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Nudging

Significato di Nudging

nudging Nudging è l’espressione che, parlando di social media e ambienti digitali, si usa sempre più spesso per far riferimento a come le piattaforme provino, a volte con policy, linee guida o standard di comunità ad hoc e altre volte semplicemente “by design”, a incentivare determinati comportamenti tra gli iscritti.  

Nudging: teoria e principali applicazioni

Il termine “nudge” è tradotto, infatti, in italiano come “pungolo” o “lieve spinta” e la nudging theory (o teoria dei nudge) è una teoria ben nota nell’ambito della behavioural economy, di derivazione comportamentista appunto, secondo cui piccoli rinforzi positivi, aiuti indiretti o anche semplicemente la mancanza di rinforzi negativi possono incidere sui processi decisionali dell’individuo o del gruppo. La tesi di un testo diventato piuttosto famoso, “Nudge. La spinta gentile” di Thaler, Sustein e Oliveri, è proprio che si possa intervenire proattivamente sull’architettura della scelta in modo da spingere utenti, consumatori, cittadini a scegliere determinate opzioni e non altre e, soprattutto, senza che quest’ultimi sentano di essere costretti a farlo o percepiscano come imposte o non frutto della propria volontà le scelte effettuate. Tutte le operazioni di nudging del resto sfruttano euristiche e bias cognitivi come il framing , i bias confermativi, il negativity bias , ecc. che, è stato ormai abbondantemente confermato, semplificano i processi decisionali in molte occasioni.

Dall’esperienza in store e più in generale dalla shopping experience al social media marketing sono innumerevoli i campi in cui si può – e conviene – progettare strategicamente l’architettura decisionale e favorire alcuni percorsi emotivo-cognitivi rispetto ad altri, ossia fare nudging appunto, per assicurarsi che consumatori e utenti prendano determinate decisioni. Rientra nel nudging marketing, per esempio, sottolineare con un’apposita frase collocata vicino al bottone corrispondente che non richiedere la ricevuta cartacea del prelievo bancomat appena effettuato è la scelta più ecologica. Dal marketing nutrizionale provengono diversi esempi di come si sfruttino percentuali di zuccheri o di grassi minori rispetto alla media degli altri prodotti simili, collocate ben in vista sulle confezioni, per spingere gentilmente il consumatore ad acquistare la propria marca di frollini. E una buon call to action , è dimostrato, quando si investe in sponsorizzazioni e campagne di social adv basta a sfruttare al meglio quei micro-moment e moment of truth da cui sempre più spesso inizia il funnel d’acquisto.

La teoria dei nudge applicata a social e piattaforme digitali

Quando e in che modo, però, anche le piattaforme social fanno nudging? I tentativi da parte di big digitali come Facebook o Twitter di indirizzare le scelte dei propri utenti sono a volte così sottili, impercettibili o parte del design stesso dell’esperienza utente sulla piattaforma che non è sempre facile rispondere a questa domanda. Più semplice è capire qual è la finalità della maggior parte di essi: incentivare gli utenti a passare più tempo sulla piattaforma, meglio se attivamente e cioè condividendo contenuti, interagendo con altri utenti o con profili business, guardando video o Storie, dal momento che più tempo trascorso online significa più possibilità di monetizzazione.

Prima che le più recenti norme europee sul trattamento dei dati personali intervenissero (anche) sulla questione, uno dei più evidenti tentativi da parte delle piattaforme di indirizzare le decisioni degli utenti era rappresentato dalla spunta preimpostata sul tasto “Accetto termini e condizioni del servizio” all’atto dell’iscrizione su Facebook, su Twitter, ecc. Rendere necessario l’opt-out, ossia che l’utente deselezionasse manualmente e volontariamente l’apposita casella nel caso in cui non avesse voluto consentire alla piattaforma di condividere dati con soggetti terzi per esempio, era un modo semplice e veloce, complice distrazione e leggerezza con cui anche l’utente più consapevole ne accetta i termini prima e continua a utilizzare servizi simili poi, per assicurarsi più dati, legittimamente a disposizione e da sfruttare per i più vari scopi. Ancora a proposito di piattaforme social, privacy e nudging, se è vero che su Facebook diverse azioni permettono di controllare la privacy dei propri post o del proprio profilo, per esempio, è vero anche che sono azioni tutt’altro che immediate e che richiedono di spulciare tra le impostazioni o numerosi click prima di arrivare al risultato finale: a dimostrazione insomma che se l’utente è pigro, come si dice sia l’iscritto ai social, se ne possono provare a indirizzare le azioni anche semplicemente agendo sulla user experience e il suo design.

Il tanto discusso bottone mi piace” di Facebook è uno degli esempi forse più lampanti in questo senso. Prima dell’introduzione delle Facebook Reaction, che hanno reso appena più diversificata l’interazione con post e contenuti di altri utenti o di pagine e account ufficiali di aziende, personaggi famosi, ecc., l’unico modo per reagire all’aggiornamento di stato da parte di un politico per cui si era espressa la preferenza alle urne o all’ennesimo selfie estremo dell’amico in vacanza era il like: la scelta, in altre parole, era limitata di fatto tra il mostrare apprezzamento per ciò che l’altro aveva deciso di condividere su Facebook o non mostrare alcun tipo di reazione. Da qui una serie di teorie su una sorta di narcisismo da social network che renderebbe molti disposti a qualunque cosa pur di ottenere un like o su una certa omofilia degli ambienti digitali che darebbe vita a filter bubble ed echo chamber . Anche da quando c’è persino un’emoticon arrabbiata per esprimere disappunto verso l’ennesima fake news condivisa da un amico o parente “complottista”, algoritmo ed esperienza utente su Facebook – come sulla maggior parte delle piattaforme simili del resto – rimangono comunque confermativi by design: non è un caso, cioè, che si vedano riproposti nel proprio feed con una certa frequenza contenuti di pagine con cui si è già interagito in passato o post di amici con cui si chatta più spesso o con cui più spesso ci si scambiano commenti o like; è il tentativo di Facebook di ricondurre l’utente a fare azioni che devono averlo divertito, intrattenuto, reso soddisfatto. È nudging in atto, in altre parole, e l’obiettivo è quello di far aumentare il tempo trascorso dall’utente sulle piattaforme.

Dal semplice nuding al data nudge: l’importanza dei dati per le piattaforme

C’è almeno un altro modo, decisamente più sottile, con cui le piattaforme provano a indirizzare comportamenti e azioni dei propri iscritti ed è quello che è già conosciuto in letteratura come “data nudge“. I social network spingono i propri utenti verso alcuni comportamenti anche decidendo quali dati non mostrare. Non è casuale, insomma, che su Facebook non si veda né quanti, né chi tra gli amici abbiano effettivamente visualizzato i propri post o che le visualizzazioni delle Storie su Instagram vengano mostrate all’utente in maniera del tutto casuale e non in ordine cronologico o, ancora, che una notifica su LinkedIn avvisi che enne persone hanno visitato il proprio profilo nell’ultima settimana ma non ne riveli nome e cognome o ruolo aziendale. Si tratta di spingere gli utenti a fare azioni correlate come controllare spasmodicamente le notifiche Facebook per sapere chi ha messo like, e quindi ha visualizzato, il proprio aggiornamento di stato o mandare una risposta, meglio se utilizzando le reazioni preimpostate, alla Storia dell’amico perché questo sappia che la si è vista solo in quel momento e, ancora, passare alla versione premium di LinkedIn per sapere chi e quando ha visitato il proprio profilo. Nell’ultimo caso l’intento commerciale è più evidente, ma tutte quelle elencate sono azioni che generano dati e non è più un mistero che per le piattaforme non c’è miglior valuta di scambio che i dati dei propri utenti.

Gli esempi di nudging visti fin qua bastano a capire perché se è vero che «le persone fanno cose agli algoritmi» (è questo uno dei principali insight delle fishbowl conversation “La giusta distanza. La sociologia e il mondo che (forse) verrà” del 26 giugno 2020 organizzate dalla SISCC) e cioè che logiche e grammatiche valide all’interno di ogni singolo social network si sono sedimentate nel tempo e come reazione alle abitudini degli utenti, è vero anche e soprattutto il contrario, che impostazioni di default e com’è stata progettata a monte l’esperienza utente, cioè, determinano cosa avviene e in che modo nei diversi ambienti digitali. L’ipotesi teorica più accreditata, insomma, sembra essere quella di un «mutual shaping» tra utenti e piattaforme.

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Nudging, piattaforme e responsabilità: QUALI prospettive?

Un’analisi di come la pandemia di coronavirus del 2020 ha cambiato i social media per quanto accurata rischia così di non riuscire a dare risposta a domande del tipo: “sono stati gli utenti a chiedere alle piattaforme più accountability o sono state invece le piattaforme a sentire più responsabilità per quanto pubblicato al loro interno durante l’emergenza sanitaria?”

Quando il tema in gioco è quello, complesso, della responsabilità delle piattaforme, categorie e strumenti interpretativi si confondono ed è difficile, per esempio, separare il ruolo pubblico che queste si trovano a ricoprire dagli interessi privati e inevitabilmente di parte che le muovono. Le settimane di lockdown hanno visto effettivamente proliferare sui social media etichette che segnalavano fake news e contenuti controversi o inappropriati, gli algoritmi penalizzare contenuti complottisti e negazionisti, operazioni come quella con cui Twitter ha bloccato account fake russi, cinesi e turchi facenti parte di un network di disinformazione. Piuttosto significativi, per gli effetti nel medio-lungo periodo e perché capaci di stimolare discorsi pubblici e ipotesi normative in materia, sono stati in particolare la decisione di Twitter di segnalare per la prima volta come “infondato” un tweet di Trump sulle proteste a Minneapolis del movimento Black Lives Matter e lo sciopero dei dipendenti di Facebook quando Zuckerberg ha rifiutato di fare altrettanto, a cui è seguito il boicottaggio della pubblicità su Facebook di aziende, brand e numerosi altri soggetti business che hanno partecipato alla campagna “Stop hate for profits”.

Nel caso di Twitter sembra essere stata la piattaforma stessa a farsi interprete di un bisogno avvertito da molti suoi utenti, quello di un ambiente inclusivo, sicuro per tutti e capace di rendere davvero di qualità il tempo trascorso online, tanto che, proprio a proposito di nudging e tentativi di incentivare buone pratiche all’interno degli ambienti digitali, ora Twitter manda una notifica per ricordare di aprire i link prima di retwittarli.

Nonostante faccia qualcosa di simile con una notifica che avvisa se si sta condividendo su Facebook una notizia vecchia, nonostante la creazione del Facebook Voting Information Center che dovrà servire agli utenti per orientarsi nel mare magnum di informazioni non sempre accurate che potrebbero essere condivise sui social durante la campagna elettorale per le presidenziali 2020 o, ancora, nonostante la scelta di bloccare delle sponsorizzate di Trump su Facebook contenti simboli nazisti, l’approccio di casa Zuckerberg è stato considerato più tiepido, se non addirittura accusato di un certo lassismo: più che volersi impegnare in prima persona per rendere migliore, più inclusivo, meno discriminante il proprio servizio, incentivando i propri utenti a mantenere comportamenti corretti e, appunto, facendo nudging, è questa l’accusa, in tutte queste occasioni Facebook sembra aver semplicemente risposto a pressioni e richieste di maggior impegno da parte degli utenti.

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