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Deplatforming

Significato di Deplatforming

deplatforming: definizione Per Deplatforming si intende il tentativo di boicottare qualcuno o qualcosa (una serie di idee, posizioni o temi controversi per esempio), generalmente rendendogli difficoltoso l’accesso a canali pubblici attraverso cui possa veicolare i propri messaggi o interrompendone servizi e cancellandone contenuti preesistenti.  

Deplatforming: cos’è e quali sono le tipologie

I modi in cui può concretizzarsi la “depiattaformizzazione” sono molteplici, anche in considerazione dei singoli contesti di riferimento. Internet Service Provider e Cloud Provider, per esempio, possono inserire in una blacklist clienti malevoli o inaffidabili e decidere di interrompere la fornitura del servizio. Su marketplace e app store possono essere “depiattaformizzati” soprattutto merchant o sviluppatori di app che non rispettino linee guida o termini di utilizzo del servizio (è quello che è successo a gennaio 2021 all’app Parler, prima rimossa dagli app store di Google e Apple e poi dismessa dai server di Amazon.

Più spesso, però, si usa il termine deplatforming in espressioni come “ social media deplatforming” per far riferimento alla prassi di bannare gli utenti che non rispettano linee guida, standard di comunità e policy stabilite dalle piattaforme in materia di hate speech , per esempio, o di incitazione alla violenza e all’odio razziale e, ancora, di uso di immagini esplicite.

Esiste, inoltre, una forma di “financial deplatforming” che consiste nella prassi per banche e altri istituti finanziari di diversa natura di evitare sovvenzioni a individui o gruppi controversi, fondamentalisti per esempio, perlopiù come forma di tutela dal danno reputazionale che potrebbe conseguire dall’essere pubblicamente associati a questi.

Deplatform: origine del termine, uso in ambito accademico e significato attuale

Gli stessi concetti “deplatforming” e “deplatform” sono considerati come una sorta di versione 2.0, e a volte utilizzati come sinonimo, di un’altra espressione, “no platform” (o “no platforming”), originariamente utilizzata soprattutto in ambito accademico per indicare la prassi con cui venivano letteralmente banditi dai campus personaggi, per quanto in voga o riconosciuti come esperti di una determinata materia, le cui idee o posizioni sociali e politiche erano contrarie a quelle manifesto dell’istituzione stessa.

Secondo alcune ricostruzioni, per esempio, nel regolamento universitario dell’Università della California c’era una speciale clausola, “speaker ban”, com’era generalmente conosciuta, che vietava che fossero chiamati a parlare nei campus, anche durante occasioni speciali e cerimoniali, personaggi vicini all’ideologia comunista per «evitare che il prestigio dell’università stessa fosse messo a rischio da chi la usa come un luogo di propaganda». Grazie a un’applicazione piuttosto estensiva della clausola fu possibile, per esempio, impedire a Malcolm X di tenere un intervento a Berkeley.

Dal suo utilizzo in ambito universitario è più facile comprendere, tra l’altro, origine ed etimologia dell’espressione: “depiattaformizzato” è chi non ha o non ha più e per ragioni che prescindono la propria volontà un palco (uno dei significati dell’inglese “platform”) da cui poter parlare. Non stupisce così che Treccani, per esempio, decida di dare a deplatforming significato, alquanto generico, di «pratica di hackeraggio mirante a cancellare o impedire l’espressione di opinioni a persone o gruppi considerati controversi o pericolosi».

quando e perché si rischia di essere depiattaformizzati dagli ambienti digitali (e non solo)

Come già si accennava, di esempi di deplatforming ce ne sono in campi molto diversi e che non sempre hanno a che vedere con il digitale. Si può dire che giornalismo e carta stampata abbiano praticato forme antesignane di “depiattaformizzazione” quando hanno volontariamente scelto, in accordo con le proprie linee editoriali, di non dare spazio sulle proprie pagine a determinati personaggi, ideologie o vicende. In occasione del sequestro di Aldo Moro, per esempio, i giornali italiani si divisero sull’opportunità di pubblicare o meno le lettere delle Brigate Rosse: in quell’occasione tra i sostenitori dell’esigenza di «un blackout totale» di fronte all’exploit di violenza rossa e per non dare eccessiva visibilità alla frangia terrorista di sinistra ci fu, tra gli altri, il massmediologo McLuhan.
Più di recente in America ha fatto scalpore la vicenda di una rivista musicale vicina agli ambienti punk, Maximum Rocknroll, che ha vietato ai propri collaboratori di dedicare articoli e interviste a band o performer vicini a posizioni neonaziste, come si legge nell’editoriale del numero 415 di dicembre 2017.

Già questi due esempi rivelano una sorta di leitmotiv tra gran parte delle operazioni di deplatforming: ci sono spesso un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica e un interesse maggiore da tutelare che vengono chiamati in causa come ragione valida per negare spazio e visibilità a certi personaggi o a determinati temi. Non altrettanto frequentemente, però, si riescono ad assicurare controlli efficaci o meccanismi di check and balance funzionali a evitare che il semplice dissuadere comportamenti controversi in spazi di grande visibilità pubblica si trasformi in un più arbitrario zittire «semplici opinioni dissenzienti», come ha sostenuto il giornalista tech Declan McCullagh.

Rischi come l’ultimo sono più alti soprattutto quando tra “depiattaformizzato” e “depiattaformizzante” c’è un forte squilibrio di potere. Molto più pragmaticamente significa che quando piattaforme digitali come Facebook, Twitter o TikTok decidono di bannare una serie di utenti o di hashtag e temi chiamando in causa violazioni ai termini di utilizzo dei propri servizi è difficile, da un lato, accertarsi che la violazione sia avvenuta realmente e in che misura e, dall’altro, opporsi a decisioni già prese.

Per i big del social networking bannare account, pagine e profili controversi si è trasformato a volte in un’alternativa allo scoraggiare con le buone maniere (limitandone per esempio la visibilità o penalizzandole tramite l’algoritmo, ecc.) varie attività e pratiche poco gradite che avvenivano al loro interno. Sono attività e pratiche poco gradite come l’utilizzo di linguaggio dell’odio, la condivisione sistemica e consapevole di fake news e media manipolati, l’incitazione alla violenza o a comportamenti che mettono a rischio l’ordine pubblico, l’odio razziale, la pubblicazione di contenuti sessualmente espliciti o pedopornografici, ma anche i tentativi di ingerenza nella vita pubblica e politica di paesi terzi. La campagna elettorale per le presidenziali americane 2020, per esempio, ha visto le principali piattaforme social impegnate a bannare dai propri ambienti reti di utenti malevoli e troll che provavano a interferire con il corretto svolgimento delle operazioni di voto.

Dopo gli scontri alla sede del Congresso durante la ratifica della vittoria di Biden, il 6 gennaio 2021, un’operazione di deplatforming ha avuto per protagonisti, invece, profili e pagine dei complottisti di QAnon: ne sono stati bannati e rimossi da Twitter almeno 70mila.

Esempi di deplatforming, dall’Italia e dall’estero

Decisione come l’ultima ben rappresentano il rischio che le “depiattaformizzazioni” si tingano di significati politici. Nel 2018 il dizionario Merriam-Webster inserì “deplatform” nella lista delle parole dell’anno proprio perché, in pochi mesi, i principali social network bannarono una serie di personaggi pubblici che nel tempo avevano acquisito un certo seguito e una certa visibilità negli ambienti digitali e che risultavano molto vicini, però, alle idee della destra estremista americana: tra di loro c’erano, per esempio, Alex Jones, Gavin McInnes (il fondatore dei Proud Boys) e Dennis Prager. L’anno successivo quelle che qualcuno definì come “epurazioni” continuarono ed ebbero come bersaglio tanto suprematisti bianchi come Paul Nehlen, quanto attivisti anti-musulmani come Laura Loomer.

Anche guardando al panorama italiano, tra i casi più eclatanti di deplatforming ce ne sono con protagonista l’estrema destra: in quello stesso 2018, anno delle “depiattaformizzazioni”, Facebook cominciò a bloccare in massa le pagine fasciste, mentre più recente – e ancora irrisolta – è la querelle tra Facebook e Casa Pound per l’oscuramento della pagina ufficiale e dei profili degli amministratori.

Il caso InfoWars

L’esempio di scuola quando si parla di deplatforming rimane, però, la vicenda di InfoWars. Creato nel 1999 dal già citato Alex Jones, si presenta come un sito d’informazione multimediale, che ospita talk show e podcast insieme ai più tradizionali articoli, con visite mensili, nell’ordine dei dieci milioni, che supererebbero quelli di news media americani tra i più affidabili, come The Economist per citare un esempio. Si tratta di un portale, comunque, piuttosto vicino alle idee dell’estrema destra e avvezzo sostenitore di Trump, oltre che di alcune tesi care ai suprematisti bianchi. In non poche occasioni è stato accusato di pubblicare fake news, deep fake e informazioni manipolate ad arte. L’accusa più pesante, però, rimane l’aver dato piede, durante la campagna elettorale per le presidenziali americane del 2016, alla campagna di disinformazione pilotata dalla Russia (la stessa svelata dallo scandalo Cambridge Analytica).

Sono state queste e altre accuse simili a convincere prima numerose aziende a smettere di investire in YouTube ads dopo essersi accorte che i propri messaggi erano associati a video di InfoWars e temendo per la propria brand safety e, in un secondo momento, direttamente le big digitali a prendere provvedimenti in prima persona. YouTube aveva bloccato per novanta giorni il canale di InfoWars, come da prassi per contenuti di questo tipo, prima di decidere, nell’agosto del 2018, di cancellarne definitivamente tutti i contenuti, seguito quasi immediatamente da Facebook e Apple.

Vicende come questa rischiano di alimentare la retorica di un bias progressista – se non addirittura, radical chic o filocomunista – di cui le big tech sarebbero portatrici. È un’argomentazione cara soprattutto all’ex presidente Trump che, tra l’altro, dopo la sconfitta al voto del 4 novembre 2020 è stato in prima persona oggetto di deplatforming con il blocco «a tempo indeterminato dei principali account social».

In letteratura, però, non mancano posizioni che considerano il deplatforming in sé come una forma di Internet activism.

Deplatforming: come bilanciare gli interessi in gioco

Di certo c’è che quando si tratta di “depiattaformizzare” personaggi, contenuti, idee le questioni in gioco e gli interessi da bilanciare sono tanti e importanti. Al diritto di soggetti privati e di soggetti di mercato, quali sono le big tech, di imporre e chiedere che siano rispettati specifici termini di servizio si oppongono, per restare a tesi e controtesi più comunemente avanzate in questi casi, libertà inviolabili per l’individuo come la libertà di parola ed effetti collaterali poco tollerabili per una democrazia, dalla cancel culture alla spirale del silenzio in cui rischiano di cadere gli argomenti e i personaggi oggetto di deplatforming. Il paradosso del deplatforming appare molto simile, insomma, al vecchio – irrisolto e in parte irrisolvibile – paradosso della tolleranza. C’è almeno un’altra domanda, però, a cui trovare risposta: il deplatforming funziona nell’evitare il rischio di exploit di violenza o di comportamenti abusanti e linguaggio offensivo negli ambienti digitali? Ancora la vicenda di InfoWars sembra suggerire di no è che, anzi, verso personaggi, argomenti e idee “depiattaformizzati” agisca una sorta di effetto Streisand: le ricerche su Google con la key “InfoWars” sarebbero schizzate alle stelle subito dopo che il creatore del sito e il sito stesso sono stati oscurati dalle big tech. L’ipotesi, confermata da alcuni studi per quanto embrionali sulla materia, sembra essere che gli effetti – positivi sulla diminuzione dell’uso di hate speech, della circolazione di fake news, ecc. – si vedrebbero, invece, solo nel medio e lungo periodo.

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