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Effetto Airbnb: come l'ospitalità smart sta cambiando turismo e città

Effetto Airbnb: come cambia le città? Alcuni esempi

Che cos'è l'effetto Airbnb e perché è accusato di stare cambiando il volto di molte città, anche in Italia? Un approfondimento.

È meglio conosciuto come effetto Airbnb e, contro ogni previsione, non è stato determinante solo per i cambiamenti nel settore turistico. Che si sia disposti ad accettarlo o meno – meglio, che si sia disposti a fronteggiarlo o meno – infatti, il cambiamento imposto dal modello di ospitalità alla Airbnb ha impattato anche sul volto delle città e sul modo in cui turisti e autoctoni si trovano a (con)vivere al loro interno.

Di cosa è fatto il modello di ospitalità di Airbnb

Nata nel 2008, era alle origini poco più che una sorta di servizio per gli amanti del couchsurfing: leggenda narra che i primi host di Airbnb fossero abitanti di Denver che, considerata la penuria di alberghi, affittavano i propri appartamenti o le stanze al loro interno ai partecipanti al congresso del Partito Democratico. La mission di Airbnb, sopravvissuta a un rebranding radicale che non ha risparmiato nemmeno il logo , era già allora quella di riuscire a creare un mondo in cui fosse possibile sentirsi a casa ovunque.

Su questo hanno giocato nel tempo campagne di comunicazione, iniziative di CSR – come Open Homes che offre alloggio ai rifugiati – e via di questo passo. Il modello di ospitalità di Airbnb, in altre parole, dovrebbe essere più tarato sulle esigenze di un turista avventuroso, alla ricerca di esperienze genuine e davvero native delle città che visita, oltre che ovviamente decisamente low-cost. Senza contare in più la componente fiducia che, come sottolinea Trustpilot, seppure un giorno (lontano) dovesse non esistere più, sarà il grande lascito di Airbnb al digital travel: il turista che accetta di vivere per qualche giorno in caso di uno sconosciuto e, ancor di più, l’host che mette a disposizione spazi della sua abitazione a persone che non conosce lo fanno fidandosi, appunto, di un sistema che prevede tra le altre cose recensioni sia degli host sia degli ospiti, badge appositi per i cosiddetti super host e un sistema giocoso di revisioni peer-to-peer.

Perché l’effetto Airbnb dipende (in parte) dal vuoto legislativo

Certo i dati sembrano raccontare anche un’altra realtà: l’effetto Airbnb, infatti, è stato oggetto di grande interesse in questi anni e non solo per le sue ovvie implicazioni sul complesso della sharing economy. Come scriveva The Guardian in occasione della querelle tra la città di Barcellona e Airbnb, «negli hubspot turistici, Airbnb si sta trasformando da un sistema amatoriale a uno prettamente professionale, con persone che accumulano multiproprietàcome del resto facevano un tempo, per poterle affittare e che si affidano a delle agenzie per gestire i loro imperi». Tradotto in numeri ciò significa che, come rivela Inside Airbnb, in una città come Melbourne, considerata da molti la prima realtà in cui il modello Airbnb è arrivato in forma compiuta, appena il 2% degli annunci sulla piattaforma è costituito da stanze condivise: il resto è rappresentato da stanze private e nella maggior parte dei casi interi appartamenti. Proprio questi ultimi vengono affittati per più di novanta giorni l’anno e un terzo rappresenta proprietà di host che hanno anche altri appartamenti in affitto sulla stessa Airbnb. Lo stesso avviene per esempio a Los Angeles, dove almeno il 64% di annunci riguarderebbe case mai realmente abitate dai propri inquilini e le cui stanze, di fatto, vengono affittate per l’intero anno come stanze d’hotel.

Se qualcuno ha già paventato l’ipotesi di nuove lobby in conflitto con le vecchie e più tradizionali lobby dell’ospitalità, quello che traspare chiaramente da dati come questi è che, molto più realisticamente, è il vuoto legislativo in cui si muove la maggior parte delle big della sharing economy ad avere effetti deleteri. Per gli host di molti Paesi, infatti, affittare stanze della propria casa o appartamenti interi è stato fin qui una fonte di reddito – o un modo per arrotondare le entrate a fine mese – completamente esentasse. Solo di recente per esempio Berlino ha regolamentato gli Airbnb chiedendo, per semplificare, che gli host si registrassero a delle anagrafi ad hoc e pagassero una fee di autorizzazione nel caso in cui lo spazio messo a disposizione sulla piattaforma superasse una certa percentuale della planimetria della casa. In Italia, fin qui, le intese con Airbnb hanno a che vedere solo con la possibilità che il portale riscuota la tassa di soggiorno, quando prevista.

I numeri dell’Italia e come Airbnb sta cambiando i centri delle città nostrane

Il resto è, come altrove, un terreno grigio. Nonostante i numeri di Airbnb in Italia siano tutto tranne che trascurabili. Nel 2015, per esempio, gli utenti registrati al servizio erano oltre tre milioni e mezzo, tra host e ospiti, e l’Italia risultava il terzo paese più presente su Airbnb. Secondo L’Espresso, nel 2016 in Italia Airbnb è fruttata agli host almeno 621 milioni di euro – e, cioè, oltre duemila euro al mese – per un totale di almeno 5,6 milioni di viaggiatori che hanno preferito un alloggio di questo tipo all’ospitalità intesa in senso più tradizionale. Il dato critico è che dei circa 400mila annunci per le sistemazioni nelle diverse città italiane, oltre il 76% sarebbe riferito a interi appartamenti e due Airbnb su tre sono disponibili per più di sei mesi all’anno. Senza contare che più del 62% è riferibile a host che gestiscono, in realtà, più di un annuncio su Airbnb. Anche in Italia cioè, dal lato dei gestori, Airbnb sembra sempre di più l’alternativa abbordabile al mondo dell’hotellerie.

Il corollario di tutto questo, una serie di sintomi che sono noti nel complesso appunto come «effetto Airbnb», sarebbe – com’è stato sottolineato a più voci – un mercato immobiliare drogato, in cui è difficile trovare abitazioni o stanze in affitto specie per precari o studenti, i prezzi degli immobili in zone centrali o molto turistiche crescono in maniera esponenziale e più in generale aumenta la precarietà abitativa delle classi meno abbienti.

In riferimento alla natura più specifica delle città italiane e del loro patrimonio urbanistico-culturale, quando si dice che Airbnb sta cambiando irrimediabilmente il volto delle città ci si riferisce però soprattutto agli effetti sui centri storici. Le vicende di città come Firenze, Venezia e Napoli danno il senso di ciò di cui si sta parlando. Secondo dati resi noti da AirDna, solo a Firenze ci sarebbero oltre 9.8mila annunci su Airbnb, quasi un quarto di quelli dell’intera Toscana, e di questi almeno 5.5mila riguarderebbero sistemazioni – più interi appartamenti che singole stanze o stanze condivise – nel centro storico. I prezzi medi, tra l’altro, sarebbero tutt’altro che modici – 93 euro in media per una notte – e smentirebbero l’idea che a usare Airbnb siano solo turisti dal budget limitato e alla ricerca di una sistemazione low cost. Come altri servizi tipici dell’economia della condivisione, cioè, anche Airbnb è diventato nel tempo un simbolo chiaro e forte di valori e visioni in cui riconoscersi.

Quello che più sorprende, e che vale per Firenze come per Venezia per esempio, è che la percentuale di alloggi occupati e di annunci Airbnb che hanno risposta è molto alta in Italia. Nel capoluogo toscano risultano occupati 71 alloggi su 100 e per il 76% delle giornate in un mese. Il dilemma, simile a quello dell’uovo e della gallina, è capire se è il numero di sistemazioni disponibili ed effettivamente affittate tramite Airbnb che cresce perché i centri delle città italiane sono sempre più meta di un turismo di massa o è l’esatto contrario.

Non in pochi infatti hanno accusato la piattaforma di favorire almeno, se non essere responsabile, della turistificazione di massa delle città. È quello che sarebbe successo, per esempio, a Venezia: da sempre meta tra le più ambite del turismo internazionale, avrebbe visto negli ultimi anni un aumento dei turisti attribuibile, almeno in parte, alla disponibilità di nuove forme di alloggio. Difficile in questo senso trovare correlazioni univoche tra l’aumento di arrivi in città e la diffusione di Airbnb, anche se c’è chi fa notare come in soli due anni il numero di annunci di sistemazioni nella Laguna sia praticamente duplicato. Di certo c’è che la piattaforma sembra aver fatto mea culpa – o forse, più strategicamente, evitato una più seria crisi di reputazione – supportando una campagna di turismo responsabile come #EnjoyRespectVenezia che invitava chi visitava la città a rispettare sia il territorio sia le esigenze dei suoi abitanti.

Airbnb sta davvero trasformando le città italiane in parchi Disney? il caso napoli

Quando si parla di effetto Airbnb, e in particolar modo in riferimento all’immaginario italiano, c’è però chi parla addirittura di «disneyficazione». Cosa si potrebbe offrire, infatti, a un turista che nella maggior parte dei casi resta in città per pochi giorni e che cerca a tutti i costi l’esperienza più nativa possibile se non il surrogato, quasi da parco divertimenti appunto, della città e del suo spirito? La Venezia delle gondole e della foto con piccioni annessi in piazza San Marco o la Napoli di pizza e mandolino sarebbero, cioè, le attrattive di massa a cui un turista alla Airbnb può aspirare.

Ancora un’indagine di L’Espresso sostiene, per esempio, che proprio così Airbnb sta uccidendo la vera Napoli (è questo il titolo dell’articolo, ndr). La città partenopea, infatti, in dieci anni ha visto crescere di oltre il 91% gli ingressi turistici, seconda in Italia soltanto a Matera, e lo ha fatto di certo grazie a un rebranding importante e che ha visto protagonisti soggetti diversi e provenienti da campi molto diversi. Soggetti tra cui ci sono, ovviamente, anche gli host di Airbnb e chi ha trovato soluzioni di ospitalità decisamente più alternative e smart. Federalberghi avrebbe contato oltre 10mila annunci riferiti a Napoli presenti sui principali portali online dedicati al turismo (i dati sono, ancora, quelli riportati da L’Espresso, ndr), numero di annunci che avrebbe subito un’impennata negli ultimi mesi del 2018. Solo su Airbnb, più nello specifico, gli annunci sarebbero oltre 7mila, di cui 5mila nel centro storico.

Effetto Airbnb tra riqualificazione e gentrification

Se da un lato è inevitabile così che, davanti a una domanda di massa, anche l’offerta si faccia di massa e può capitare di imbattersi tra i vichi del centro in balconi con finti panni stesi ad asciugare o trecce di aglio ovviamente di plastica appese alla finestra, non si può negare che effetto Airbnb può voler dire anche riqualificazione di alcune zone della città.

Per restare all’esempio di Napoli, è successo con i Quartieri Spagnoli, oggi frequentati – e in tutta sicurezza – ogni giorno da migliaia di turisti alla ricerca dell’anima più verace della città. A Palermo potrebbe succedere presto con due quartieri come Danisinni e Ballarò: qui, infatti, Airbnb ha reinvestito circa il 10% della tassa di soggiorno raccolta ogni anno – 40mila euro – in laboratori urbani che, con il sostegno attivo dei cittadini, dovrebbero portare non solo al restyling e al recupero delle principali attrattive del posto ma anche a esperimenti di accoglienza solidale per esempio. Forse si tratta di un segnale, seppure piccolo, di attenzione del brand verso la sostenibilità del suo business, anche e soprattutto per le comunità su cui impatta. Ciò è più evidente in un progetto come quello a sostegno di Wonder Grottole, una onlus che opera nell’omonimo borgo in provincia di Matera, assurto di recente agli onori della cronaca: quello che Airbnb starebbe cercando, infatti, sono quattro stranieri disposti a prendersi un periodo sabbatico nel paese da 300 abitanti e 600 case vuote per imparare la lingua, aiutare nella coltivazione della terra, sperimentare le ricette della gastronomia tradizionale e intanto occuparsi anche dell’accoglienza dei turisti per scongiurare l’abbandono definitivo del borgo.

In una prospettiva come questa, e soprattutto in riferimento al contesto italiano, sembra difficile ricollegare l’effetto Airbnb a quello di gentrificazione di quartieri e zone considerate periferiche.

Non si può negare, però, che in contesti come quello americano il rischio è più che concreto: basti pensare che, ancora stando ai dati di Inside Airbnb, anche in quartieri di New York popolati per lo più da afroamericani la maggioranza degli host sarebbe costituita da bianchi, con percentuali che in qualche caso sono del 74% di host bianchi su una popolazione bianca che a stento raggiunge il 14%. Anche in questo senso insomma, e senza considerare la precarietà abitativa che in genere caratterizza zone come queste o come i Quartieri Spagnoli a Napoli, ne risulterebbe smentita l’idea di democraticità e orizzontalità della sharing economy e delle sue piattaforme.

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