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Slow journalism

Significato di Slow journalism

slow journalism Quello dello Slow journalism è un modello di giornalismo ispirato alla verifica delle fonti, all’accuratezza e alla qualità dei prodotti e, soprattutto, a una missione di servizio per il pubblico. Legato a un omonimo movimento, nasce infatti come risposta alla presunta crisi del giornalismo tradizionale e alle distorsioni di quello digitale.

Slow journalism: verso una definizione

La tentazione, così, è di dare una definizione in negativo di slow journalism. Non è un fast journalism e, cioè, un giornalismo malato di istantismo e che si sente in dovere di raccontare in diretta qualsiasi cosa stia avvenendo, senza che intercorra praticamente alcun lasso di tempo tra il fatto e il suo racconto. Non è un giornalismo fatto di pr -driven news e, cioè, di notizie frutto di attività di PR che aumentano la foliazione e, non di rado, rappresentano una fonte di introiti per il giornale, ma che non sono certo contenuti di valore per il lettore. E, ancora, non è quel churnalism (dall’unione dell’espressione inglese «churn out», che significa letteralmente «produrre in grandi quantità, senza badare alla qualità», con il termine «journalism») che vive di pacchetti di notizie tutte uguali, quasi sempre derivate dai comunicati stampa e ripetute all’infinito, senza neanche le minime variazioni, da tutte le testate.

Una metafora alimentare: lo slow journalism come lo slow food

Peter Laufer, autore di “Slow News. A Manifesto for the critical news consumer” e punto di riferimento del movimento per lo slow journalism, ha spesso spiegato l’analogia tra questo giornalismo lento e un altro movimento, quello dello slow food, che ha come obiettivo la riscoperta del mangiar bene, secondo la stagionalità dei prodotti e in maniera armoniosa per il corpo, prima ancora che sana. Quando consiglia, infatti, di evitare cibi che pretendono, nell’aspetto, di presentarsi per quello che non sono o di non mangiare alimenti che i propri nonni non avrebbero mai sognato di mangiare, forse non sta parlando solo di cibo ma anche di notizie. Buono, pulito, giusto è insomma la formula per lo slow food come quella per le slow news.

In altre parole? Per usare una definizione sui cui sembrano concordare Laufer e gli altri esperti del settore, lo slow journalism non è che un giornalismo «di sostanza, che punta a correttezza, accuratezza, chiarezza».

Più nel concreto, si tratta di un modello culturale e filosofico e, allo stesso tempo, di un metodo di lavoro che le redazioni sono chiamate ad adottare e, come tale, ha delle caratteristiche proprie che lo distinguono da altre forme di giornalismo.

  • La verifica delle fonti, innanzitutto.
  • Una selezione accurata e ragionata degli argomenti da trattare.
  • L’indipendenza dal timing delle breaking news e dall’agenda di giornata che, spesso, vuol dire anche indipendenza da forme di newsjacking da parte di soggetti terzi.
  • Un approccio analitico e di approfondimento ai fatti.
  • L’attenzione per il pubblico
  •  e, non meno importante, per la sostenibilità del progetto.

Per un manifesto dello slow journalism

Più di recente, i due autori di “Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo”, Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, che da anni collaborano con Slow News., l’esperimento italiano di slow journalism, hanno codificato i dieci punti di un manifesto per lo slow journalism. Sono punti che vanno dal valore del tempo – tanto per chi le notizie le scrive, quanto per chi le legge – alla responsabilità di chi scrive, passando per la necessità di non esprimere un giudizio e quella di stimolare la fiducia dei lettori e che esemplificano, appunto, cosa significhi oggi fare slow news.

manifesto di slow news per lo slow journalism

Da cosa nasce il bisogno di slow journalism: una visione di contesto

Se guardato da vicino, soprattutto, ogni punto di questo manifesto rende evidenti le distorsioni di cui è vittima oggi l’infosfera, digitale e non. Quella che avviene ogni giorno in una newsroom, di qualsiasi dimensione essa sia, è infatti una vera lotta contro il tempo, con giornalisti che mentre provano a costruire l’agenda informativa del giorno sono impegnati in moltissime altre attività, dalla gestione dei canali social alle PR, fino alla cura di contenuti e contributi multimediali. La colpa? Senza dubbio della crisi lavorativa del settore: i tagli costringono le redazioni a fare affidamento a professionisti tutto-fare, ma è «la vera identità del giornalismo a rischiare di andare perduta in questa mischia», per citare ancora Peter Laufer.

A ciò si aggiunge il mito della velocità e dell’aggiornamento continuo, ingigantito dalle dinamiche di social network e ambienti digitali: se commentare all’istante quello che sta avvenendo è un comportamento fisiologico per l’utente medio di queste piattaforme, che proverebbe tra l’altro una sorta di piacere fisico da rilascio di dopamina nel partecipare alla discussione sull’hot topic del momento, non può andar bene però per chi fa informazione per professione.

Come un cane che si morde la coda, poi, sono stati gli stessi giornalisti – in Italia soprattutto – ad alimentare una sorta di anacronistico primato culturale della carta stampata sull’online e su tutte le altre forme di giornalismo. La separazione, anche fisica, in sede, delle due redazioni si è tradotta così, spesso, in linee e piani editoriali differenziati e che relegano all’online il ruolo di piazza dove raccogliere like. Non sorprende in questa prospettiva che la colonna destra con pezzi di alleggerimento e il ricorso costante al clickbait siano ormai ordinaria amministrazione anche per gli attori più tradizionali del giornalismo.

Condannare le cattive pratiche del giornalismo online ha comunque poco senso senza guardare a quello che è il modello di business della maggior parte delle imprese giornalistiche italiane: la raccolta pubblicitaria. Semplificando all’osso, più click vogliono dire più visualizzazioni e ciò fa crescere il potere contrattuale degli editori nei confronti dell’inserzionista. Lo stesso succede con una foliazione maggiore ed è presto spiegato, così, perché il giornalista di oggi è letteralmente trasformato in una content factory, pagato (male) per scrivere quanti più pezzi possibile, da pubblicare non quando realmente sono pronti ma quando servono. Eppure un modello di questo tipo non tiene conto di un fattore fondamentale: gli inserzionisti spendono oggi laddove è più probabile trovare potenziali clienti in target ed è poco probabile che un giornale mainstream possa essere un luogo di questo tipo.

Sommando tutti questi fattori  non è difficile spiegare la crisi di credibilità, oltre che di identità, del giornalismo come lo si è inteso fin qui.

Tre elementi fondamentali delle slow news: il tempo, la profittabilità, i lettori

I principali antidoti proposti dallo slow journalism a questa stessa crisi hanno a che vedere con il tempo, la sostenibilità economica dell’impresa giornalistica e il ruolo dei lettori.

Il fattore tempo alla prova dello slow journalism

L’idea di fondo del giornalismo lento è del resto, come si è già detto, che ogni contenuto consuma tempo sia per chi lo produce, sia per chi ne usufruisce. Per questo il modello delle breaking news non fa che creare un surplus di notizie che, di fatto, non servono a nessuno. L’esempio utilizzato dallo stesso Laufer in questo senso è molto significativo: il lettore ha bisogno di essere aggiornato minuto per minuto solo se la casa che si sta distruggendo in un incendio è la sua; in qualsiasi altra occasione il continuo bombardamento di informazioni non fa che «creare uno spreco di emozioni e un costante senso di ansia». Senza contare, tra l’altro, che le breaking news rischiano di apparire notizie esca – o, per usare l’espressione originale, «eye-candy stories» – che hanno il solo scopo di attirare l’attenzione dell’utente e tenerla fissa sulla pagina o sullo schermo, per di più impedendo al giornalista di svolgere il suo vero lavoro che è quello di scoprire e raccontare storie che possano essere un valore aggiunto per il lettore. Non si può chiedere al giornalista creatività «se questo deve correre ad ogni sirena che suona», chiosa infatti l’esperto. Il corollario è che la velocità è la peggior nemica della verifica delle fonti: cancella la cultura del dubbio, espone anche i brand giornalistici più noti e i professionisti dell’informazioni più esperti al rischio fake news e non lascia spazio alle notizie autentiche (authentic news) rendicontabili in ogni fase della loro esistenza, dalla raccolta e la verifica alla produzione, passando per lo scopo della loro esistenza. Negli ultimi anni, qualche giornalista ha creduto che l’antidoto a tutto questo fosse dedicarsi con devozione al debunking delle notizie imprecise, false, manipolate ad hoc: è così che il fact-checking è diventato un vero e proprio genere giornalistico, amplificando all’ennesima potenza l’idea del giornalismo come cane da guardia della società. È lecito chiedersi però, come fanno ancora Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, perché – e se è giusto che – il giornalismo di qualità debba identificarsi di fatto ed esclusivamente con quello di chi smaschera le magagne del sistema. La risposta più onesta è che no, un giornalismo veramente di qualità non dovrebbe tanto fare questo, quanto preoccuparsi di creare «contenuti anticorpo», scrivono ancora gli autori di “Slow Journalism”, e cioè contenuti che abbiano un certo impatto sociale, che siano in grado di raccontare storie per farle andare da un’altra parte (non a caso c’è chi parla, proprio in questo senso, di giornalismo costruttivo) o che, al minimo, rappresentino un valore aggiunto per chi li legge. Va da sé che contenuti come questi sono contenuti che non scadono e che possono durare nel tempo.

Perché lo slow journalism non può fare a meno di una community di lettori

Soprattutto, però, sono contenuti aggreganti. Lo slow journalism, come si è detto, vive infatti di community e della capacità di creare membership, ossia di far sentire i lettori parte veramente attiva della nascita, della costruzione o della diffusione del pezzo. In qualche caso più estremo, ciò vuol dire addirittura far entrare i lettori in redazione e farli partecipare direttamente al lavoro di desk, con contribuiti che possono andare dalla scelta condivisa della storia da raccontare alla produzione di UGC da inserire nell’articolo. La diretta conseguenza di un modello di questo tipo è che, in una perfetta operazione di brand advocacy, i lettori diventano i primi sostenitori del giornale, anche economici. È più facile far riuscire campagne di crowdfunding a sostegno della propria impresa giornalistica, infatti, se si può contare di una community affezionata e preoccupata delle sorti della propria fonte d’informazione di fiducia. Come sottolinea Laufer, il contesto ideale dello slow journalism è quello in cui «ogni lettore vuole partecipare, essere educato, pretende un giornalismo di qualità ed è disposto a pagare per questo».

La sostenibilità economica delle slow news: modelli e prospettive

Trovare un modello di business sostenibile è, del resto, la vera grande sfida del giornalismo odierno: per troppo tempo, anche nel passaggio dal fisico al digitale, si è pensato infatti – e a torto – che modelli come quelli basati sulla raccolta pubblicitaria tradizionale, o su sue versioni 2.0 poco diverse nella sostanza, potessero continuare a funzionare bene. La proposta di Laufer e degli altri è, invece, quella di un modello you-get-what-you-pay-for, in cui la qualità del prodotto è direttamente proporzionale a quello che si è pagato per averlo. La metafora alimentare cade ancora a pennello: «il cibo migliore costa di più perché le materie prime sono state coltivate in coltivazioni non intensive, con maggiore cura – scrive Laufer – e lo stesso dovrebbe avvenire con le news, finché pretendere di non pagare per una notizia di qualità dovrebbe essere come alzarsi da un ristorante e andare via senza chiedere il conto». Chi vuole fare slow journalism, insomma, non può trattare l’informazione come una qualsiasi altra commodity , fornita gratuitamente o a un prezzo irrisorio, cosa che, tra l’altro, ha come risultato a valle le condizioni contrattuali precarie di giornalisti e collaboratori. Il valore percepito dall’utente di fronte a un contenuto esclusivo, di approfondimento o qualitativamente migliore deve potersi trasformare, insomma, in disponibilità a pagare. Operativamente, questo significa pensare a un’iniziativa di slow journalism prima di tutto come a un’attività imprenditoriale, che come tale ha bisogno di un canvas e di un business plan chiaro e organizzato.

Slow journalism: le best practice

È spontaneo chiedersi, allora, chi è riuscito davvero nell’impresa di fare slow journalism. Gli esempi in positivo, per fortuna, non mancano e oltre a realtà nate con questo spirito non si può non notare che anche big del giornalismo, soprattutto d’oltreoceano come il New York Times o il Washington Post,  hanno rivisto in questi anni il loro modo di fare giornalismo per offrire ai propri lettori un valore aggiunto e della qualità.

L’avventura di The Correspondent, iniziata in Olanda e poi diventata internazionale, racconta invece di un giornalismo completamente nuovo, finanziato da una campagna di crowdfunding ben riuscita e da zero pubblicità, interessato non tanto alle news dell’ultima ora («Unbreaking news» è infatti il suo payoff ) quanto a spiegare i fatti di tutti i giorni e che incidono sulla vita di tutti i giorni, ispirato all’inclusività e alla collaborazione tra giornalisti e membri (esperti) della comunità di lettori e, ancora, senza remore a manifestare le origini e l’indirizzo ideologico dei suoi giornalisti.

Delayed Gratification sembra essere, invece, la perfetta negazione del giornalismo digitale grazie a una serie di scelte a tratto audaci: ha preferito infatti la sola carta mentre l’imperativo sembra essere ormai essere online; è un trimestrale e questo vuol dire che, se tutto va bene, tratta in ogni numero fatti che si sono verificati tre mesi prima, con tutto il tempo necessario quindi per la riflessione, il ragionamento critico, la gratificazione ritardata di cui nel nome.

In Italia, oltre alla già citata Slow News. – che ha scelto un modello misto di contenuti liberi e gratuiti e contenuti condivisi, invece, con la sola community di abbonati a una newsletter mensile – a fare un giornalismo lento, basato sulla verifica dei fatti e di servizio per il lettore ci pensano anche realtà come Valigia Blu.

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