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Guerrilla marketing

Definizione di Guerrilla marketing

guerrilla marketing Il Guerrilla marketing è una forma di marketing non convenzionale che sfrutta strumenti low-cost per massimizzare i risultati. Tra le definizioni più comunemente accettate di guerrilla marketing c’è quella che lo considera “un insieme di modi non convenzionali per raggiungere obiettivi tradizionali”.

Cos’è il guerrilla marketing? 

L’uso del termine guerrilla, com’è ormai comunemente noto, è mutuato dal campo militare: anche la guerriglia è sempre stata, infatti, una modalità di combattimento in un certo senso “a basso costo”, non a caso praticata quasi sempre da civili. È da questo, però, che nasce uno dei più grandi equivoci riguardanti il guerrilla marketing. In molte occasioni, infatti, sono state bollate come “di guerrilla marketing” le trovate più originali dei brand , quelle che hanno fatto parlare a lungo dell’azienda, o dei suoi prodotti o servizi, magari facendole guadagnare spazio e visibilità nell’ecosistema mediatico, all’interno dei cosiddetti earned media. «Sembra che il guerriglia marketing venga inteso oggi come “lo famo strano” (nota citazione dal film “Viaggi di nozze” di Carlo Verdone, ndr) e cioè che, nel comune parlare, sia divenuto semplicemente sinonimo di azioni di marketing per far parlare di sé in modo non convenzionale» spiega infatti Andrea Frausin, uno dei maggiori esperti italiani in materia, con cui ci siamo confrontati sul tema. «Se vuoi far parlare di te, però, oggi basta andare nel centro della propria città, spogliarsi e gironzolare finché arrivano i poliziotti e ti portano in centrale e domani avrai la prima pagina del quotidiano locale – continua – ma non per questo un’azione di questo tipo va considerata un’azione di Guerrilla Marketing. Il vero Guerrilla Marketing, insomma, parte da un’attenta e focalizzata strategia: è “lo famo efficace”».

 

La storia del guerrilla marketing

Per capire davvero cos’è il guerrilla marketing e perché ancora oggi è uno strumento molto amato dalle aziende, serve analizzarne, seppure brevemente, la storia. Erano gli anni Ottanta, le televisioni commerciali di tutti i Paesi, anche in Italia, avevano inventato la “pubblicità” per come poi sarebbe precipitata nell’immaginario collettivo, al ritmo veloce dei commercial trasmessi nelle fasce orarie più adatte per il proprio target e al costo, tutt’altro che modico, di grandi campagne che prevedevano almeno tre voci principali: carta stampata, radio e televisione, appunto. Per i piccoli business, così, da un lato era quasi impossibile emergere in un panorama così affollato di voci, dall’altro era impensabile avere a disposizione budget altrettanto elevati. La soluzione fu, allora, il guerrilla marketing come formulato nel 1984 nell’omonimo libro di Jay Conrad Levinson. Con un passato di direttore creativo alla Leo Burnett, l’esperto pensò al guerrilla marketing con un obiettivo preciso: usare tattiche non convenzionali rispetto a quelle più praticate all’epoca per fare marketing anche con piccoli budget a disposizione. Che la campagna risultasse scioccante, unica, memorabile e che fosse in grado di creare buzz era solo un obiettivo secondario, in qualche misura quasi una conseguenza “fisiologica” del nuovo approccio al marketing. Da quel momento in poi attorno a Levinson si creò un gruppo di esperti e appassionati della materia che ancora oggi si confrontano periodicamente durante conferenze, partecipando a progetti wiki sul guerrilla marketing o a percorsi di training specifici.

Le teorie di Jay Conrad Levinson

Le teorie di Levinson, del resto, sembrano ancora valide in via generale. Forse anche in virtù del fatto che si tratta di una «fine strategia – precisa ancora Andrea Frausin – riassunta in 7 frasi super focalizzate e non in 200 pagine come talvolta sono i piani di marketing delle aziende». Sono frasi che potrebbero benissimo rappresentare anche fasi, step indispensabili quando si tratta di pensare a come utilizzare il guerrilla marketing per rispondere al meglio ai propri obiettivi di business.

  1. Spiegare, e in parte anche spiegarsi, i propri goal di marketing è, infatti, la prima proposizione di Levinson. Significa rispondere a domande come:“Cosa voglio che facciano i miei clienti? Qual è, soprattutto, l’azione più importante a cui li sto invitando con il mio messaggio?”.
  2. Capire come si intende raggiungere questi obiettivi, descrivendo i benefici che si garantiscono ai propri clienti, viene subito dopo. Una task fondamentale in questo senso è riconoscere il proprio vantaggio competitivo, quell’unique selling proposition che serve a distinguere la propria azienda dagli altri competitor e che si traduce, appunto, in un beneficio per l’acquirente finale.
  3. Quindi serve individuare il proprio target: chi comprerà con ogni probabilità i propri prodotti o servizi? Nella maggior parte dei casi può essere utile evidenziare, tra l’altro, un target primario e uno secondario.
  4. È importante anche individuare le nicchie: uno dei mantra da tenere in considerazione al giorno d’oggi è, infatti, che è più facile – nonché più conveniente – soddisfare i bisogni di uno stretto gruppo di persone, piuttosto che puntare a farlo con quelli di tutti.
  5. Arriva poi il momento di definire gli strumenti (per continuare nel solco della metafora militare, Levinson parla proprio di “armi”, ndr) di marketing che si intendono usare. In questo senso c’è un solo principio da rispettare: scegliere gli strumenti di marketing più adeguati da un lato al proprio business, dall’altro al proprio target di riferimento.
  6. Non perdere di vista l’identità del proprio business, del resto, è il successivo consiglio del padre del guerrilla marketing a chi voglia usare tecniche “non convenzionali”: in un tempo in cui non si acquistano più semplici prodotti o servizi, ma si acquistano marche è importante, infatti, che il brand abbia personalità e riesca a trasmetterla in ogni sua azione.
  7. Infine serve stabilire il proprio budget: è uno step immancabile e preliminare, del resto, all’ideazione di qualsiasi operazione di marketing e di comunicazione.

Conviene a grandi aziende o microbusiness?

Le teorie di Levinson acquistano senso in particolare se si considera che, come si è già detto, il guerrilla marketing è per definizione una strategialow cost”, pensata appositamente per gli small business che non possono disporre certo dei budget milionari alla portata, invece, dei grandi brand internazionali. Nonostante i dati sul mercato pubblicitario siano rassicuranti, però, la recente crisi economica ha costretto anche multinazionali e grandi gruppi aziendali a rivedere le proprie uscite destinate a pubblicità e attività di marketing e comunicazione: non deve stupire, perciò, che anche i grandi brand facciano sempre più spesso ricorso al guerrilla marketing. «Anche qui in Italia, tra l’altro, abbiamo richieste oltre che dalle PMI anche da grandi aziende, interessate a un marketing efficace con piccoli budget – sostiene Andrea Frausin, interrogato su dati più di scenario che riguardino questa forma di marketing non convenzionale – e nell’ultima conferenza internazionale fatta da Jay Levinson in Europa, qualche anno fa, tra i 250 presenti non c’era neanche un rappresentate dei piccoli business, solo medi e grandi business». Superfluo è, allora, continuare a chiedersi se il guerrilla marketing sia efficace solo per i business più piccoli o possa avere, invece, dei benefici anche per le aziende più grandi. Almeno quanto essenziale è provare a capire, invece, come il problema “di scala” si rifletta sugli strumenti da utilizzare, sulle azioni da intraprendere soprattutto in fase di progettazione, ecc. Fare guerrilla marketing, insomma, richiede lavorare caso per caso, ma è un’ottima idea anche per «le grandi imprese interessate a un approccio lean al marketing che consenta di ricavare il più possibile dai budget messi a disposizione», continua l’esperto.

I benefici per il consumatore e per l’azienda

Se la domanda “a che cosa serve il guerrilla marketing?” sorge spontanea a questo punto, messi davanti a questo tipo di interrogativo gli esperti si dividono in due categorie: quelli che hanno provato a evidenziare i benefici del guerrilla, come più in generale dell’unconventional marketing, a partire da una dimensione percettiva, psicologica, esperienziale e riferita quindi principalmente al destinatario del messaggio; quelli che, invece, hanno insistito soprattutto sulle ricadute positive del guerrilla marketing per l’organizzazione e il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Ciascuna delle due posizioni, ovviamente, non esclude l’altra.

I primi, però, si sono soffermati soprattutto sull’importanza dell’effetto sorpresa per la ricezione e il ricordo di un messaggio pubblicitario.

Il contesto da considerare è quello di un sempre più massivo bombardamento di informazioni di cui negli ambienti digitali si è vittime (c’è chi ha parlato, in materia, di overload informativo, ndr). Qui le voci si affollano e far emergere la propria a discapito di quella dei competitor è pressoché impossibile, tanto più se si considera che le soglie di attenzione si sono progressivamente abbassate (circola un “mito” secondo cui l’individuo medio avrebbe una soglia di attenzione di circa 8 secondi, inferiore addirittura a quella di un pesce rosso e alcuni studi sembrerebbero confermare questa ipotesi) e se si tiene conto che, nel tempo, ormai abituati ai linguaggi pubblicitari, gli utenti sono diventati sempre più “smaliziati” nei confronti di messaggi di questo tipo, fino a sviluppare una speciale forma di reattanza. Il vantaggio del guerrilla marketing è, allora, quello di raggiungere i potenziali destinatari fuoridai soliti schermi”, dove i meccanismi di difesa contro la pubblicità e la cosiddetta advertising cousciusness sono abbassate e dove è più facile giocare sull’effetto sorpresa.

Negli anni si sono alternate diverse teorie che provano a spiegarlo: alcune di queste – le più recenti in ordine di tempo – usano persino le evidenze delle neuroscienze per provare a chiarire come funzioni l’effetto sorpresa e cosa abbia a che vedere con bias cognitivi, euristiche e scorciatoie del pensiero. Fatto sta che nella maggior parte dei casi è stato confermato come l’effetto sorpresa, ed evidentemente anche il cumulo di emozioni positive a esso legate, abbiano un peso molto importante non solo nell’aumentare il livello di attenzione e di coinvolgimento ma anche nel facilitare la risposta alla call-to-action, obiettivo di fondo di qualsiasi campagna di marketing e/o di comunicazione. In più risulterebbe aumentata anche la memorabilità dell’evento, cioè dell’incontro con il brand che si è vissuto. Si tratta, in tutti i casi, di task fondamentali in un’era che, a detta di molti, non è più un’era di marketing del prodotto, ma di marketing della marca e in cui l’obiettivo fondamentale è aumentare i momenti e i “punti” d’incontro tra brand e consumatore.

L’equivoco di cui si accennava e per cui si rischia di ridurre il guerrilla marketing all’operazione sui generis del brand che si impossessa di piazze, stazioni, fermate della metro o crea veri e propri happening e “azioni” che vedano la persona protagonista in prima persona nasce proprio da qui, dalla volontà di coinvolgere e rendere a tutti i costi i propri clienti protagonisti delle proprie azioni di marketing. Il risultato? È che per sorprendere i loro (potenziali) clienti, spesso le aziende hanno strafatto, non hanno pensato in maniera strategica al guerrilla marketing, ma lo hanno usato solo come strumento estemporaneo, spesso rischiando di dare un messaggio almeno in parte contrario ai valori e all’immagine aziendale. E ignorando, certo, che, se ben calibrato e oggetto invece di una più ampia visione prospettica, il guerrilla marketing può far bene anche e soprattutto all’azienda in diversi modi.

  • Innanzitutto, se è vero il mantra che i mercati sono conversazioni, il guerrilla marketing è comunicazione a 360 gradi e raggiunge il proprio target in tutti i modi possibili.
  • In secondo luogo, «il guerrilla marketing rende ogni singolo momento dell’esperienza soddisfacente, semplice e di valore per il cliente», scrivono gli esperti di gmarketing.com. Un beneficio non da poco nell’era di un marketing che, come si accennava, si fa sempre di più un marketing dell’esperienza.
  • In più, «dà all’imprenditore e a chi dirige l’azienda il presidio del proprio marketing, evitando di rimanere “vittime” dei consigli dei vari attori presenti nel mondo del marketing e della comunicazione che non possono conoscere bene l’azienda quanto l’imprenditore stesso», sottolinea Andrea Frausin. Focalizzazione sui bisogni dell’azienda e concretezza, nei risultati soprattutto, sembrano essere insomma l’apporto anche a livello più olistico del guerrilla marketing.
  • Senza contare che, continua l’esperto, ricorrere a forme di marketing non convenzionale come questa è anche il modo migliore quando si ha bisogno di spiegare il marketing in maniera semplice, efficace, convincente anche a figure aziendali estranee alle divisioni marketing e comunicazione e in qualche caso ancora diffidenti quando si tratta di allocare budget per queste funzioni. C’è qui, anche se ancora in nuce, l’idea di una figura, quella del marketing specialist, che non può restare separata dal resto del management dell’azienda: è importante che questi professionisti – e il loro intero reparto, nel caso in cui ne esista uno – vengano completamente integrati in tutti i processi aziendali. «Il marketing, infatti, è “ogni contatto” (citando lo stesso Levinson, ndr): pertanto tutta l’impresa deve conoscerne le sue guide linea e cooperare per il suo successo. Poi sono gli specialisti che se ne occuperanno, ma sempre con il presidio di chi guida l’impresa», chiarisce infatti Frausin.

Visibilità: un effetto secondario (e collaterale?)

Uno dei benefici secondari del guerrilla marketing è senz’altro, come si accennava, la visibilità che può assicurare all’azienda, ai suoi prodotti o servizi o alle sue singole iniziative. Una visibilità che è, almeno in parte, figlia di quella deriva “sensazionalista” che negli anni ha tradito la vera essenza del guerrilla come formulato dal suo teorico e che, del resto, ha trovato terreno fertile nell’eterna “fame” di notizie in cui vive chi si occupa di informazione. L’effetto, insomma, è di poco diverso da quello del newsjacking: da un lato ci sono l’azienda, il suo reparto marketing e comunicazione e il suo bisogno di trovare spazio anche all’interno di media non proprietari; dall’altro c’è chi quei media li popola di contenuti, chi è sempre alla ricerca di notizie fresche, diverse da quelle dei competitor o, quando ciò non è possibile, ricche almeno di particolari diversi che gli permettano di emergere rispetto alle altre voci in campo. Non deve stupire, insomma, che le azioni di guerrilla marketing siano sempre oggetto di forte attenzione mediatica e di un corposo “rimbalzo”, anche e soprattutto sui social media . Né si può pensare che chi progetta un’azione di questo tipo lo faccia, oggi, lasciando al caso la questione viralità e non considerando la capacità di certi contenuti di diffondersi spontaneamente in Rete, creando coinvolgimento e, più in generale, facendo in modo che “se ne parli” .

Certo, rimane da capire quando questa visibilità spontanea e spontaneamente guadagnata sia utile nel lungo/medio periodo: gli esperti in materia sembrano essere scettici, già a partire dalla constatazione che «una singola azione di marketing non è mai vero Guerrilla Marketing», come ribadisce Andrea Frausin. «Il Guerrilla Marketing – continua – parte da un piano di Guerrilla Marketing ben fatto ed è sempre un mix di azioni».

Gli strumenti per fare guerrilla marketing

Se lo scopo è permettere agli small business di massimizzare i ritorni ottenibili con budget contenuti, comunque, anche il mix di azioni e, meglio, il mix di strumenti da utilizzare per fare guerrilla marketing non può che essere low budget. Secondo la teoria originale, il guerrilla marketing ha bisogno solo di

  • tempo,
  • energia,
  • immaginazione.

Il tempo è quello indispensabile per pianificare una vera e propria strategia di guerrilla marketing che, come si è accennato più volte, non può esaurirsi in una singola azione estemporanea, del resto in nulla benefica per il brand. L’energia e l’immaginazione fanno parte di quel bagaglio di soft skill che non possono non essere richieste a chi si occupa di marketing. Bagaglio che comprende, ovviamente, anche la creatività e tutti gli asset creativi di cui può disporre un’azienda.

A livello operativo, poi, organizzare una campagna di guerrilla marketing potrebbe richiedere di mettere in campo professionalità e competenze anche molto specifiche, diverse di caso in caso e a seconda del concept creativo in questione. Si pensi, per esempio, a quelle forme di guerrilla marketing che si configurano come veri e propri happening e che richiedono, per questo, attori professionisti, scenografi, ecc. Ci sono anche delle importanti considerazioni logistiche da fare: sarà necessario chiedere e pagare la concessione dello spazio pubblico se l’azione di guerrilla marketing non avviene in luoghi di proprietà aziendali? Ci sono regolamenti speciali da rispettare, come quelli che riguardano le riprese audiovisive e, più in generale, le operazioni nelle stazioni metro per esempio? Una caratteristica imprescindibile deve avere, infatti, una strategia di guerrilla marketing: essere rispettosa di leggi e persone.

La vera chiave di volta per fare un buon guerrilla marketing è, in altre parole, agire sulla personalità di chiunque sia coinvolto nella definizione della strategia: «quando si lavora con il vero Guerrilla Marketing una parte importante è nel lavoro sulla psicologia del marketer», conferma infatti ancora Andrea Frausin, interpellato sull’argomento. Si tratta, forse, anche di non perdere mai di vista il volto umano ed “etico” di chi fa questo mestiere, nella convinzione che risultati e performance materiali in azienda seguono sempre quelli “umani”.

I consigli degli esperti

Quali sono, allora, i consigli fondamentali da cui un brand, un’azienda, qualsiasi altro soggetto voglia fare guerrilla marketing non può fare a meno? Chiunque abbia una certa familiarità con la materia concorda nel dire che un buon punto di partenza è stendere un piano di guerrilla marketing. È un’operazione che richiede tempo e in cui dovrebbero essere coinvolti anche i vertici, se possibile: in questa fase, infatti, ci si confronta continuamente con concetti come il posizionamento aziendale o l’identità del brand ed è importante per questo che ogni decisione sia condivisa su una più ampia scala aziendale. Si dovrebbe considerare comunque che, soprattutto se si è alle prime armi, potrebbe essere utile creare inizialmente un piano di guerrilla marketing solo su un determinato prodotto o servizio ed aspettare che siano i feedback a guidare in modo tattico per raggiungere risultati migliori. «Come dice Levinson, del resto, “il marketing è la verità resa affascinante”: dobbiamo prima di tutto assicurarci di avere – o di lavorare a – un prodotto o un servizio che ci distinguono in una determinata nicchia e con un posizionamento ben fatto e, poi, renderlo affascinante attraverso il Guerrilla Marketing», precisa a proposito l’esperto.

Esempi di guerrilla marketing

A rendere “d’appeal” i loro prodotti o servizi con una strategia di marketing di questo tipo, del resto, ci hanno provato nel tempo tantissimi brand diversi, di settori diversi e con mission e filosofie aziendali delle più variegate. Le migliori campagne di guerrilla marketing mostrano, insomma, come l’adattabilità e la flessibilità siano il vero valore aggiunto di questa forma di marketing non convenzionale. Si può fare guerrilla, infatti, per promuovere il primo found foutage horror della storia, com’è successo per l’ormai celebre “The Blair Witch Project” (spesso considerato il primo vero e proprio esempio di guerrilla marketing, ndr). O si può ricorrere a simili tecniche di “guerriglia” quando si ha bisogno di riparare a una crisi d’immagine, come ha fatto più volte McDonald’s (guerrilla marketing McDonald’s), anche quando ha offerto la colazione gratis a chi si presentasse in pigiama nei punti vendita per esempio. Soprattutto, però, proprio perché “a basso costo”, il guerrilla marketing è stato spesso sfruttato da associazioni, enti no profit, singoli volontari, in occasioni in cui l’obiettivo finale era fare una campagna di sensibilizzazione rispetto a un determinato tema o problema sociale, che fosse la disabilità, l’inquinamento, la parità di genere.

È proprio il risultato di campagne come queste che dimostra come, nonostante negli anni ci si sia abituati e si sia diventati “smaliziati” anche rispetto alla sua grammatica, è ancora tempo di guerrilla marketing.

Trend e prospettive future

Vale la pena, allora, provare a tracciare i principali trend in materia e farlo con l’aiuto di chi giorno dopo giorno aiuta aziende e professionisti del business a migliorare il proprio approccio al marketing in ogni sua forma. Secondo Andrea Frausin, per esempio, una delle tendenze più interessanti da tenere in considerazione è la richiesta in costante aumento di guerrilla digital marketing: nient’altro che la versione digitale del più tradizionale guerrilla marketing, quella che trova nei social per esempio gli alleati perfetti e “low cost” – ma non per questo da gestire in maniera amatoriale – per una strategia d’impatto. Il rischio maggiore da cui stare in guardia in questo senso è quello di pensare al marketing «soltanto come digital marketing, come per molte aziende sta avvenendo già oggi. Il marketing nella teoria del Guerrilla Marketing viene definito, infatti, come qualsiasi contatto che la tua azienda ha con qualsiasi persona del mondo esterno: chi risponde al telefono fa marketing, chi scrive una mail a una persona esterna all’azienda fa marketing, l’invio di una fattura è marketing, il modo in cui si comporta il commerciale è marketing, il sito web è marketing, la pagina Facebook è marketing, i locali dell’impresa sono marketing, e così via», chiarisce l’esperto. L’altra tendenza – e forse più che una tendenza, è bisogno fondamentale del mondo imprenditoriale – è cominciare a lavorare in sinergia, perché siano raggiunte una buona collaborazione e la sincronizzazione delle azioni tra direzione dell’impresa e dei diversi settori marketing, comunicazione e commerciale: «in alcune piccole aziende, talvolta, sono ancora compartimenti stagni, non comunicanti tra loro, e se è così è impossibile costruire un marketing efficace e low cost», conclude Frausin.

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