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Woke washing

Significato di Woke washing

woke washing cos'è Si parla di Woke washing quando i brand sfruttano grandi temi di attualità e di discussione pubblica o mostrano un improvviso attivismo nei confronti degli stessi, ma lo fanno perlopiù in maniera interessata, per trarne profitti economici o dissimulare politiche aziendali controverse.

WOKE WASHING: COS’È

La definizione di woke washing dello Urban Dictionary è «usare temi di giustizia sociale come strategia di marketing». In effetti, come sottolinea anche The Guardian, si è cominciato a parlare di woke washing quando aziende e grandi gruppi internazionali hanno preso a sfruttare temi come quelli dei diritti civili, dell’ambiente, dell’uguaglianza sociale, ecc. per arrivare più facilmente a target specifici di consumatori facendo leva su sensibilità, stili di vita, schemi valoriali di ciascuno di questi e, soprattutto, quando i brand hanno preso a fare del proprio attivismo nei più diversi campi una sconfinata operazione pubblicitaria (tanto che anche il mondo dell’advertising sembra avere riserve nei confronti dell’attivismo di brand a tutti i costi e che in Unilever woke washing e altre pratiche simili sarebbero considerate, secondo le parole di un portavoce, «la rovina dell’industria pubblicitaria»). Di fatto il woke washing è molto simile al greenwashing ma più generico, non esclusivamente incentrato su temi green come il rispetto dell’ambiente, la riduzione del consumo di plastica per i packaging, l’utilizzo di fibre naturali anche per la produzione di abiti low-cost e sui tentativi di un brand o di un settore di far apparire più sostenibile la propria intera filiera produttiva.

Woke washing: esempi ed errori da evitare

Di recente, per esempio, L’Oréal è stato accusato di woke washing quando ha deciso di eliminare dalle etichette dei propri prodotti termini come “sbiancante” o “schiarente” come segno di vicinanza alla Black community: un’operazione solo di facciata, è stato questo l’argomento dei detrattori, considerato che in un passato recente la stessa casa cosmetica francese aveva interrotto collaborazioni con alcuni testimonial proprio a seguito di dichiarazioni di questi ultimi a supporto del movimento Black Lives Matter.

La campagna “Real Meal” di Burger King, che con i suoi panini adatti agli umori più diversi doveva accendere i riflettori sul complesso tema della salute mentale, per esempio, è stata tanto virale sui social almeno quanto criticata sulla base di voci secondo cui la catena di fast food non prevedesse alcun tipo di sostegno psicologico professionale per i propri dipendenti, compresi permessi o paghe adeguate a seguire di propria iniziativa un percorso terapeutico.

Anche la campagna “It takes a real man” di Gillette, che provava a spazzare via i pregiudizi su quali atteggiamenti fossero davvero adatti a un uomo e a proporre una nuova idea di mascolinità, è stata da molti considerata un tentativo «maldestro», almeno quanto «inautentico», di avvicinarsi a generazioni nuove e a nuove interpretazione dei ruoli di genere da parte di un brand che per decenni ha proposto un’idea di uomo piuttosto stereotipata e che del resto ha ancora in Italia per esempio testimonial e un tono di voce decisamente machisti.

Sorte peggiore è toccata a “Daughter”, lo spot di Audi per il Super Bowl 2017 che, con uno storytelling piuttosto emotivo, sottolineava la necessità di risolvere il gender gap anche e soprattutto in ambito lavorativo e inneggiava all’uguaglianza salariale, e che è stato smentito dalla presenza nel board aziendale di pochissime lavoratrici donne in posizione esecutiva.

Pepsi ha dovuto ritirare lo spot con Kendall Jenner, e chiedere scusa, dopo essere stata accusata di sfruttare per mero profitto cause, slogan e simboli pacifisti degli anni Sessanta: nel commercial, infatti, la modella di casa Kardashian è impegnata in un servizio fotografico quando sente il vocio di un corteo pacifista, lo interrompe e offre alla polizia schierata in assetto antisommossa una lattina di Pepsi per raffreddare gli animi e godersi un #PepsiMoment (questo il nome della campagna hashtag collegata al commercial).

Anche Mattel negli anni è stata accusata di sfruttare a proprio vantaggio il tema dell’inclusione o una maggiore sensibilità verso canoni di bellezza altri e diversi rispetto a quelli più tradizionali quando ha lanciato Barbie curvy, in sedia a rotelle, di colore, ungendered: il cortocircuito nascerebbe dalla responsabilità che il brand ha storicamente avuto nel perpetrare uno stereotipo di bellezza e sensualità legato a una donna bionda, magra, con gli occhi azzurri proprio come le sue Barbie.

Gli esempi di woke washing appena citati hanno in comune almeno due elementi. Il primo è un certo tempismo di campagne pubblicitarie, hashtag campaign, iniziative di corporate social responsibility incentrate su un tema quando quello stesso tema è di attualità – come lo sono diventate le discriminazioni razziali in particolar modo dopo la morte di George Floyd e le proteste del Black Lives Matter in America o lo diventano ogni anno i diritti civili durante il giugno del Pride – oppure, ancora, se quando un certo tema è sotto i riflettori della cronaca e oggetto di imminenti decisioni pubbliche (basti pensare, in questo caso, al dibattito, in atto in molti paesi, sulla regolamentazione dei servizi digitali e sulla responsabilità dei gestori per cui non sono mancate forme di attivismo aziendale come la campagna “Stop Hate For Profits” di boicottaggio degli investimenti pubblicitari su Facebook, per esempio). Non è improbabile che i brand abbiano opinioni, posizioni chiare rispetto a quello che succede ogni giorno, nei più diversi campi della vita associata, e vogliano esprimerle, certi di poter contare si una certa vicinanza rispetto ai propri clienti; non è da escludere neanche, però, che ciò che esternamente sembra una forma vivace di attivismo di brand sia in realtà il tentativo di non perdersi il trend del momento, far sentire anche la propria voce, cavalcare la notizia: per quanto committed ed etici possano essere, infatti, i brand rimangono soggetti profit e con chiari interessi da difendere. Qualche volta sostenere una causa sembra invece per il brand una sorta di escamotage per riparare a condotte poco apprezzabili ed è in questi casi che le accuse di woke washing sembrano più calzanti: chi mai sospetterebbe, del resto, che in un’azienda in cui da anni ci sono aree dedicate all’allattamento al seno, piani per congedi parentali allungati, ecc. non ci sia ancora parità per quanto riguarda salari, crescita professionale, opportunità di carriera tra uomini e donne? Chi si prova in un brand activism di facciata spesso dimentica, però, che quello aziendale è oggi un sistema molto più aperto di un tempo e che, complice anche l’attenzione che i media rivolgono ormai di prassi a quello che succede nel mondo aziendale, è praticamente impossibile pensare che ci siano segreti aziendali dalle gambe corte. Il danno reputazionale, quando si scoprirà che il proprio sostegno pubblico e con tanto di merchandising arcobaleno alla causa LGTBQ+ è stato solo uno stratagemma per un po’ di visibilità e che nella propria azienda condotte e orientamenti sessuali, specie se non tradizionali, vanno taciuti, va ben bilanciato insomma con i possibili benefici del purpose marketing.

Come non trasformare purpose marketing e brand activism in woke washing

Uno dei mantra più ripetuti di questi tempi è, infatti, che i brand non possono più non prendere posizione. Questo sorta di dovere a dire la propria sulle più pressanti questioni pubbliche deriva soprattutto dalle aspettative dei consumatori ma anche, cosa non meno importante, da come gli stessi consumatori sembrano prendere oggi le proprie decisioni d’acquisto. Svariati studi sembrano confermare, infatti, una correlazione già tra le vecchie iniziative di responsabilità sociale dell’azienda e un migliore ricordo di brand, più propensione all’acquisto.

Nel settore food, per esempio, sarebbe piuttosto evidente la preferenza soprattutto dei consumatori più giovani verso aziende che fanno di sostenibilità e rispetto dell’ambiente i propri valori di riferimento. Chi li ha studiati come target delle proprie campagne marketing sottolinea, poi, che soprattutto i consumatori millennials e della generazione z fanno attenzione a come missione e valori aziendali si avvicinino alla propria stessa visione del mondo e al proprio stesso sistema di valori.

Sposare una causa per mostrarsi vicini ai propri consumatori, e se possibile fidelizzarli, però sembra non bastare più e, in quanto tra i pochi soggetti di cui ancora si fidano, i brand dovrebbero essere in grado di proporre ai propri pubblici una sfida, un purpose appunto, con cui affrontare l’apocalisse di una società in profonda trasformazione e a (larghi) tratti incomprensibile.

Trasformarsi in attivisti o in promotori di una causa per i brand è, però, un’operazione almeno tanto rischiosa quanto piena di opportunità: le accuse di woke washing sono tra questi rischi, così come lo è per esempio quello di favorire, anche inconsapevolmente, forme di attivismo pigro e la convinzione, cioè, in chi acquista un gadget rosa durante il mese di ottobre di aver fatto la propria nella lotta contro il cancro al seno.

Per evitare che le proprie iniziative di CSR o di brand activism falliscano o, peggio, siano percepite come opportunistiche e di facciata bastano poche accortezze:

  • scegliere bene la causa da sposare e assicurarsi che questa sia il quanto più possibile coerente con la propria storia, i propri valori, la propria mission aziendale e, allo stesso tempo, con le campagne – di comunicazione, di charity, ecc. – già svolte in passato;
  • essere chiari e trasparenti rispetto alle ragioni per cui si è scelto di dare sostegno a una causa, un movimento e non ad altri, soprattutto quando in gioco ci sono anche donazioni o fundraising;
  • valutare bene i rischi: reputazionali, certo, perché, per quanto ben intenzionati, è quasi impossibile evitare che qualcuno insinui il dubbio che ci siano interessi nascosti dietro al proprio attivismo di brand; ogni volta che ci si schiera a favore di una causa, però, si rischia anche di lasciare scontenti, o peggio di perdere, parte dei clienti che la pensano diversamente e non sempre si è tanto grandi e affermati da potervici rinunciare a cuor leggero;
  • fare attenzione alle azioni, più che alle parole: come si è visto, infatti, molte delle accuse di woke washing sono cadute addosso ai brand per l’incongruenza tra i messaggi veicolati con le proprie campagne e azioni intraprese o prassi e routine all’interno de loro ambienti di lavoro;
  • non cercare di essere creativi o di provocare a tutti i costi, soprattutto quando in gioco ci sono temi delicati e lo insegna, tra le altre, il flop della sfilata in cui Gucci ha portato in passerella la camicia di forza per accendere i riflettori sul tema della salute mentale (la stessa maison, solo qualche tempo prima, aveva celebrato la libertà del corpo della donna con delle giacche Gucci pro-aborto che avevano innescato proprio il dibattito su attivismo di brand e corporate diplomacy);
  • avere una buona strategia di crisis management dal momento che prendere parte a una questione controversa può provocare risentimento e boicottaggio da parte di alcuni consumatori, ma anche la più grave ira dei decisori politici, per esempio: ne sanno qualcosa TikTok o Huawei bannati negli USA.

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