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Fact checking journalism

Definizione di Fact checking journalism

Fact checking journalism Fact checking journalism è detto quel giornalismo che si occupa esclusivamente di verifica e debunking di fatti di cronaca, informazioni o statistiche istituzionali, dichiarazioni di politici, personaggi pubblici o aziende e via di questo passo.

Secondo una definizione più puntuale di fact checking journalism politico si tratta di un giornalismo fatto da «organizzazioni che producono contenuti […] con cui valutano o giudicano l’accuratezza delle dichiarazioni di politici e personaggi pubblici». Si tratta di una definizione che chiarisce subito quale sia la missione originaria di un giornalismo basato su – e che si potrebbe dire ha come prodotto finale – la verifica delle fonti e che rende conto, allo stesso tempo, di come il fact checking journalism sia diventato un genere giornalistico a sé stante (sorte condivisa per esempio con il whistleblowing journalism, ndr) e abbia sviluppato, a sua volta, ulteriori sottogeneri come il fact checking journalism politico appunto o quello scientifico o di gossip. La diffusione di notizie non verificate, imprecise, completamente false, quando non manipolate ad arte è del resto una minaccia che non conosce campo.

Storia e missione di un giornalismo basato sul fact checking

Minaccia con cui il giornalismo ha imparato presto a fare i conti, soprattutto quando divenne di massa. La prima fact checker al mondo fu, forse, Nancy Ford. Assunta nei primi anni Venti come segretaria nella redazione del Time – racconta chi ha provato a tracciare una storia del fact checking – il suo lavoro quotidiano passò presto dal selezionare le fonti che riteneva interessanti per articoli da fare uscire sul giornale al verificare puntigliosamente date, fatti e nomi citati in ogni pezzo: i suoi più fidi alleati erano i volumi della New York Public Library; era tra le poche donne che potevano restare in redazione fino a tardi, quando veniva chiuso il numero da mandare in stampa, e pare amasse il suo lavoro soprattutto per la possibilità «di dire qualsiasi cosa».

fact checking journalism storia

Il Time fu uno dei primi giornali ad avere in redazione chi si occupasse appositamente di fact checking; tra loro Nancy Ford, da più parti riconosciuta come la prima fact checker di professione. Fonte: Time, The LIFE Images Collection

Da quegli anni Venti del Novecento, quando la verifica e la verificabilità delle notizie cominciarono a diventare issue importanti all’interno delle newsroom, il ruolo e il campo d’azione dei fact checker sono molto cambiati. Che intervenisse a monte o a valle del ciclo di vita di una notizia, per verificare cioè i dettagli e le informazioni che si stavano per pubblicare o per rettificare gli eventuali errori commessi, il fact checking era allora quasi esclusivamente un processo interno alle stesse redazioni. Oggi invece i giornalisti specializzati nella verifica delle informazioni sfruttano le proprie conoscenze, oltre che per assicurarsi la qualità dell’informazione che producono di persona, anche e soprattutto per fare debunking di contenuti – scorretti, non verificati, manipolati, creati ad arte dagli spin doctor – di altri e che immessi nell’ecosistema informativo rischiano di creare misinformazione.

Perché il fact checking journalism è oggi più indispensabile di un tempo

Sono del resto anni in cui chiunque ha imparato a familiarizzare con espressioni come “post-verità“, “fatti alternativi“. Numerosi studi hanno provato a misurare l’impatto delle fake news sulla vita associata, come le bufale in politica rischino di avvelenare il clima elettorale, quali siano i pericoli associati a una cattiva informazione scientifica o persino perché le fake news possono danneggiare le aziende. I risultati sono stati a volte contrastanti, ma hanno sempre mostrato chiaramente responsabilità equamente spartite tra chi fa informazione e chi la consuma.

Alle ormai famose percentuali su quanti utenti commentano o condividono un link senza aprirlo si aggiungono dati, come quelli delle ultime rilevazioni sulla dieta mediatica degli italiani, secondo cui la maggior parte degli italiani che si informano online lo fa tramite “fonti algoritmiche” come motori di ricerca e social network e chi accede direttamente a siti o app di informazione è invece solo una minoranza; in questa prospettiva, se si considerano valide le teorie su omofilia, echo chamber e filter bubble , informarsi quasi ed esclusivamente sulle reti sociali significherebbe essere esposti per lo più a opinioni simili alle proprie, un grave rischio per un pensiero e un dibattito democratico.

Dal canto loro le redazioni sembrano ossessionate dal mito del tempo reale e della copertura live del più grande numero possibile di fatti, che non lascia certo spazio alla verifica delle fonti. Se la domanda è insomma “chi ha ucciso il giornalismo?, la risposta non può che prendere in considerazione anche bias tipici delle newsroom come la tematizzazione , il sensazionalismo e la ricerca spasmodica dello human interest, il perception management .

In questa prospettiva il fact checking journalism potrebbe sembrare la riscoperta di un giornalismo lento, di approfondimento, dai tempi lunghi e vocato più all’analisi dei fenomeni che alla loro semplice scoperta (in una formula, slow journalism ). Ancora, è la perfetta messa in atto di quello che in teoria è definito accountability journalism, un giornalismo che non si limita a fidarsi delle proprie fonti – neanche se di prima mano o privilegiate e ufficiali – ma indaga su di esse, le passa al setaccio, è in grado di spiegarle nel dettaglio e, cosa non meno importante, si assume precise responsabilità verso il pubblico a cui parla. Nel giornalismo di fact-checking sembra esserci insomma una sorta di riscoperta della missione pubblica, da cane da guardia, di chi fa informazione: non deve stupire perciò che si auspichino per il fact checking journalism etica e deontologia ben definite o che qualcuno lo consideri «journalism as service».

La riscoperta importanza della verifica delle informazioni sembra, però, anche una sorta di reazione del giornalismo davanti alla concorrenza impari dei big del digitale all’interno di quella che è stata già definita una «industria del fact-check» (conta centinaia di soggetti e vale svariate centinaia di migliaia di dollari, ndr): se Facebook, Google e quasi tutte le altre piattaforme digitali hanno ormai da tempo implementato funzioni per il controllo dei contenuti che si trovano al loro interno, il giornalismo non ha più scuse per sottrarsi a simile dovere.

Fact checking journalism: caratteristiche, strumenti ED ESEMPI

Come ogni genere giornalistico che si rispetti, il fact checking journalism ha peculiarità proprie. Il tempo prima di tutto: per definizione, la verifica delle informazioni per essere accurata richiede ritmi decisamente più slow di quelli di un giornalismo che punti invece alla copertura in diretta delle notizie. Non deve sorprendere, perciò, che il debunking della dichiarazione di un politico, dei risultati di uno studio discutibile arrivino quasi sempre solo sulla coda lunga. Come vincere questa stessa coda lunga e rendere notiziabile, nonostante il mancato tempismo, il prodotto del fact checking è la principale sfida per chi lavora nel settore. Per fortuna oggi ci sono tool che permettono di realizzare operazioni di fact checking anche in tempi molto brevi, quasi in diretta.

Sono tool come FactPopUp, un’estensione per Chrome messa a punto da Repoters’ Lab e applicata ai dibattiti televisivi durante la campagna elettorale per le presidenziali americane del 2016: chi guardava in streaming il tradizionale confronto tra candidati poteva verificare in tempo reale quanto veritiere e accurate fossero le dichiarazioni fornite, grazie a una lancetta che si muoveva tra gli estremi di vero e falso perché collegata al lavoro di debunking che stava facendo su Twitter PolitiFact.

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Nuovi tool aiutano ad accorciare i tempi del fact checking journalism, mostrando visivamente e in diretta per esempio quanto veritiere siano le dichiarazioni dei politici durante un confronto televisivo. Fonte: Reporters’ Lab

Per tornare alle peculiarità del fact checking journalism, comunque, troppo spesso – e a torto – è pensato come un giornalismo verboso, ingessato, di long form, che difficilmente risulta d’appeal all’interno di un ecosistema dell’informazione votato, si è visto, all’immediatezza. Anche in questo senso gli ambienti digitali si sono dimostrati una risorsa preziosa: ancora in occasione della campagna elettorale per le presidenziali americane 2016, per esempio, The Washington Post raccolse settimanalmente le sue storie frutto di debunking sulle dichiarazioni di Trump e Clinton in Twitter Moments e snap su Snapchat. L’obiettivo era parlare a un pubblico in parte diverso da quello che tradizionalmente già visitava Fact Checker, la sezione dedicata al fact checking di TWP, e in effetti grazie a strategie come queste il traffico sarebbe aumentato tra luglio e agosto di almeno il 30%.

Operazioni come quella di The Washington Post mostrano, tra l’altro, come sempre più media tradizionali si stiano provando in esperimenti di fact checking journalism. Lo fanno affidandosi all’expertise di debunker professionisti o singoli giornalisti che da anni operano nel settore e che proprio per questo hanno conquistato buona credibilità: è il caso di Malchy Browne per The New York Times. Oppure preferiscono sperimentare formule alternative, e decisamente più pull, come una newsletter a cui chi è interessato all’argomento può iscriversi per rimanere aggiornato: è quello che fa per esempio l’American Press Institute. Ci sono, però, anche soggetti editoriali nati appositamente per fare giornalismo di fact checking, come il già citato PolitiFact, che copre soprattutto le notizie politiche, Snopes, che era alle origini un sito dove trovare smentite – o verificate – le più comuni leggende metropolitane e che oggi si occupa di fake news a trecentosessanta gradi, e ancora Factcheck.org e simili.

Anche in Italia c’è qualche realtà interessante di fact checking journalism: sono per lo più progetti nati e cresciuti all’interno degli ambienti digitali come Pagella Politica, BUTAC – Bufale Un Tanto Al Chilo, Valigia Blu, ognuno con il proprio campo di interesse specifico. Sembra essere stata soprattutto la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2018, comunque, ad accendere i riflettori in Italia su fake news e loro possibile impatto sulla qualità del discorso pubblico. Sono nati così format come Var Condicio che portano il fact checking, come striscia quotidiana e pre-serale, persino nella programmazione di una vecchia TV, per quanto la TV in questione sia La7 e l’idea di Enrico Mentana, non nuovo a una certa visione del giornalismo come watchdog e “moviola” della politica.

Dall’esperienza televisiva traslata al mondo social nasce, invece, un’operazione come quella di Dataroom di Milena Gabanelli, che fa un giornalismo di verifica dei fatti, ma lo fa provando a parlare a un’audience social appunto e allargando di più le aree di interesse rispetto alla semplice politica.

Fare un giornalismo di fact checking avvicina lettori?

Il fact-checking journalism è efficace? È la domanda a cui ha provato a rispondere una ricerca del già citato American Press Institute sulla percezione della professione giornalistica tra gli stessi addetti ai lavori. Almeno buona parte del campione (due terzi) – giornalisti o persone con una laurea nell’ambito dell’editoria e della comunicazione – si è detta convinta che questo genere di giornalismo sia «di una qualche efficacia», nonostante appena il 17% lavori effettivamente a progetti di questo tipo (prevedibilmente, chi lavora in un’organizzazione che si occupa a diverso titolo di fact checking e debunking è più propenso a riconoscerne l’efficacia concreta).

fact checking journalism efficacia

Chi si occupa di informazione crede che il fact checking journalism sia efficace? A questa domanda ha provato a rispondere l’American Press Institute

I risultati forse più sorprendenti dello studio dell’API hanno a che vedere, comunque, con la percezione che chi si occupa di fact checking ha del mondo dell’informazione: in generale si è meno propensi a pensare che l’ecosistema sia ammorbato da troppe opinioni e false informazioni, il 29% è convinto che il giornalismo sia migliorato negli ultimi anni, che le tecnologie abbiano aiutato le persone a raccontare le loro storie (sarebbe vero per il 73%) e a stabilire un rapporto davvero bidirezionale con i soggetti media più tradizionali (lo crede il 27%). Certo, bisogna accettare il cambiamento e farlo nella maniera più veloce possibile. Anche quando si tratta di rivedere, totalmente, le proprie skill: sono gli stessi operatori dell’informazione, insomma, a sostenere per finire che chi fa un giornalismo devoto al fact checking non può rinunciare già oggi – e non potrà farlo con ancora più probabilità in un futuro prossimo – alla capacità di lavorare in gruppo, a conoscenze nel campo del giornalismo investigativo e in quello della data visualization.

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