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Sharenting

Significato di Sharenting

sharenting definizione L’espressione "Sharenting" fa riferimento alla pubblicazione in Rete, su social network e altri ambienti digitali, di foto, video, contenuti multimediali e informazioni di varia natura riguardanti bambini e minori da parte dei genitori (ma, allargando la prospettiva, anche di tutori o altri parenti stretti).  

Sharenting: significato e origini del termine

Come molti neologismi coniati per fenomeni digitali emergenti si tratta di un composto, formato dal verbo inglese “to share”, “condividere”, e il gerundio “parenting” che fa riferimento appunto alla condizione dell’essere genitori. Il Collins Dictionary fu tra i primi a inserirla in una lista di parole dell’anno nel 2016: in quell’occasione diede di sharenting definizione di «uso abituale dei social media per condividere notizie, foto e simili dei propri figli».

Sharenting o oversharenting?

Considerata la sempre maggiore quantità di tempo trascorso online e che di fatto in molti vivono la propria esistenza “ onlife ”, senza soluzione di continuità cioè tra quello che avviene in Rete e quello che avviene fuori dalla Rete, parlare (anche) dei propri figli nei post su Facebook o condividere Storie di una domenica al luna park con i piccoli di casa è del tutto naturale agli occhi di molti genitori.

Il tutto senza considerare che una distanza forzata – perché si vive in paesi diversi, per misure di contenimento del contagio come quelle adottate dai vari governi durante la pandemia da coronavirus, ecc. – può far sì che postare il video dei primi passi o foto e per esempio attestati dell’esame di judo appena superato sia l’unico modo per condividere i traguardi dei piccoli di casa anche con nonni sempre più digital e altri familiari e amici lontani.

Più di recente, così, è stato The Wall Street Journal a suggerire che più che di sharenting sarebbe opportuno parlare di “oversharenting”: la tesi è condivisa da numerosi addetti ai lavori, anche nel saggio “Sharenting” di Gianluigi Bonanomi se ne fa accenno per esempio, e parte dall’idea che non è tanto postare ogni tanto una foto dei propri bambini o condividere un video della propria famiglia in vacanza a rappresentare un potenziale rischio, quanto la sovraesposizione dei bambini in Rete.

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Esempi di sharenting: quando il genitore vip parla dei figli in Rete

Si potrebbe pensare che la condivisione spasmodica di foto, video e ogni altro tipo di contenuto che abbia per protagonisti i propri figli e la loro quotidianità sia una questione di digital literacy dei genitori, ossia di familiarità con dinamiche tipiche degli ambienti digitali e potenziali rischi a cui le stesse espongono chi li frequenta. E, in effetti, ancora oggi «tanti genitori non sanno a cosa vanno incontro, cosa rischiano, cosa voglia dire davvero condividere così tanto materiale, di ogni genere, riguardante i figli», ha sottolineato Federica Boniolo, psicologa e presidente dell’associazione #UnitiinRete, durante una puntata di Inside Talk dedicata a bambini e insidie del Web.

Casi ed esempi di sharenting sono numerosi, però, e tutti molto diversi tra loro sia per chi sono e cosa fanno i genitori e sia per gli esiti che hanno avuto.

Vip, personaggi famosi e volti noti dello spettacolo e della politica spesso sono i primi a sovraesporre i propri bambini in Rete in virtù della tanto famigerata disintermediazione del rapporto con le community. Di molti calciatori, così, i fan hanno conosciuto i figli già alla prima ecografia. Prima Leone e poi la secondogenita Vittoria sono parte costante – e cospicua – del live streaming della quotidianità di coppia in cui i Ferragnez si prodigano ogni giorno.

E a proposito di sharenting Gwyneth Paltrow si è vista duramente rimbrottata dalla figlia Apple quando ha postato una foto di entrambe sulla neve, dopo che avevano stabilito insieme che non avrebbe più fatto qualcosa di simile.

gwyneth paltrow sharenting

“Mamma ne abbiamo già parlato. Non dovresti postare niente senza il mio consenso”: così la figlia Apple ha commentato una foto della vacanza sulla neve postata da Gwyneth Paltrow su Instagram. Fonte: Instagram/@gwynethpaltrow

Che a sovraesporre i figli in Rete siano «personaggi che hanno questa visibilità e rilevanza – continua l’esperta – può spinge anche la persona comune a chiedersi “perché non farlo anch’io?”», come per una sorta di desiderio di emulazione.

È The Guardian a raccontare, invece, episodi curiosi che hanno per protagonisti blogger e content creator professionisti e i loro figli: c’è chi non ha avuto remore a definire uno di loro come il figlio prediletto, con buona pace dei fratelli e mostrandosi decisamente poco preoccupato di come ciò li avrebbe fatti sentire. Ciò a dimostrazione che la condivisione spasmodica di foto, video, informazioni, aneddoti riguardanti i propri figli ha a volte davvero poco a che vedere con conoscenza e padronanza delle dinamiche degli ambienti digitali e più col modo, personalissimo, di vivere il proprio ruolo di genitori in Rete.

Condividere in Rete foto e informazioni dei figli: perché i genitori non possono farne a meno

Le motivazioni dello sharenting – o meglio le motivazioni che portano padri e madri a condividere online spasmodicamente ogni progresso nella crescita dei figli od ogni nuova avventura genitoriale – sono state molto studiate in letteratura.

L’associazione forse più facile è quella con un certo narcisismo e non è un’associazione del tutto nuova: chi ha studiato dinamiche e “fenomenologia” dei social network ha fatto spesso notare che le persone sui social sono disposte a tutto per una manciata di like in più e questo le porta soprattutto a voler condividere con gli altri gli aspetti più brillanti, più perfetti, più patinati della propria esistenza, quasi anche a voler generare invidia negli altri.

Ciò sembrerebbe particolarmente vero per i genitori: fare una Storia con le prime parole del proprio bambino, postare il video del primo motivetto suonato al pianoforte o condividere interi album fotografici di laurea – se è vero che sono soprattutto i genitori di bambini piccoli a fare sharenting, è vero anche che è un fenomeno che non conosce limiti di età – non serve solo a condividere la propria felicità con familiari, amici e persone care, ma è anche una (evidente) dimostrazione d’orgoglio.

Se lo sono sempre e nelle più svariate occasioni, i like e i commenti positivi ai contenuti che riguardano i figli hanno così per i genitori anche un valore autoconfermativo: ricevere l’apprezzamento degli altri per i buoni risultati raggiunti anche grazie al proprio impegno da genitori può valere per molti come una sorta di conferma che si sta facendo bene e come incoraggiamento a fare meglio.

Non a caso, la condivisione di foto, video e ogni altro tipo di contenuto che abbia a protagonisti i propri bambini avviene certamente sui propri profili e a uso e consumo di amici e follower , ma non di rado anche all’interno di gruppi e forum dedicati ai genitori per esempio: in questo caso, quelli degli altri genitori appaiono pareri “qualificati”, come se ricevere l’apprezzamento per la buona “performance” da genitore da parte di chi ci è già passato o ci stia passando proprio nello stesso momento valga di più che riceverla da chiunque altro. Nei gruppi Facebook, sui forum per genitori, sotto a un post con la foto della prima vacanza al mare con un bambino di pochi mesi può succedere comunque che mamme e papà si scambino informazioni, consigli utili, tips pratici: lo sharenting da comportamento potenzialmente a rischio e per questo da evitare può trasformarsi, cioè, in un scambio di valore.

Quando si parla di pro e contro dello sharenting non si può non tenere conto, del resto, che se molti genitori non badano ai potenziali rischi per i propri figli derivanti da questa sovraesposizione in Rete è perché, bilanciandoli, appaiono maggiori i benefici che ne derivano. In parte smentendo l’associazione con un certo narcisismo di cui si è detto, tra i contenuti più spesso condivisi dai genitori ci sarebbero per esempio foto di bambini alle prese con le prime pappe, video delle prime cadute quando gli stessi tentano di muovere i primi passi o prove che li inchiodano alle più impensabili marachelle: ancora a The Guardian i genitori a cui è capitato di condividere questo tipo di contenuti hanno confessato di averlo fatto perché semplicemente li trovavano divertenti e credevano potessero esserlo anche per i proprio amici, le proprie community o semplicemente erano convinti che ritrovarsi in futuro quelle stesse immagini o quegli stessi video tra i ricordi di Facebook o nell’archivio di Instagram potesse essere qualcosa di piacevole.

In effetti, sottolinea Gianluigi Bonanomi nel già citato “Sharenting”, tutto ciò che riguarda i bambini diventa presto virale in Rete perché questi, come cani, gattini sul web e altri cuccioli sono capaci di solleticare quella atavica emozione della cura.

Quando lo sharenting ha intenti commerciali

Considerazioni in parte diverse meritano tutte quelle situazioni in cui la sovraesposizione dei più piccoli in Rete avviene “a scopo di lucro”. Va da sé che per molti papà blogger e mamme blogger, per esempio, quella di mostrare e mostrarsi in Rete con i propri bambini è una sorta di necessità legata al ruolo e al bisogno di rafforzare il proprio brand personale o il modo stesso in cui ci si «auto-presenta» alle proprie platee digitali, così sostengono studiose come Blum-Ross e Livingstone.

Anche molti influencer – e il già citato caso dei Ferragnez è solo il più eclatante – non disdegnano di mostrarsi in Rete con i propri bambini e nel proprio ruolo di genitori. Alcuni addirittura, convinti dal proprio personale successo, provano ad avviare i propri figli alla stessa carriera, aprendo loro account Instagram, profili TikTok e trasformandoli in veri e propri kid influencer. Includere i propri figli (la loro immagine, la gestione del loro tempo quotidiano, ecc.) nei propri accordi commerciali con le aziende partner richiede, però, particolari accortezze? Ci sono paesi che si stanno muovendo in questo senso soprattutto per tutelare i minori dal punto di vista economico-finanziario.

Le conseguenze dello sharenting per i bambini (e i genitori)

I rischi e le conseguenze dello sharenting sono, del resto, di natura diversa e molto più complessi nell’interpretazione di quanto si immagini. Volendo semplificare, hanno a che vedere con la tutela dell’immagine del bambino, quella della riservatezza dei suoi dati personali e, non meno, con questioni di sicurezza digitale.

Molti bambini provano disagio per quello che i loro genitori pubblicano in Rete

Occorre porre attenzione anche all’impatto psicologico che essere continuamente esposti in Rete alla curiosità e al giudizio degli altri, anche quando questi “altri” sono perlopiù le cerchie amicali dei propri genitori, può provocare nel bambino. Con lo spot “Stop Sharenting” UNICEF Norvegia ha provato a dare a questo disagio una rappresentazione tangibile. Quando sarà cresciuto e in grado di capire meglio, scrollando i profili dei genitori, il bambino potrebbe avere l’impressione di visitare una vera e propria esibizione con protagonisti i propri scatti, anche quelli più intimi del momento della nascita, e ciò non può che risultare in qualche misura straniante.

UNICEF Norway – Stop Sharenting (2021)
UNICEF Norway - Stop Sharenting (2021)

È la stessa no profit a fornire, tra l’altro, alcuni numeri sullo sharenting: in media un bambino di dodici anni ha almeno 1300 foto condivise in Rete dai genitori.

Per tornare al possibile impatto psicologico sul bambino, altre statistiche sullo sharenting interessanti vengono da uno studio inglese secondo cui quasi il 40% degli intervistati, tra adolescenti dai 12 ai 17 anni, aveva provato imbarazzo per quanto condiviso dai propri genitori in Rete e oltre il 71% credeva che gli stessi non avessero avuto abbastanza rispetto per la propria identità. Del resto «tutti, almeno una volta, ci siamo sentiti imbarazzati quando i nostri genitori hanno mostrato delle nostre foto ai parenti senza che noi volessimo – situazione che potrebbe essere considerata, secondo la psicologa Federica Boniolo, una sorta di antenato ante litteram di sharenting – e immaginiamoci come debbano sentirsi i ragazzi che si ritrovano ad avere un gran numero foto online, il più delle volte senza saperlo, e un vero e proprio curriculumdigitale prima ancora di scegliere se e come stare sui social».

C’è un problema di identità digitale connesso allo sharenting?

Continuare a condividere immagini, video e ogni tipo di contenuto che abbia per protagonisti i propri bambini vuol dire, infatti, come sottolinea un articolo di The New Yorker, costruire una sorta di «dossier digitale» del proprio bambino, senza che lo stesso ne sia cosciente e senza soprattutto averlo interpellato prima.

In un futuro prossimo la maggior parte dei figli di genitori millennials ed entusiasti digitali potrebbe trovarsi, cioè, con un’identità digitale già precostruita, in cui potrebbe non riflettersi completamente o affatto e su cui avrebbe comunque un controllo solo parziale. È vero infatti che, anche senza intentare cause per sharenting contro i propri genitori che pure i tribunali potrebbero trovarsi a gestire in numero massivo prima di quanto ci si aspetti, si può sempre chiedere a loro o ai gestori della piattaforma la rimozione dei contenuti indesiderato, ma è vero anche che una volta che gli stessi sono stati disseminati in Rete diventano alquanto difficili da controllare in toto.

Che succede, per esempio, se il responsabile delle risorse umane dell’azienda presso cui ci si è candidati – e sono sempre più i reparti HR che fanno social recruiting – si imbatte in una vecchia foto postata dai genitori in fase di spannolinamento? Che impatto ciò può avere sul modo in cui si sta provando a fare personal branding per muovere i primi passi nel mondo del lavoro?

L’ultimo esempio, quello di bimbi immortalati da mamme e papà nelle pose e nelle situazioni più buffe e improbabili e così consegnati alla memoria elefantiaca della Rete, si presta bene tra l’altro a indagare uno dei pericoli dello sharenting ben più imminenti.

Cosa succede se sono gli stessi compagni e coetanei del bambino a imbattersi casualmente in quella stessa vecchia fotografia? Potrebbero appropriarsene e cominciare a condividerla e ricondividerla fino a farla diventare virale. Anche indipendentemente dal contenuto in sé, a quel punto, il bambino potrebbe essere – o sentirsi – preso di mira: pur senza volerlo e pur senza soprattutto esserne coscienti, i genitori potrebbero aver esposto i propri figli al rischio cyberbullismo .

È per questo che, come ha sottolineato The Guardian, fortunatamente sempre più genitori stanno cominciando ad assumere un atteggiamento più cauto quando si tratta di condividere dettagli della vita dei figli in Rete e, se l’età di questi ultimi lo permette, a trovare soluzioni di comune accordo che non impediscano agli uni di vivere serenamente e con entusiasmo la propria condizione di proprio genitori digitali e agli altri di sentirsi tutelati sotto un profilo di identità digitale.


Non esistono rimedi e strumenti scientifici contro lo sharenting, come non esistono rimedi contro la dipendenza dalle tecnologie o la tanto famigerata FOMO. Restano la necessità di avere piena consapevolezza di quello che si fa in Rete e il bisogno di una solida educazione civica digitale. Più pragmaticamente, una strada da percorrere potrebbe essere quella del consenso da chiedere ai propri figli prima di pubblicare e condividere con terzi contenuti che li riguardino e quella di chiedersi sempre prima di cliccare sul bottone share, come sottolinea ancora Gianluigi Bonanomi, se si tratta del tipo di foto, di contenuto che da genitori si sarebbe tranquilli ad avere ogni giorno sulla scrivania a lavoro.

Sharenting e sicurezza dei minori online

Per restare in tema di sicurezza digitale, comunque, il cyberbullismo non è il solo rischio legato alla sovraesposizione dei figli in Rete.

Sostiene il già citato approfondimento di The New Yorker su pro e contro dello sharenting che entro il 2030 circa due terzi delle frodi – anche informatiche – basate sul furto d’identità potrebbero dipendere proprio da ciò che i genitori hanno condiviso online sui propri figli. Entusiasti di mostrarsi bravi papà e mamme o di mostrare al mondo i progressi dei propri bambini, essi potrebbero non fare caso infatti alla quantità di dati personali e a volte sensibili che rivelano con le proprie condivisioni.

Si potrebbe venire a configurare, insomma, la paradossale situazione in cui le figure che sono poste a tutori della riservatezza dei dati dei più piccoli dalle più moderne normative in materia (il GDPR europeo all’articolo 8 prevede per esempio che, in caso di minori di 16 anni, il consenso all’utilizzo dei servizi della società dell’informazione sia prestato o autorizzato da chi esercita la responsabilità genitoriale) di fatto siano le prime a esporre quegli stessi dati. Nella migliore delle ipotesi sono dati che vengono usati dalle piattaforme e dai loro partner per le consuete attività di profilazione e targeting.

Se finiscono nelle mani sbagliate, però, sono dati che potrebbero essere utilizzati dai malintenzionati anche ad altri, ben più pericolosi, scopi. Basti pensare che, se è vero che piattaforme come Instagram rendono assolutamente facile l’adescamento dei minori online – tanto che più volte il team di Instagram è intervenuto a rilasciare nuove impostazioni che rendano più difficile per i malintenzionati contattare tramite messaggi privati gli utenti, specie se minorenni, o cominciare a seguirli – è vero anche che dal grooming agli atti persecutori e al tentativo di adescamento “dal vivo” il passo può essere decisamente breve. Soprattutto se sono gli stessi genitori a indugiare in Rete e sui social network in dettagli come che scuole frequentano i propri figli, dove seguono lezioni di musica e via di questo passo: tutte informazioni utili al pedofilo non solo per ricostruire le abitudini della vittima ma, anche, per riuscire ad approcciarla nel modo più naturale possibile.

Senza contare che con semplici programmi di photo editing e più complessi software con cui è possibile creare dei deepfake chiunque può trasformare anche le più ingenue foto di bambini al mare in materiale pedopornografico da condividere nei tanti forum e gruppi privati, come alcune indagini giornalistiche hanno mostrato esisterne numerosi sulle varie app di messaggistica istantanea, di pornografia non consensuale.

Come evitare di cadere nella trappola dello sharenting

Alla luce di tutto questo è più facile capire perché il principale consiglio per i genitori che non vogliono rinunciare a condividere in Rete foto, video e ogni altra tipologia di contenuti riguardanti i propri figli è di farlo con cura (in uno slogan : “share with care“).

Come ha sottolineato durante la puntata di Inside Talk del 13 maggio 2021 la psicologa Federica Boniolo, per esempio ci si potrebbe chiedere «prima di postare se vale davvero la pena condividere quella foto con un numero potenzialmente infinito di persone o, se l’intento è farla vedere a parenti e amici lontani, non sia meglio scegliere piuttosto una modalità privata di condivisione. Anche chiedere ai figli “ti fa piacere che questa foto sia messa online?” potrebbe essere un buon punto di partenza, anche se fino a una certa età questi potrebbero non rendersi conto di cosa voglia dire e considerarlo un gioco».

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Più in generale vale la regola per i genitori di «fare un passo indietro», continua l’esperta e, come si accennava all’inizio, il discorso certamente andrebbe allargato anche a nonni, zii, parenti stretti, tutori e, perché no, anche maestri e insegnati, dal momento che non di rado sono i primi a condividere in Rete ogni tipo di contenuto sui propri allievi. Più pragmaticamente ciò significa per esempio controllare scrupolosamente le impostazioni della privacy generali del proprio profilo e quelle del singolo post ogni volta che si sta per condividere un contenuto che riguardi i propri figli o altri minori di cui si è responsabili; impostare un alert sui motori di ricerca in modo da ricevere una notifica ogni volta che i nomi degli stessi vengono citati in Rete e poter controllare di che tipo di contenuto si tratta, chi lo ha pubblicato, eventualmente segnalandolo a gestori e fornitori del servizio se qualcosa non va, e ancora rendere irriconoscibili i propri bambini, pixellando o coprendo con una emoticon o un’altra immagine volti o eventuali parti intime quando si decida di pubblicare foto o video

 

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