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Food industry: un settore strategico per l’economia italiana

Food industry: un settore strategico per l’economia italiana

Tra esportazioni, investimenti digitali e marketing esperienziale, la food industry è ormai un settore strategico per l’economia italiana.

A ricordarci che quello della food industry è uno dei settori più prolifici dell’economia nostrana ci ha pensato #EXPO2015 che, al netto delle polemiche e al suon di «Nutrire il Pianeta» (questo il tema scelto per l’edizione milanese dell’Esposizione Universale, ndr), ha fatto per sei mesi di Milano la capitale dell’enogastronomia, della sicurezza alimentare e di ogni buona pratica che gravitasse intorno al buon cibo.

Food industry: qualche numero

Almeno dal 2010, infatti, gli esperti hanno rilevato per il settore del food una crescita a tassi nettamente superiori del resto dell’economia italiana. Nel 2012 per esempio, secondo dei dati Istat, la food industry rappresentava almeno il 12% del nostro prodotto interno lordo, con oltre 130 miliardi attribuibili direttamente alle industrie e i restanti 57 all’agricoltura. Nel 2015 invece il Food Industry Monitor avrebbe registrato un incremento dei ricavi nel settore dell’alimentare pari al 4.6%, nettamente superiore a quello registrato in riferimento al resto del PIL nostrano. I settori con performance migliori? Farine, food equipment, olio, packaging alimentare, caffè e vino. L’edizione 2017 dello stesso osservatorio, nell’analizzare le performance delle aziende italiane nel settore del food, ha sottolineato invece soprattutto la maggiore redditività di queste realtà rispetto alle altre imprese italiane: l’alimentare fa meglio della moda e del design (nonostante l’Italia sembrerebbe essere campionessa di design economy, ndr) e compete con il settore meccanico.

I segni di ripresa per le PMI? Dipendono in gran parte dalla food industry

Per queste ragioni non sbaglia chi auspica che imprese già ben avviate, startup, altri attori coinvolti nella filiera, ma soprattutto soggetti terzi facciano investimenti a lungo termine e consistenti nel settore italiano del food. Tanto più che incoraggianti sembrano, in questo senso, alcuni dati dell’Osservatorio Confesercenti che incoronano bar, ristoranti e altre attività a valle della filiera della food industry come propulsori della ripresa del panorama delle PMI italiane. Trenta nuove imprese ogni giorno, per un incremento totale di oltre l’8% dal 2012 e un numero complessivo di 372mila attività (ad agosto 2016, ndr) che offrono lavoro a circa 1.3 milioni di persone, cioè almeno un decimo dell’occupazione privata italiana: sono questi alcuni dei numeri straordinari che parlano del settore del food in Italia (L’Impresa n. 11, novembre 2014). Numeri che acquistano un significato ancora più straordinario se si considera che, nello stesso arco temporale, Confesercenti ha registrato un calo di almeno il 3,5% nel numero di imprese del commercio in sede fissa, per i non addetti al settore i negozi di qualsiasi altro tipo. Certo, andrebbe considerata anche la distribuzione non omogenea di questo tipo di attività sul territorio nazionale: nel Mezzogiorno, per esempio, la crescita di bar e attività di ristorazione è più alta in percentuale che al Centro Nord. Né si può ignorare che un mercato saturo e altamente competitivo fa sì che quasi un’impresa su due nel settore della ristorazione chiuda entro i primi tre anni di vita. Sono insight, quest’ultimi, che dovrebbero spingere però a fare di più e meglio per rendere la food industry un settore rilevante per l’economia italiana più di quanto non lo sia già.

Così l’export di prodotti enogastronomici aiuta l’economia italiana

Quando si parla di rilevanza del settore agroalimentare per l’economia italiana, comunque, non si può tenere non conto del fatto che si tratta sicuramente di uno dei più fortunati tra gli export tricolori: solo per fare un esempio, nel 2013 secondo dei dati di Coldiretti l’esportazione di prodotti alimentari avrebbe avuto un fatturato record di 33 miliardi di euro. Il merito? Fu allora — e continua a essere ancora oggi — delle eccellenze enogastronomiche e delle specialità regionali che hanno conquistato nel tempo i palati esteri, tanto più che al made in Italy viene ancora associato un valore intrinseco legato al rispetto e alla qualità delle materie prime, alla ricerca della stagionalità, all’artigianalità delle lavorazioni, ecc.

Quando si tratta di penetrare tramite specialità enogastronomiche in un mercato estero ci sono, però, altri elementi intrinseci di quel mercato che non andrebbero in nessun modo ignorati: sono in molti casi elementi culturali o legati a una certa affinità di gusti, per esempio.

In un’intervista per il lungo focus di L’impresa dedicato alla food industry, Luigi Consiglio, consulente tra i più quotati nel settore alimentare, ha ricordato così che per fare un buon marketing delle eccellenze nostrane bisogna cercare «un mercato potenziale più accessibile. Per esempio Stati Uniti e Svizzera». Inutile puntare su paesi lontani, e non solo geograficamente, come la Cina: da qui, infatti, possono venire anche i maggiori investimenti e le più grandi acquisizioni di aziende vitivinicole e olearie, ma il cibo italiano ancora non vince sulle tavole locali. Se è vero, del resto, che alcune aziende italiane (soprattutto del settore salumiero, ndr) sono riuscite a penetrare il mercato cinese, la maggior parte di queste ha comunque una «clientela fatta di occidentali espatriati o, sempre di più, anche di cinesi di alta fascia», continua l’esperto. Il trucco? È allora adattarsi al gusto dei consumatori locali o investire sulla formazione di una cultura dell’italian food. Per questo il paradosso è che, mentre rappresentano una truffa nei confronti dei produttori italiani con perdite intorno ai 15 miliardi di euro annui, come sottolinea lo stesso Consiglio, le imitazioni delle nostre eccellenze gastronomiche e i prodotti dall’italian sounding, dal parmisan al barbera in bustina, «sono la più grossa operazione di marketing gratuito che si potesse immaginare, tengono in caldo il posto per il vero cibo italiano. Che però poi deve arrivare».

Perché i protagonisti italiani della food industry hanno bisogno di svecchiarsi

Che sia la Cina, un qualsiasi altro paese d’oltreoceano o anche solo un paese comunitario, le aziende alimentari italiane hanno bisogno insomma di un salto di qualità, oltre che dimensionale, per affrontare le nuove sfide dell’export. Tradizionalmente, infatti, le maggiori protagoniste della food industry italiana sono aziende medio piccole, spesso a conduzione familiare, la maggior parte delle quali non redige nemmeno un bilancio (accade per almeno il 90% di quelle agricole, ndr) e che, proprio per questo, sono impreparate ad affrontare un mercato dalle dimensioni notevolmente più ampie. Se a questo si aggiungono cicli lunghi, in cui le spese di produzione gravano tutte sull’azienda e il cliente paga tardi, e bassi margini di guadagno si capisce perché l’alimentare non riesce ancora a risultare attrattivo per partner di lungo termine.

Cibo: finalmente anche gli italiani lo comprano online

A sbaragliare le carte anche nel settore dell’alimentare è arrivato comunque, negli ultimi anni, il digitale. Se nessun ambito economico e della vita associata è stato risparmiato dalla digital disruption, così, nella food industry l’introduzione di nuove tecnologie ha permesso di rivoluzionare non solo gli impianti aziendali e la filiera dell’alimentare, ma anche e soprattutto la commercializzazione dell’italian food.

La vendita per corrispondenza delle eccellenze enogastronomiche nostrane non è certo una novità: da decenni soprattutto il vino italiano arriva ovunque grazie a grande sistemi di distribuzione internazionali. Le possibilità offerte dall’ ecommerce , però, hanno portato nuova linfa nel campo.

Nel caso specifico delle eccellenze vitivinicole nostrane, «l’ecommerce ha semplicemente spostato il canale: il consumo non sta aumentando», ha raccontato ancora a “L’Impresa” SimonPietro Felice, AD di un’importante azienda del settore. Per quanto riguarda il vino, però, un grande pregio di Internet è stato sicuramente «aiutare a veicolare una cultura più consapevole, anche tra i giovani». Giovani che, non a caso, sono diventati il target di riferimento per chi opera nel food, sempre più sensibili come sono a una cultura del mangiar sano e di ricerca delle specialità territoriali.

Più in generale, comunque, i consumatori italiani di tutte le età sembrano essersi fatti convincere ormai dal food eCommerce. Nel 2014 i prodotti acquistati in Rete avevano registrato un incasso di 132 milioni di euro, considerato record per quel tempo. E allora il ritratto di chi comprava online prodotti della food industry era quello di un consumatore meno fedele a brand e insegne, alla ricerca soprattutto di prodotti con un ottimo rapporto qualità- prezzo . Oggi, invece, anche l’approccio all’acquisto online di prodotti agroalimentari si è fatto più più consapevole, nonostante —secondo dei dati dell’Osservatorio eCommerce b2c della School of Management del Politecnico di Milano— abbia un profilo più di massa e un valore totale di 575 milioni di euro (in crescita del 30% rispetto al 2015, ndr).

ecommerce italia prodotti alimentari

Fonte: Neikos

Più nel dettaglio, chi compra food online fa acquisti che hanno a che vedere con:

  • il grocery alimentare, cioè i prodotti da supermercato: la maggior parte delle catene, infatti, offre oggi la possibilità di fare la spesa online e di ricevere direttamente a casa i propri acquisti o, quando non è così, di ritirarli per lo meno al punto vendita, con un risparmio di tempo non indifferente;
  • l’enogastronomia e, nello specifico, la vendita online di prodotti confezionati. È il settore in cui si registrano gli acquisti di maggior valore, con una particolarità tutta italiana che è il protagonismo di marketplace generalisti come Amazon e simili, rispetto a retailer specifici del settore. Uno dei leader indiscussi, in questo senso? Era fino a qualche tempo fa vente-privee.com, la piattaforma di eCommerce dedicata alle grandi marche, che in tutta Europa vende mediamente 4.9 milioni di prodotti alimentari e 3.3 milioni di bottiglie di vino all’anno;
  • la ristorazione. Fin da subito è apparso chiaro, del resto, che il food delivery fosse destinato a diventare uno dei campi più prolifici quanto all’applicazione delle tecnologie nella food industry. Anche in questo settore, però, i servizi sono oggi tanti e diversificati: vanno dalle consegne a domicilio appunto, alla prenotazione di tavoli, al discovering di nuovi locali.

Tra i motivi che convinco, comunque, gli italiani ad acquistare cibo online? L’ampia scelta quanto a prodotti e brand, la comodità, la possibilità di saltare code alle casse e quella di utilizzare metodi alternativi e digitali di pagamento.

Tutte le app che dovresti conoscere se ami il food

Impossibile da esplorare in maniera completa e sistematica, anche l’universo delle app per gli amanti del food è oggi vastissimo. Da quelle, tantissime, cui attingere per ricette a prova di cuochi provetti a quelle che guidano l’utente a fare una spesa consapevole — nella maggior parte dei casi basta inquadrare il codice a barre del prodotto per ottenere una serie di informazioni riguardo a ingredienti e metodi di conservazione, utilissimi in caso di allergie e intolleranze —, passando per quelle che permettono, appunto, di ordinare a domicilio tra decine di ristoranti vicini all’indirizzo inserito e per finire con quelle che, invece, servono a prenotare anche più esclusivi ristoranti italiani. Lo sconfinato mondo di applicazioni mobili dedicate alla food industry, però, ha spesso anche un occhio al sociale. Sono tantissime, infatti, oggi le piattaforme che permettono per esempio di condividere il cibo in eccedenza con chi ne ha più bisogno: generalmente basta che privati, aziende, ristoratori si registrino e indichino la quantità di cibo che possono mettere a disposizione perché il sistema funga da match tra offerta e domanda, mettendo il surplus a disposizione di mense sociali, centri di accoglienza o famiglie che ne facciano richiesta. Se c’è, del resto, un mito da sfatare a proposito dei consumi alimentari è quello della loro resistenza alla crisi: anche i carrelli degli italiani si svuotano sempre di più e ben oltre il 75% delle famiglie è costretta a scegliere prodotti in promozione o sottomarche.

Food industry è anche esperienza nel punto vendita

Un discorso a parte meriterebbe, poi, la distribuzione. Se è vero infatti che la fetta più grande è rappresentata ancora dalla grande distribuzione organizzata ( gdo ), c’è un segmento di clienti che punta soprattutto all’acquisto esperienziale. Ne sa qualcosa Oscar Farinetti che con Eataly ha rivoluzionato il modo di far la spesa di centinaia di italiani sul territorio nazionale e non solo: ristoranti, programmi di degustazione, show cooking, percorsi sensoriali attraverso le eccellenze nostrane fanno, infatti, da contorno a qualcosa a metà tra un supermarket premium e una bottega dei sapori low cost. Più recente è, invece, l’esperimento di Carrefour che, a partire dal punto vendita milanese di piazza Gramsci e replicando poi l’esperimento in tutte le principali città italiane, ha provato a creare «un supermercato più piacevole» — queste le parole di Gregoire Kaufman, direttore commerciale e marketing della divisione italiana, a “L’Impresa”— con percorsi d’acquisto centrati sulle esigenze del cliente, scaffali dedicati all’eccellenze del made in Italy, la possibilità di acquistare prodotti appena confezionati e di essere guidati nella scelta da personale addetto e competente, il tutto valorizzato da una strategia di comunicazione originale per la GDO che strizza l’occhio all’utente e prova a fidelizzarlo in tanti modi, tra cui anche una web serie brandizzata.

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