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Il folklore, la finzione, il Sud che non esiste nello spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli

Lo spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli: un'analisi

Lo spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli ha generato molta polemica. Ne abbiamo parlato con Stefano de Matteis, antropologo e docente.

Prendi due star internazionali come Kit Harington ed Emilia Clarke, amatissimi dai fan di “Game of Thrones (dove recitano la parte di Jon Snow e Daenerys Targaryen, ndr); calali in una delle piazze più caratteristiche del centro storico della città, piazza Riario Sforza; catapultali nel folklore più verace e ‘alla partenopea’: con ogni probabilità il risultato sarà simile a quello dello spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli, un prodotto unico nel suo genere, apprezzato da un punto di vista tecnico almeno quanto destinato a generare non poche polemiche.

Pizze, Pulcinelle e mandolini: la Napoli che non esiste nello spot di Dolce & Gabbana

«È tutto inventato, inutile, incapace di rappresentare Napoli. Anzi utile sì, ma solo a indurre il consumo di un certo tipo di prodotto» e da parte di un target molto specifico, verrebbe da aggiungere alla riflessione di Stefano De Matteis, antropologo e professore dell’Università di Salerno con cui ci siamo confrontati proprio a proposito dello spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli. La città che appare nelle due versioni del commercial, dedicate rispettivamente alle fragranze The One e The One For Men, sembra infatti una città costruita ad arte, tipizzata, in cui il tempo si è fermato, forse anche a causa di una sorta di effetto nostalgia, lo stesso che si percepisce del resto nella scelta di colori, texture, capi delle collezioni del brand . Quella che accoglie Kit Harington e la bella Emilia Clarke è infatti una Napoli festante, in cui si improvvisano balli e spaghettate per strada e con un catalogo pressoché infinito di personaggi sui generis, dal ‘pazzariello‘ con tanto di fascia tricolore, ai venditori ambulanti e le donne che scendono in strada in tenuta da casa e bigodini, passando per l’immancabile pizza ‘e pummarole

Lo spot lavora su una falsificazione e cioè esagera, ingrandisce dei comportamenti che nell’immaginario comune, o in quello di chi lo ha scritto e realizzato almeno, sono considerati tipicamente napoletani. È un po’ quello che diceva Troisi: a noi (napoletani, ndr) ci fanno vedere sempre con una chitarra in mano e dobbiamo cantare, anche se non è affatto così.

Non è come se lo spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli FOSSE STATO pensato su misura di un pubblico straniero o del modo in cui gli italiani O, meglio, i napoletani sono visti all’estero?

Certo. Non si può dimenticare del resto che gli spot sono fatti per piacere e per conquistare le persone che ci sono, nei momenti in cui ci sono. È lo stesso principio per esempio, semplificando, per cui una pubblicità di assorbenti igienici non si può fare facendo vedere il sangue alle otto di sera, quando la gente sta seduta a tavola a mangiare: la devi rendere profumata, pulita, ‘setosa’.

Dalla famiglia perfetta del Mulino Bianco alla donna alfa persino ‘in quei giorni lì‘, la pubblicità insomma si nutre spesso di stereotipi. Uno spettatore sempre più smaliziato e consapevole, però, dovrebbe facilmente rendersi conto che nella maggior parte dei casi vengono messe in atto «tecniche pubblicitarie specifiche: è come dover costruire un “pacchetto” e immaginare che attraverso questo si deve veicolare il proprio modello di pantaloni o di vestito che sia», mette in guardia lo studioso. Senza contare che si tratta sempre di pensare a qualcosa «di rapido, capace di colpire nell’immediato dei trenta secondi di pubblicità». Non stupisce, allora, che singoli spot o intere campagne pubblicitarie siano finiti nell’occhio del ciclone per aver contribuito a diffondere immagini distorte della realtà, specie quando in gioco c’erano questioni di appartenenza geografica, credo religioso, preferenze sessuali. C’è un’ampia letteratura che indaga, per esempio, il rapporto tra pubblicità e razzismo e persino le ultime polemiche sullo spot del Buondì Motta hanno mostrato chiaramente che non tutto può essere sacrificato alle regole della creatività, figuriamoci a quelle del mercato.

I tópoi di una narrativa e di un folklore alla Dolce & Gabbana

Proprio sul punto creatività, le polemiche sullo spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli appaiono comunque, se non più convincenti, più giustificabili almeno. Il «film» – così si legge nei titoli di coda – è diretto da Matteo Garrone e da un big del nuovo cinema italiano, per di più già regista di “Gomorra”, e quindi sarebbe stato forse lecito aspettarsi qualcosa di più, quanto a ricerca sulla napoletanità perlomeno. La scelta di una regia marcata, invece, va interpretata forse in un quadro più ampio: sempre più brand del lusso oggi chiamano a raccolta grandi nomi del cinema internazionale. Lo ha fatto Kenzo con Spike Jonze, per lo spot di una fragranza tra l’altro, e lo hanno fatto numerose altre firm di alta moda soprattutto in occasione delle loro festive campaign, quando più che una comunicazione commerciale è indispensabile una comunicazione di brand, votata all’intrattenimento e al coinvolgimento emotivo del cliente/spettatore.

Anche Dolce & Gabbana lo fa da tempo e ha visto nel tempo il suo carnet di collaborazioni riempirsi di nomi come Martin Scorsese o Giuseppe Tornatore.

Proprio gli spot girati da Giuseppe Tornatore sembrano aver creato una narrativa ‘alla Dolce & Gabbana‘ tutta sui generis: c’è chi l’ha definita surreale. C’è quasi sempre una Sicilia indefinibile, tranne che per le ambientazioni e per i colori, e senza tempo e il topos di un innamoramento interamente giocato su sguardi rubati, sospiri, corpi che vibrano. Sono spot sensoriali, per certi versi, dove tutto quello che manca a livello di plotline viene compensato da un eccesso di stimoli, in qualche caso persino tattili e olfattivi. Chi non ha l’impressione, infatti, di sentire le note di zagara del pegno d’amore di Dolce o i profumi di un tipico mercato rionale mentre Kit Harrington ed Emilia Clarke si inoltrano nei vicoli della città? Dolce & Gabbana sembrano riuscire, cioè, in quello che non sempre gli altri competitor riescono a fare: risolvere la tradizionale incomunicabilità di un oggetto come un profumo. Qualcuno ha sottolineato a proposito, per esempio, l’onnipresenza iconica del vento negli spot dedicati alle fragranze del brand.

Proprio il riferimento a quanto già fatto in passato dal brand e alla sua produzione siciliana spiega, però, un’altra ragione delle critiche piovute sullo spot di Dolce & Gabbana girato a Napoli: con i suoi Pulcinella, i suoi teatranti quotidiani e quel misto di religiosità e profanità, Napoli è così eccessivamente e grottescamente presente da non esserci affatto. Quella del brand è spesso una forma di «invasione e invadenza», ribadisce infatti Stefano De Matteis nell’intervista ai nostri microfoni. È come se partissero «dal loro immaginario e dalla loro visione commerciale e cercassero di adattarlo al posto che hanno a disposizione». Palermo o Napoli che sia, poco importa. L’impressione è, in altre parole, che quella su cui giocano i due stilisti sia l’idea di un grande Sud indistinto e indistinguibile da cui attingere a tradizioni, culture, stili, risorse (il riferimento alle due città è tutt’altro che casuale: per due anni consecutivi , nel 2016 e nel 2017 gli stilisti si sono “impadroniti” di alcuni degli angoli più belli del centro storico di Napoli e Palermo per organizzare sfilate evento che hanno attratto ospiti famosi, stampa, buzz, generando in entrambi i casi non poche polemiche quanto all’impatto socio-economico sul territorio, ndr). La straniera che si perde in un vicolo di Napoli e che viene sedotta da tutte le sue tentazioni (e non solo culinarie!), esattamente come l’uomo elegante che non sa resistere alle lusinghe delle anziane prorompenti è, insomma, la metafora perfetta di un folklore posticcio, sempre uguale a se stesso e mai davvero autentico, pensato a uso e consumo di un target ben definito e, soprattutto, facilmente vendibile sul mercato. Un folklore ‘alla Dolce & Gabbana‘ quasi, destinato a rimanere poco più che un semplice segno di riconoscimento del brand.

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