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Foodtelling: perché raccontare il cibo e cosa il racconto dice di se stessi agli altri

Foodtelling: raccontare il cibo e raccontarsi così agli altri

Perché si parla sempre più di cibo, come bisognerebbe fare foodtelling e cosa invece raccontiamo di noi agli altri attraverso questo racconto.

Il cibo è sempre stato momento di aggregazione e di convivialità, un’occasione per parlare e confrontarsi, in famiglia, tra amici e anche sul posto di lavoro. Si è passati col tempo però da una situazione in cui il mangiare generava racconti attorno alla tavola a una in cui si fa foodtelling ed è il cibo stesso al centro delle discussioni, soprattutto dei media e sui social. Il risultato di questo mutamento di scenario è che, se un tempo la conoscenza culinaria era diffusa principalmente da ristoranti ed editoria specializzata, oggi si ha una conoscenza non solo diffusa ma anche socializzata: sono aumentate le ricerche che hanno per oggetto la preparazione di ricette e sempre più spesso si cercano sul web informazioni sui prodotti alimentari o si condividono online opinioni sugli stessi sia su siti che sui propri profili social, dove c’è un proliferare di foto a piatti e ingredienti, tanto da cadere spesso in quello che viene definito come “food porn”.

Si tratta di un interesse crescente, della necessità di raccontare tradizioni, ingredienti e ricette, di esprimere le proprie opinioni e le proprie preferenze, dando così informazioni su se stessi agli altri, informazioni di cui le aziende dovrebbero tener conto. Il settore del food industry per l’Italia resta, quindi, trainante sotto diversi punti di vista.

Alcuni dati

Come sottolineava Diletta Sereni (co-founder e market researcher di ‘Squadrati’) durante lo speech “Foodtelling: raccontare il cibo e raccontarsi tramite il cibo” alla social media Week Milano 2015, il tema del food (o meglio la cucina) è passato a essere nel 2013 quello maggiormente dibattuto online, mentre nel 2010 il primo posto spettava alla musica, il secondo al cinema, il terzo alla salute, il quarto ai libri, il quinto ad eventi sportivi e solo il sesto alla cucina.

Foodtelling

Cibo e buzz: come sono cambiati gli argomenti preferiti dagli italiani. (Fonte: dati riportati nello speech “Foodtelling: raccontare il cibo e raccontarsi tramite il cibo”).

Osservando i dati analizzati con Google Trend, inoltre, negli anni (dal 2004 al 2018) sono notevolmente aumentate le ricerche di parole quali ‘food’, ‘cibo’, ‘ricetta’.

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Complice la cultura di massa, che vede il proliferare di programmi dedicati al cibo, la pubblicazione di sempre più libri di cucina (ispirati proprio a relativi programmi, ricette rivisitate, cucina di nicchia, figure di chef carismatici, etc.) e la riproduzione di ricette su YouTube o altrove in rete, si sta creando un’esperienza diffusa del cibo, tanto che si stanno modificando anche gli ambiti formativi e lavorativi.

Sempre durante lo speech, ad esempio, Sereni ha riportato che nel 2013 sono salite del 40% le iscrizioni ai dipartimenti di agraria in tutta Italia e nel 2014/2015 sono salite ancora del 5% rispetto all’anno precedente le iscrizioni agli istituti enogastronomici e alberghieri (49mila iscritti) e facendo riferimento ai dati del MIUR per le iscrizioni all’anno scolastico 2016/2017 si è registrata solo una diminuzione dell’1,1% per gli istituti professionali in generale (17,5%) rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda il lavoro, invece, stando a una ricerca di Coldiretti-Ixé (ripresa, tra gli altri, da La Stampa nell’articolo “È nell’agriturismo il lavoro dei sogni per un giovane italiano su due”), al 54% dei giovani sarebbe piaciuto gestire un agriturismo e il 50% dei giovani riteneva che il cuoco e l’agricoltore fossero le professionalità più ricercate e con sbocchi più sicuri.

Inutile parlare poi del ruolo sempre più preponderante degli chef come testimonial di brand del settore food e del loro successo mediatico: se un tempo erano professionisti che lavoravano “dietro le quinte”, oggi sono invece veri e propri protagonisti del successo di un intero settore, portavoce di qualità, spesso anche ammirati per il loro carisma o fascino, messo in luce da programmi televisivi dedicati e da tanta comunicazione social, anche attraverso profili personali oltre che grazie a pagine e community create dai fan.

Nel tempo è cresciuto, insomma, l’interesse per la componente di intrattenimento resa possibile dal foodtelling, cosa che risulta evidente osservando i vari food media brand nati online e offline, anche se questo non vuol dire che si trascuri l’aspetto dell’utilità. Da una ricerca commissionata da Mondadori – per analizzare, nello specifico, la forza di Giallo Zafferano e relativa al mese di novembre 2017 – dal titolo “Food Media Brand Italy” si può notare che nella maggior parte dei casi, e soprattutto online, è proprio l’utilità la caratteristica principale ricercata e riscontrata in alcuni dei principali food media brand.

foodtelling

Foodteller e profili di “foodie”

Si usa di frequente il cibo, fotografato e condiviso online, specie sui social, per raccontare un momento o un’esperienza e si finisce così, in qualche modo, per raccontare anche se stessi e definirsi come appartenenti a un determinato gruppo, trasformandosi in un popolo di foodie“, termine che indica una persona con l’hobby del cibo o, detto in altre parole, un intenditore o un presenzialista che, in ogni caso, si pronuncia sul cibo, per dire la sua, soprattutto in discussioni sui social.

Squadrati – agenzia che si occupa di ricerche di mercato e analizza tendenze di consumo – ha creato nel 2015 un identikit delle persone che parlano di food online, riconducendo un certo insieme di atteggiamenti a diversi profili di “foodie“, i cui elementi di distinzione si basano innanzitutto sulle diverse prese di posizione rispetto a temi alimentari che talvolta diventano motivo di conflitto. Ad esempio, ci sono faide tra i puristi delle ricette tradizionali e seguaci degli chef che invece le rielaborano, tra chi vede una nuova moda culinaria e chi, al contrario, intende il cibo solo come alimento. C’è poi anche chi basa le proprie scelte e pratiche alimentari su principi stabili etici-ideologici.

Sono state così individuate due opposizioni principali:

  • da un lato chi è più istituzionale e fa riferimento a un’idea di cucina e di cibo riconosciuta nella cultura e non soggetta a evoluzioni;
  • dall’altro chi è alternativo e ricerca, mosso dalla curiosità della novità, una diversa idea di cucina e cibo, rispetto a quella generalmente concepita nella cultura più tradizionale.

Altre due importanti distinzioni sono state individuate tra:

  • chi difende i propri principi riguardo al cibo (chi fa cioè resistenza);
  • chi ha un interesse al cambiamento, inteso come ricerca o moda (aspirazione).

Basandosi su queste considerazioni e sulle due coppie di opposizione (istituzionale/alternativo e resistenza/aspirazione) Squadrati ha identificato, tramite un quadrato semiotico, quattro tipologie di foodie.

  • 1. Veraci
    Per loro la tradizione è sacra e non danno importanza all’estetica o alle nuove tendenze.
  • 2. Gourmet
    Prestano molta attenzione al buon gusto, alle guide, alle tendenze e alle mode.
  • 3. Foodster
    Sono attratti dalla contaminazione e dalla socialità.
  • 4. Critical
    Hanno una forte sensibilità verso l’ecologia e l’etica, sono per l’anti-industrialità e sono quindi interessati alle materie prime e al processo di lavorazione di queste.

Il quadrato semiotico dei “foodie”. Fonte: www.squadrati.com.

Quali cambiamenti del mercato si capiscono grazie ai “foodie”?

Sstudiando il modo in cui i consumatori che fanno foodtelling – cosa che ha fatto Market Revolution –, le aziende e i brand che lavorano in questo settore possono comprendere quali sono i canali più efficaci e gli strumenti migliori da scegliere ed usare per una comunicazione che possa essere quanto più mirata e coinvolgente, tesa alla creazione di un valore condiviso.

Daniele Dodaro (co-founder e market researcher di Squadrati), sempre durante lo speech di cui si parlava in apertura, riallacciandosi ai quattro profili presentati, ha infatti spiegato come sia possibile individuare i cambiamenti del mercato proprio attraverso le quattro tipologie di “foodie” e gli elementi contenuti nel quadrato semiotico. Si possono infatti individuare quattro tendenze figlie dei “foodie”, dove per tendenza si intende non un fenomeno mainstream ma un fenomeno di rottura (e che potrebbe sì diventare mainstream ma a distanza di qualche anno), che presto potrebbero diventare dei fenomeni di massa tali da influenzare in maniera determinante il mercato.

  • 1. Anti-industrialità
    Si pone sempre più attenzione alla qualità (origine delle materie prime, come vengono selezionate e processate, etc.) e ai valori etici (qualità come sinonimo di semplicità e naturalità, con una riduzione di elaborazione dei cibi) e, di conseguenza, si fanno sempre più cose in casa (come la conserva, la marmellata, etc.) e crescono, ad esempio, i mini-birrifici. L’industriale diventa una sorta di tabù, tale che le aziende, paradossalmente, cercano di predicare e rivendicare un’anti-industrialità nella realizzazione dei propri prodotti. Uno dei modi in cui cercano di farlo è, dal punto di vista estetico, quello di dar vita a prodotti con liste di ingredienti corte.
  • 2. Autarchia
    Tra i consumatori cresce la tendenza a comprare prodotti italiani per sostenere l’economia del Paese, con un’attenzione al made in Italy che diventa un vero e proprio fatto di natura politica e non solo di status symbol. Si ritrovano dei valori autarchici, come quelli che venivano enfatizzati in manifesti del ventennio fascista. Si può ad esempio pensare a uno slogan di quegli anni, «Non togliete il pane ai figli dei nostri lavoratori. Acquistate prodotti italiani», e confrontarlo con la filosofia professata dal sito per chi cerca prodotti italiani, Trova italiano, che ha come filosofia «scegliamo di lavorare, produrre e comprare italiano».
  • 3. Trasparenza
    I consumatori sono sempre più interessati all’origine, alla selezione, alla lavorazione delle materie prime. Le aziende rispondono a questo interesse creando un effetto di trasparenza nella loro comunicazione, che nell’offline può essere individuato in quei ristoranti che hanno la cucina a vista e nell’online negli strumenti digital per tracciare l’origine e la lavorazione dei prodotti con una sorta di Google Street Food (ad esempio Barilla che permette di vedere da dove proviene ogni ingrediente). Ovviamente in entrambi i casi di tratta di una trasparenza più che altro apparente.
  • 4. Healthy Chic
    Oggi si presta molta attenzione ai prodotti biologici, all’alternativa alla dieta tradizionale più come piacere e come simbolo di differenza rispetto agli altri, che non come dovere. Cambia così la comunicazione anche estetica dei prodotti biologici, senza glutine e salutistici in generale, che iniziano ad abbandonare l’estetica farmaceutica in favore di una valorizzazione dell’aspetto attrattivo.

L’importanza del foodtelling

Perché si parla di cibo? Indubbiamente perché è un qualcosa che fa parte del nostro quotidiano, trattandosi di un bene fisiologico, e perché in qualche modo – come diceva Feuerbach, citato da Stefano Daelli (strategy e content Director di Market Revolution) ancora durante lo speech sopracitato – «siamo quello che mangiamo». Dal 2007 è iniziata, poi, una crisi finanziaria e dei consumi che ha causato inevitabilmente una riorganizzazione della vita, portando a una particolare attenzione al cibo: quando c’è insicurezza i consumatori tendono infatti a ridiscendere la piramide di maslow in modo interessante (“when money is tight, food matters most“).
Da bisogno fisiologico con valore funzionale, il cibo passa però ad essere anche espressione di sé e, cambiando l’atteggiamento dei consumatori, deve necessariamente mutare anche quello delle aziende e i loro codici di comunicazione

Il cibo artigianale e industrializzato e brandizzato in passato porta ora i brand a un percorso in qualche modo inverso, all’artigianale, a una sorta di “artisanal food“.

C’è chi riscontra, inoltre, una rottura nella comunicazione relativa al cibo intorno agli anni ’70, come Leonardo Romanelli, gastronomo, sommelier, cuoco e giornalista, che ha parlato ai nostri microfoni a Cibiamoci 2017. «Siamo in un momento in cui si deve raccontare di nuovo», ha aggiunto, evitando l’eccesso, che è sempre dannoso, ma valorizzando il foodtelling, che è un qualcosa di necessario per portare avanti la tradizione e il sapere specifico, in modo da non perdere la memoria di alcuni prodotti e pietanze della cultura gastronomica e – perché no? – per raccontare in qualche modo anche se stessi agli altri.

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