dati di ordine generale.

Anzitutto va messo in evidenza come, rispetto a vicende di cronaca nera o più in generale di cronaca giudiziaria, esista un bisogno di “immediatezza” e “semplicità” nell’individuazione dei colpevoli essenzialmente legato al bisogno sociale di sapere riaffermata la legalità, bisogno che i media sono chiamati ad interpretare seguendo da vicino (e talvolta prevaricando) gli ordinari strumenti di accertamento della responsabilità penale. Tali istanze di difesa sociale, infatti, non possono coincidere, in quanto a tempistica, con quelle proprie di un procedimento penale.

Quando è in discussione la responsabilità penale e quindi la libertà delle persone, infatti, esistono imprescindibili esigenze di garanzia dei soggetti coinvolti e, dunque, ogni approssimazione è da ritenersi semplicemente inammissibile. Ecco, dunque, come anche le istanze della informazione devono piegarsi ad un principio inderogabile, ovverosia quello della presunzione di non colpevolezza (art. 27 Costituzione). Il dato veramente significativo e di cui tener conto, tuttavia, è che si tratta di un principio che non è rivolto – come pure potrebbe apparire – a soli “addetti ai lavori” (giudici, avvocati, ecc.) ma, in un certo senso, a tutti i cittadini ed anche agli operatori del sistema dell’informazione. Non è un caso, infatti, che già nel 2009 sia stato adottato, in seno all’AGCOM, il codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive.

Non si tratta, in realtà, di uno strumento legislativo, bensì di autovincolo con cui le parti firmatarie hanno convenuto di assoggettarsi ad un regime operativo capace di bilanciare esigenze contrapposte: da un lato l’imprescindibile garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, dall’altro il diritto dei cittadini ad essere informati in maniera completa, obiettiva, imparziale e pluralistica e, dall’altro ancora, il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, tra cui deve pacificamente annoverarsi quello ad essere presunto non colpevole fino a sentenza definitiva.

Orbene, è chiaro – anche in ragione del ruolo assolutamente pervasivo che hanno oramai assunto i media che tale presunzione di non colpevolezza significa anche che il soggetto ha diritto ad essere presentato e trattato come innocente dagli operatori dell’informazione, anche da quelli istituzionali.

A tal fine, quindi, con il codice di autoregolamentazione, si è convenuto di operare assicurando, nell’esercizio del diritto di cronaca, «la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati», come si legge nel testo. Corollario di queste premesse, poi, è la necessità di «non rivelare dati sensibili o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico», proseguono.

Il caso Yara Gambirasio e il tweet del Ministro degli Interni

Non può dirsi, tuttavia, che gli obiettivi che le parti firmatarie si erano imposte siano stati conseguiti in misura soddisfacente. L’esempio forse peggiore in proposito è quello emerso con riferimento all’omicidio di Yara Gambirasio. L’assassinio della ragazzina di Brembate di Sopra, verificatosi nel 2010, ha rappresentato un vero fenomeno mediatico: per lunghissimo tempo, infatti, la copertura televisiva e giornalistica è stata praticamente permanente e i principali talk show televisivi hanno per anni dedicato puntate allo sviluppo delle indagini, paventando a più riprese scoop e improvvise “svolte” nelle indagini.

Il punto critico, probabilmente, si è realizzato nel 2014 allorché, dopo una vera e propria caccia all’uomo, si giunse attraverso complesse indagini genetiche ad individuare un sospettato. Ebbene, nell’occasione, Ministro degli Interni pubblicò un tweet in cui si affermava che finalmente era stato “individuato l’assassino”. Poco tempo dopo, poi, furono divulgati dagli organi di stampa addirittura i video realizzati dalle forze dell’ordine in cui si documentava l’arresto del sospettato e la traduzione in caserma, ovverosia documenti essenzialmente privi di ogni interesse informativo pubblico e la cui pubblicazione si giustificava solo con una perniciosa “spettacolarizzazione” della cattura del presunto “mostro”. Successivamente, peraltro, l’attenzione dei media si concentrò sulla vita privata dell’indagato, giungendo fino ad indagare su una eventuale infedeltà coniugale della moglie.

Dunque, nonostante non vi fossero nei suoi confronti pronunce di condanna (la sentenza di primo grado è giunta solo nel 2016), fin dal primo momento la persona in questione è stata universalmente considerata come colpevole in virtù di una martellante campagna mediatica inquisitoria. Sebbene nel caso di specie, come si diceva, il giudizio di primo grado abbia restituito un giudizio di colpevolezza, v’è da chiedersi cosa sarebbe avvenuto se ci fosse stata, viceversa, una sentenza di assoluzione. Sarebbe forse stato possibile “risarcire” in qualche modo l’imputato e i suoi familiari? Ma, soprattutto, la collettività avrebbe mai accettato come non colpevole un soggetto che da lunghissimo tempo era già ritenuto unanimemente come il responsabile dell’omicidio?

Verità mediatica e presunzione di innocenza: la direttiva 343/2016

In termini più ampi, quindi, occorre chiedersi cosa accade nell’ipotesi in cui la verità giudiziale e quella mediatica non coincidono? Sarà la seconda a cedere a vantaggio della prima oppure la collettività continuerà a ritenere “sbagliata” una sentenza che non assecondi un convincimento generalmente diffuso e fondato sul quel particolare processo che si celebra sui media?

Proprio a dimostrazione di quanto la questione sia delicata e di quanto siano importanti le modalità con cui gli indagati e gli imputati sono presentati ai media, atteso che tale (pre)giudizio fatalmente condizionerà il convincimento della collettività, di recente è intervenuto il Legislatore europeo che, con la direttiva 2016/343 ha cercato di dettare norme per il rafforzamento della presunzione di innocenza.

Nel far ciò, peraltro, è opportuno rilevare come, nell’ambito della congerie di disposizioni indirizzate alle autorità pubbliche, vengano dettate indirettamente anche norme che interessano gli operatori dell’informazione, prescrivendosi che gli Stati «dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che, nel fornire informazioni ai media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata» (considerando 19).

Se, dunque, il diritto della collettività ad essere informati rappresenta senz’altro un diritto fondamentale della collettività, occorre compiere tutti gli sforzi per far sì che i giudizi di colpevolezza vengano pronunciati dagli organi competenti e non all’interno dei salotti TV e che gli organi dell’informazione cooperino con l’Autorità Giudiziaria e non divengano una sorta di suo alter ego.

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