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Greenwashing: cos'è, definizione, esempi e perchè le aziende lo fanno?

Significato di Greenwashing

Greenwashing Sotto la categoria di Greenwashing rientrano tutti i tentativi di aziende o brand di mostrarsi pubblicamente più attenti, sensibili, attivamente impegnati in questioni ambientali di quanto lo siano effettivamente. Campagne di comunicazione e di green marketing, pubbliche relazioni e spin doctoring o donazioni spesso operano in questo senso.

Greenwashing cos’è?

Il termine “greenwashing” – nato dall’unione di “green”, aggettivo con cui si fa riferimento ormai per antonomasia alle questioni ecologiste, e “washing”, letteralmente “pulire”, ma più in riferimento in questo caso all’immagine del brand  – è un chiaro riferimento del resto a “withewashing”, parola usata dagli anglofoni sia nel significato letterale di “dare la calce”, sia in quello traslato di “nascondere” o “coprire”. Un brand che fa greenwashing è, insomma, nella pratica un brand che usa in maniera maliziosa campagne e messaggi pubblicitari o in qualche caso persino iniziative di responsabilità sociale per coprire l’impatto ambientale – negativo o più consistente del previsto – delle proprie attività o dei propri prodotti.

Il primo utilizzo del termine greenwashing, del resto, risalirebbe alla metà degli anni Ottanta, quando alcuni studiosi notarono come gli hotel avessero cominciato a chiedere ai propri ospiti di riutilizzare asciugamani e teli da bagno, sostenendo che la scelta fosse più sostenibile da un punto di vista ambientale rispetto al cambiarli giornalmente, quando in realtà la motivazione era di natura puramente economica e aveva a che vedere con un taglio nei costi di gestione (Hayward, 2009).  Più tardi comportamenti di questo tipo divennero più comuni e pervasivi, con brand dei settori più disparati impegnati nel costruire ad arte un’immagine verde di sé e dei propri prodotti, in omaggio alla rilevanza sociale che aveva nel frattempo conquistato la questione ambientalista e ai primi studi che mostravano una propensione maggiore dei consumatori ad acquistare da brand rispettosi della natura. Fu allora che qualcuno cominciò ad applicare anche a questo tipo di pratiche l’etichetta di “ecopornografia” (Mander, 2008) e che come sinonimo di greenwashing venne utilizzata anche l’espressione “green sheen“, formata da “sheen”, che ha letteralmente il significato di “abbaglio”. Non c’è più disaccordo, del resto, tra gli addetti ai lavori nel dare a greenwashing significato di «appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente» (Furlanetto, 2013).

Dal greenwashing a pinkwashing e rainbow washing

Chi ha studiato le abitudini di acquisto dei Millennials e di altri consumatori giovanissimi, come quelli della generazione z  per esempio, sa bene infatti che il criterio economico non è più né l’unica, né la discriminante principale e che la consonanza con i valori del brand è altrettanto importante. Tradotto significa che ci sono consumatori che comprano di più da brand che sostengono i rifugiati, per esempio, o da brand che hanno packaging plastic-free o, ancora, che hanno all’attivo iniziative di CSR contro il gender gap o hanno preso posizione su temi rilevanti di discussione pubblica quali l’aborto o i diritti della comunità LGTBQ+.

Il corollario è che il greewashing non è più una pratica isolata: ci sono, oggi, aziende costantemente impegnate a costruire ad arte un’immagine di sé attivamente coinvolta nella prevenzione della salute femminile, per esempio, o nelle questioni di genere – secondo quello che è detto pinkwashing o genderwashing – oppure, ancora, che ostentano vicinanza e sostegno a forme di sessualità non binaria che non corrispondono al portato reale delle iniziative correlate, tanto che c’è chi parla, in questo caso, di rainbow washing .

Esempi di greenwashing: come e perché le aziende provano a mostrarsi più sensibili ai temi ambientali

Se ciò è possibile è anche in virtù di un certo vuoto normativo o, perlomeno, della mancanza di regole certe e valide a livello internazionale. Mentre la maggior parte delle aziende gioca cioè la carta dell’internazionalizzazione, nel mondo della pubblicità e della corporate social responsibility tutto – o quasi – è lasciato ancora a forme volontarie di autoregolamentazione come quelle della Federal Trade Commission (FTC) americana che è stata la prima a stilare, negli anni Dieci del Duemila, delle linee guida per l’utilizzo di environmental marketing claims che impongono alle aziende chiarezza e trasparenza non solo nel definire entità e portato del proprio impegno ma anche, per esempio, nelle scelte linguistiche.

Tra i tanti modi in cui si può fare greenwashing, del resto, l’utilizzo di un linguaggio vago e approssimativo o, al contrario, tanto gergale e tecnico da risultare incomprensibile ai non addetti ai lavori è tanto comune quanto lo è quello di immagini suggestive, con prevalenza di tonalità di verde o di soggetti naturali che evocano un certo commitment del brand o del prodotto verso le questioni ambientali.

I sette peccati del greenwashing

Per rispondere alla domanda “Come le aziende fanno greenwashing?” del resto basta guardare alla lista dei cosiddetti sette peccati di greenwashing e pensare che, nel 95% dei casi, i brand intenzionati a sfruttare maliziosamente il proprio impegno ambientale ne commettono uno o più, come per esempio

  • sostenere che un prodotto sia green e a basso impatto ambientale esclusivamente sulla base di un set (molto) limitato di parametri: è quello che avviene spesso nel mondo dei detergenti, soprattutto da quando i detergenti liquidi e concentrati sono stati presentati come alternativa ecosostenibile dal momento che, durando di più, implicano il consumo di meno flaconi in plastica ma senza tenere conto che, nella maggior parte dei casi, contengono una concentrazione maggiore di derivati del benzene, altamente inquinanti.
  • O, ancora, provarsi in slogan e proclami ambientalisti che, però, sono vaghi o, ancor peggio, rischiano di essere fraintesi da parte dei semplici consumatori.
  • Tanto più che, spesso, richiedono di essere interpretati alla luce di informazioni, fonti o saperi tecnici che non sempre sono accessibili al consumatore finale: quando un brand di soft drink o una catena di retail annunciano ripetutamente di essere diventati più green, per esempio, chi compra può non avere dati a disposizione per controbattere che la stessa produzione di una sola lattina di bevanda zuccherata richiede l’impiego di oltre due litri di acqua potabile o che il 2% di energia proveniente da fonti rinnovabili per la gestione di un grande magazzino è una percentuale davvero irrisoria.
  • Nei casi più evidenti, i brand fanno greenwashing letteralmente mentendo sulle emissioni o l’impatto ambientale dei propri impianti o nell’etichetta e per quanto riguarda la filiera dei propri prodotti: è questo, però, un comportamento tanto spregiudicato quanto a rischio, considerati i vincoli legali di trasparenza e il danno di reputazione che potrebbe seguire all’eventuale debunking di informazioni scorrette e proclami non veritieri.
  • Nella maggior parte dei casi, così, si gioca su suggestioni più sottili come il suggerire, attraverso il packaging o l’accostamento di elementi visivi di natura diversa, partnership con realtà terze e ben note per il proprio impegno a difesa dell’ambiente. È quello che, non di rado, succede con il presunto fair trade: cioccolato, capi di abbigliamento, caffè assumono un maggiore appeal per i consumatori sensibili ai temi ambientali se qualcosa lascia intendere che siano prodotti in partnership con non profit, per esempio, che assicurano il rispetto dei più alti standard sia nelle coltivazioni, sia per quanto riguarda il rispetto delle tradizioni e delle culture locali.
  • Qualche volta, poi, l’azienda fa greenwashing spostando maliziosamente l’attenzione su elementi, dettagli, caratteristiche del prodotto che sono davvero rispettosi dell’ambiente o hanno un impatto positivo su questo ma che, a ben guardare, risultano secondari in riferimento alla categoria merceologica in questione: molti big del settore automobilistico, per esempio, hanno giocato di recente buona parte della propria comunicazione sui sistemi di riduzione delle emissioni in dotazione ai propri modelli più nuovi, sistemi effettivamente utili, ma di certo non in grado di rendere davvero pulito l’utilizzo di automobili con motori diesel.
  • È lo stesso che vale per viaggi in aereo che continuano a essere venduti dalle compagnie come l’alternativa migliore per l’ambiente rispetto ad altre soluzioni di mobilità o per le tote bag in cotone, per esempio, che sembrano essere l’alternativa più rispettosa dell’ambiente al sacchetto della spesa, ma solo se non si considera l’impatto reale che hanno le coltivazioni intensive di cotone. Il settimo dei peccati del greenwashing, del resto, è proprio indurre il consumatore a pensare che acquistando un determinato prodotto o servizio stia facendo un gesto buono per l’ambiente, ma dimenticando in toto di informarlo sull’impatto generico e complessivo di quella categoria di prodotto o servizio.

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