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Tutela identità e minori: il genitore può pubblicare sui social le foto dei propri figli?

Foto dei figli su Facebook: i genitori possono pubblicarle?

Due pronunce potrebbero dare avvio a un orientamento giurisprudenziale rigoroso sulla pubblicazione, da parte dei genitori, delle foto dei figli su Facebook

È una tematica di grande interesse nelle aule di giustizia – e non solo – quella della tutela della baby web reputation, ovverosia della protezione dell’immagine e dell’identità digitale dei minori sulle piattaforme social. Il problema riguarda soprattutto la pubblicazione, da parte dei genitori, delle foto dei figli su Facebook (chiaramente minori). Si tratta in realtà di un comportamento rispetto al quale molto spesso i genitori non si pongono alcun tipo di problema, ritenendo nel loro pieno diritto l’impiego dei figli per “arricchire” le pubblicazioni sui social network : ma è davvero così?

Diritto all’immagine, tutela dei minori e social network: il quadro normativo

Per rispondere al quesito occorre anzitutto cercare di ricostruire il quadro normativo di riferimento. Allo scopo, va premesso che la tutela del diritto all’immagine è contenuta in via generale nel codice civile, nella legge sul diritto d’autore e nel codice privacy. In particolare, il codice civile dispone, all’art. 10, che allorquando l’immagine sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui è consentito, ovvero rechi pregiudizio al decoro o alla reputazione, è possibile ottenere un provvedimento inibitorio oltre al risarcimento dei danni.

La Legge 633/1941 in materia di protezione del diritto d’autore, poi, all’art. 96 stabilisce che «Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa», salve talune segnate eccezioni. Ai sensi dell’art. 156, poi, «il giudice può fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».

Da ultimo, occorre sottolineare che l’utilizzo dell’immagine altrui sine titulo, in quanto pacificamente riconducibile al trattamento di un dato personale senza consenso del relativo titolare, dà luogo alla fattispecie delittuosa punita dall’art. 167 del D. Lgs. 196/2003 (codice privacy) sicché il relativo autore «è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi».

Dunque, per quel che attiene alla tutela del diritto all’immagine in senso generale, può senz’altro dirsi che l’ordinamento appresta una tutela tendenzialmente completa: anzitutto l’utilizzo è normalmente subordinato al consenso del relativo titolare; in caso di violazione, poi, è possibile ottenere un provvedimento giurisdizionale che imponga il desistat, inibendo l’ulteriore utilizzo dell’immagine, e riconosca il risarcimento del danno. Sono poi previste delle misure compulsorie, volte a scoraggiare la protrazione della violazione oltre a sanzioni penali tutt’altro che blande.

Rispetto al nostro tema di indagine, ovverosia la pubblicazione da parte dei genitori delle foto dei figli su Facebook, occorre precisare che vengono in rilievo profili specifici e speciali di tutela. L’attenzione per l’immagine del minore, infatti, si ricollega al dato per cui, come indicato nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, «il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita». Per questa ragione, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989 all’art. 16 prevede, tra l’altro, che «nessun fanciullo sarà oggetto di interferenze arbitrarie o illegali nella sua vita privata, nella sua famiglia, nel suo domicilio o nella sua corrispondenza, e neppure di affronti illegali al suo onore e alla sua reputazione».

Da ultimo, il Regolamento Generale Europeo sulla Protezione dei Dati, (GDPR  2016/679) al considerando nr. 37, stabilisce che «i minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali. Tale specifica protezione dovrebbe, in particolare, riguardare l’utilizzo dei dati personali dei minori a fini di marketing o di creazione di profili di personalità o di utente e la raccolta di dati personali relativi ai minori all’atto dell’utilizzo di servizi forniti direttamente a un minore». Sulla scorta di queste premesse, l’art. 8 del citato Regolamento prevede che «per quanto riguarda l’offerta diretta di servizi della società dell’informazione ai minori, il trattamento di dati personali del minore è lecito ove il minore abbia almeno 16 anni. Ove il minore abbia un’età inferiore ai 16 anni, tale trattamento è lecito soltanto se e nella misura in cui tale consenso è prestato o autorizzato dal titolare della responsabilità genitoriale. Gli Stati membri possono stabilire per legge un’età inferiore a tali fini purché non inferiore ai 13 anni».

Si ricava, quindi, un’attenzione particolare alle esigenze dei minori, esigenze la cui valutazione, com’è ovvio, è rimessa anzitutto a coloro che sul minore esercitano la responsabilità genitoriale. Il minore, infatti, è considerato dalla legge un soggetto incapace, ovverosia un individuo che, in ragione della sua immaturità, non può compiere autonomamente attività negoziali (tra cui ovviamente ricade l’utilizzo della propria immagine) ma abbisogna dell’intervento tutorio dei genitori. Ciò, peraltro, è ancora vero sopratutto con riferimento ai profili patrimoniali, mentre per quanto attiene alle scelte esistenziali si tende a riconoscere una sempre maggior importanza alla volontà del minore, sulla scorta dell’assunto per cui il semplice dato anagrafico non può comportare la svalutazione integrale delle aspirazioni, delle attitudini e delle volontà del diretto interessato.

Responsabilità genitoriale, baby web reputation e provvedimenti del giudice

Prima di verificare in che modo, allora, i genitori possano gestire la pubblicazione di foto dei figli su Facebook e sulle piattaforme social, occorre soffermarsi sull’esatto inquadramento del compito cui i genitori sono chiamati. Va rimarcato, allo scopo, che quella patria potestà troppo spesso “riesumata” (anche solo terminologicamente) dai media è stata espunta dal nostro sistema addirittura nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia e al sotteso superamento di quell’impostazione gerarchica e marito-centrica assolutamente incompatibile con i valori e lo spirito costituzionale. Il rapporto tra genitori e figli, dunque, non è più riconducibile a un potere decisorio dei primi (o addirittura del solo marito) sui secondi, ma è oggi più correttamente ricondotto nei binari di una responsabilità di questi su quelli: non esiste più quindi un rapporto di subordinazione dei figli, ma un dovere dei genitori di compiere per essi e – per quanto possibile – con essi, le scelte strumentali alla migliore realizzazione della personalità (art. 2 – 30 Cost.).

Per gli effetti, i genitori non possono considerare un “diritto proprio la pubblicazione indiscriminata e capricciosa delle foto del figlio: mentre, infatti, a ciò sono senz’altro abilitati con riferimento alla propria immagine, allorché venga in rilievo un minore occorre sempre considerare che si sta esercitando – con fine tutorio, quindi di protezione – il diritto di un altro soggetto. Di conseguenza, più che valutare se il post soddisfa l’ego del genitore che procede alla pubblicazione, occorrerebbe di volta in volta domandarsi se esso arrechi beneficio o nocumento (anche solo potenziale) alla identità, alla reputazione e, più in generale, al pieno e genuino sviluppo della personalità del minore.

Ecco, dunque, che viene introdotto il tema della baby web reputation, giacché emerge la necessità di verificare se talune tipologie di pubblicazioni, come ad esempio quelle delle fotografie del minore nudo in spiaggia oppure mentre fa il bagnetto, possano risultare lesive – è bene precisarlo – anche solo potenzialmente della reputazione e della riservatezza di quello specifico individuo. Il problema, peraltro, è particolarmente urgente se si considera che, una volta caricata in rete, la signoria sull’immagine è destinata ad essere irrimediabilmente persa: non sarà più possibile, in altri termini, ottenere una completa rimozione dell’immagine dal web, considerando che non è tecnicamente possibile “scovare” un file all’interno del web. A ciò, inoltre, va aggiunto il dato per cui è sufficiente che anche un solo utente proceda (illegalmente, è bene rimarcarlo) al salvataggio dell’immagine su un supporto fisico (ad es. pendrive) perché quel determinato file possa essere nuovamente riversato sulla rete in tempi successivi e con modi e forme, in ultima istanza, incontrollate e incontrollabili.

A ciò si aggiunga che, sebbene le proporzioni del fenomeno non siano del tutto chiare (in quanto le statistiche disponibili sono piuttosto inaffidabili), esiste comunque un certo rischio connesso al possibile utilizzo delle immagini reperite in rete da parte di malintenzionati a fini pedopornografici (art. 600-ter; 600-quater c.p.), eventualmente anche mediante la elaborazione delle immagini per la realizzazione di contenuti di pornografia virtuale (art. 600-quater.1 c.p.). Ad ogni modo, pur in presenza dei rischi evidenziati, almeno fino a qualche tempo fa (secondo quanto si spiegherà in seguito) era indiscusso che, in presenza dell’accordo tra i genitori per un determinato uso dell’immagine del minore sui social, ai sensi del combinato disposto degli artt. 316 e 320 c.c. la pubblicazione può (retius, poteva) dirsi legittima.

Possono verificarsi, tuttavia, due casi patologici. Anzitutto è possibile che i genitori si trovino in disaccordo, ad esempio volendo l’uno evitare del tutto o modulare in maniera più prudente pubblicazione delle foto dei figli su Facebook così come operata dall’altro. In tale ipotesi, allora, il genitore in disaccordo con i comportamenti tenuti dall’altro potrà adire, senza formalità, il giudice tutelare, così che questi provveda – sentiti i genitori e anche il minore, se ultradodicenne o comunque dotato di capacità di discernimento – dapprima in via conciliativa, suggerendo «le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare» e, se il contrasto persiste, attribuendo «il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene più idoneo a curare l’interesse del figlio» (art. 316 co. II e III c.c.). È poi possibile che sia direttamente il minore a ritenere per sé pregiudizievole un certo atto di amministrazione compiuto dai genitori o da uno di essi. In questa ipotesi, insorgendo un contrasto tra colui o coloro i quali esercitano l’ufficio di tutore e il minore tutelando, il Giudice provvederà a nominare un curatore speciale per il figlio, ovvero (se il contrasto è con uno soltanto degli esercenti la responsabilità genitoriale) attribuendo la rappresentanza esclusivamente all’altro.

Crisi del rapporto coniugale e pubblicazione delle foto dei figli su Facebook

Non è infrequente, purtroppo, che gravi controversie relative (anche) all’uso delle foto dei figli su Facebook si verifichino in occasione della crisi del rapporto coniugale e, dunque, durante i procedimenti di separazione personale dei coniugi e di divorzio. Il punto di partenza è che il minore, anche in tali casi, ha diritto a “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale» (art. 337-ter c.c.).

Per le ipotesi più burrascose, ovverosia nelle quali i genitori non riescono a pervenire ad un accordo, il giudice «valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli» e «adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole». Se le parti (ovverosia i genitori) riescono invece a pervenire, di regola mediante l’ausilio dei rispettivi difensori, a un accordo sulle condizioni dell’affidamento del minore, il Giudice tutelare, verificata la compatibilità dell’intesa con l’interesse superiore dei figli, lo omologa, rendendolo quindi a tutti gli effetti vincolante per la disciplina dei rapporti tra i genitori e la prole. In questi accordi, di recente, sempre più spesso vengono inserite apposite clausole volte a disciplinare la presenza sui social, diretta o indiretta (cioè per il tramite dei profili di terzi e, su tutti, dei genitori) del minore e, dunque, le regole da rispettare per la pubblicazione di foto dei figli su Facebook e simili. Non mancano, comunque, altre clausole specifiche, relative per esempio alle modalità di utilizzo di Internet, ovvero alla tipologia di videogiochi che il minore potrà utilizzare.

Ciò chiarito, per quanto concerne la tematica della baby web reputation e lo specifico profilo relativo alla pubblicazione di foto dei figli va detto che di assoluto interesse risultano due recenti provvedimenti adottati dal Tribunale di Roma e da quello di Mantova, poiché espressione di un orientamento giurisprudenziale particolarmente attento e rigoroso sul punto. Nel primo caso, infatti, il Giudice – nell’ambito di un travagliatissimo procedimento di separazione –  con l’ordinanza del 23 dicembre 2017, autorizzava il figlio sedicenne a trasferirsi negli USA per continuare gli studi e sottrarsi alla situazione di turbamento che i gravi contrasti con la madre gli procuravano. Contestualmente, richiamato l’insegnamento della Cassazione secondo cui in materia minorile è possibile «l’adottabilità d’ufficio, da parte del giudice […] dei provvedimenti necessari alla tutela morale e materiale dei figli minori, provvedimenti caratterizzati da esigenze e finalità pubblicistiche e sottratti, per l’effetto, all’iniziativa ed alla disponibilità delle parti» (Cass. 2210/2000), inibiva alla madre «la diffusione in social network, comunque denominati, e nei mass media delle immagini, delle informazioni e di ogni dato relativo al figlio», disponendo che la donna provvedesse alla rimozione dei contenuti già esistenti. Ancora, il Tribunale ha disposto che il tutore procedesse alla richiesta di deindicizzazione dai motori di ricerca e alla diffida anche a terzi affinché anche questi si astenessero dalla diffusione e procedessero alla cancellazione dai social network di ogni dato relativo al minore. Da ultimo, a completamento degli ordini impartiti, il Giudice tutelare ha fatto ricorso all’istituto delle astreintes, ovverosia degli strumenti di coazione indiretta che consistono nell’imporre al destinatario di un certo obbligo il pagamento di una somma di danaro (nel caso di specie addirittura 10.000 €) a vantaggio del soggetto tutelando per il caso di inosservanza del comando giudiziario. Tale misura, ovviamente, più che ad arricchire colui che del comando giudiziario si avvantaggia (nel nostro caso, il minore) è volta a scoraggiare l’inadempimento dell’obbligato attraverso la minaccia di gravi conseguenze patrimoniali a suo carico. Tutto ciò, evidentemente, a fronte del carattere gravemente pregiudizievole per la baby web reputation e per la serenità di vita, più in generale, delle pubblicazioni, ascrivibili alla madre, che riguardavano il minore.

L’altra vicenda menzionata e che potrebbe dare l’abbrivio a un innovativo orientamento giurisprudenziale si ricollega al Decreto del 20 settembre 2017 con cui il Tribunale di Mantova, in composizione collegiale, ha pronunciato sul ricorso presentato dall’uno dei genitori per ottenere inaudita altera parte (ovverosia con la massima urgenza, senza nemmeno ascoltare l’altro soggetto della controversia), tra l’altro, proprio la inibizione dei comportamenti dell’altro relative alla pubblicazione delle foto dei figli su Facebook e sugli altri social. In particolare, con l’accordo di separazione omologato dal Tribunale, la madre si era impegnata specificamente a non pubblicare immagini dei minori sui social e a rimuovere le foto già esistenti. Nel ricorso, tuttavia, il padre ha documentato «l’inserimento da parte della madre di numerose foto dei figli […] anche dopo l’intervenuto accordo […] comportamento questo che integra violazione della norma di cui all’art. 10 c.c[…] del combinato disposto degli artt. 4,7,8 e 145 del d.lgs. 30-6-2006 n. 196 (riguardanti la tutela della riservatezza dei dati personali) nonché degli artt. 1 e 16 co. I della Convenzione di New York […]).

Particolarmente importante, allora, è comprendere il percorso argomentativo logico-giuridico del Tribunale: sebbene, come si è visto, di norma spetti proprio ai genitori assumere le decisioni relative all’immagine dei figli e sebbene, di conseguenza, l’impiego dell’immagine operata con il loro consenso (o di loro iniziativa) vada considerato legittimo, ciò non vale più ove essi si siano impegnati a evitare pubblicazioni che ritraggano il minore (e a rimuovere quelle esistenti). In questa circostanza, infatti, l’accordo intervenuto sul punto (e l’impegno assunto) sono sintomatici di una comune valutazione di disfavore, operata dai genitori, rispetto alla “presenza online” del minore. In altri termini, quindi, una volta raggiunto l’accordo, è come se i genitori avessero espressamente convenuto che l’esistenza online di immagini che ritraggono il minore sia lesiva della baby web reputation e che da tale approdo essi non possano più recedere liberamente, occorrendo allo scopo una modifica degli accordi da adottarsi con provvedimento del Giudice tutelare.

A ben vedere, tuttavia, il Tribunale nel caso di specie si spinge anche oltre. Si afferma, infatti, che «l’inserimento di foto di minori sui social network costituisce comportamento potenzialmente pregiudizievole per essi in quanto ciò determina la diffusione delle immagini fra un numero indeterminato di persone, conosciute e non, le quali possono essere malintenzionate e avvicinarsi ai bambini dopo averli visti più volte in foto online, non potendo inoltre andare sottaciuto l’ulteriore pericolo costituito dalla condotta di soggetti che […] con procedimenti di fotomontaggio […] traggono materiale pedopornografico». La conclusione cui perviene il Tribunale, allora, è tranciante: «il pregiudizio per il minore è insito nella diffusione della sua immagine sui social network».

Ebbene, seguendo tale impostazione, diverrebbe addirittura superfluo inserire negli accordi di separazione clausole a tutela della baby web reputation, giacché – in caso di pubblicazione delle foto dei figli – l’illegittimità della condotta sarebbe, per così dire, in re ipsa. 

Peraltro – si badi bene – se la pubblicazione è ex se lesiva dell’interesse del minore, non occorrerà affatto che sussista un procedimento di separazione dei coniugi (o comunque una controversia relativa all’affidamento del minore), giacché anche nella fase “fisiologica” del rapporto permane ovviamente l’esigenza di tutelare la baby web reputation. Ed infatti, ai sensi dell’art. 333 c.c., «quando la condotta di uno o di entrambi i genitori appare comunque pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti». Sicché, estremizzando gli approdi, anche in questa fase potrebbe esserci un’iniziativa per l’adozione di provvedimenti inibitori e di rimozione assunta (magari su denuncia informale degli insegnanti o di altri parenti del minore) addirittura direttamente dal Magistrato del Pubblico Ministero ai sensi del combinato disposto degli artt. 336 c.c. e 69 c.p.c.

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