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Blastare

Significato di Blastare

Significato di blastare Blastare è il termine con cui ci si riferisce sui social network e più in generale negli ambienti digitali all’abitudine di attaccare duramente qualcuno o rispondere "per le rime" a una critica o a un’obiezione ricevuta in prima persona, provando a far valere come argomento soprattutto la propria presunta superiorità intellettuale o culturale.

Cos’è il blasting

Insieme ai suoi derivati (“blasting”, “blastatore”, “blastato”, ecc.) il verbo “blastare” è un neologismo, di quelli nati come slang degli internauti più assidui o usati da giovanissimi della generazione z e della generazione alpha anche in frasi fatte come “ok boomer non mi blastare”, per sottolineare il gap con altre generazioni di frequentatori della Rete, tanto che alcune voci vogliono che ci sia anche “blastare” tra le nuove voci dello Zanichelli 2021.

Il blasting risulta comunque piuttosto simile a flaming e trolling, due fenomeni con cui da sempre la parte abitata della Rete (S. Maistrello, “La parte abitata della Rete“, Tecniche Nuove, 2007) è costretta a fare i conti. Simile è il rischio che, nel botta e risposta tra gli utenti coinvolti o sotto un thread di discussione, il linguaggio si faccia linguaggio dell’odio, le posizioni si polarizzino, i toni si facciano piuttosto accesi.

significato di Blastare in Rete

Quando si va alla ricerca di cosa vuol dire blastare non si può non imbattersi nei diversi tentativi di dare a blasting definizione a partire dall’eziologia, cioè dal significato dell’originale termine inglese da cui il neologismo deriva.

Blastare: origine del termine

Blastare è infatti un’italianizzazione del verbo inglese to blast”, ottenuta aggiungendo il suffisso -are tipico dei verbi regolari della prima coniugazione. Citando il Cambridge Dictionary si dovrebbe così dare a blastare significato letterale di «fare esplodere qualcosa o qualcuno o colpirlo con la stessa, violenta forza» o, in senso più figurato, «criticare severamente qualcuno o qualcosa».

Con riferimento in particolare agli ambienti online, alla cultura digitale e allo slang giovanile di cui si accennava, però, alla voce “blastare” Treccani scrive «attaccare e zittire l’interlocutoredall’alto di una presunta superiorità intellettuale e morale».

Come si blastano le persone sui social

Ci sono tanti modi per blastare una persona in Rete. Si può commentare con tono piccato o risentito un post in cui si è taggati o in cui si venga comunque chiamati in causa piuttosto esplicitamente; si può rispondere con toni altrettanto altezzosi a una @menzione su Twitter o intervenire in un thread apparentemente per dire la propria ma finendo, poi, per attaccare duramente i propri interlocutori; si possono rivolgere accuse piuttosto precise a destinatari formalmente anonimi ma perfettamente riconoscibili all’interno di una determinata cerchia e farlo dalla propria bacheca, rivolgendosi principalmente all’audience dei propri follower o amici, ma certi che l’effetto virale del proprio messaggio lo farà arrivare ai destinatari giusti.

I blastatori, soprattutto se seriali, non mancano di sperimentare forme diverse, ma se c’è qualcosa a cui non rinunciano mai è attaccare pubblicamente: più la messa alla berlina del proprio avversario politico, di chi contesta le proprie posizioni o semplicemente non è d’accordo con alcune esternazioni fatte in precedenza avviene “sulla pubblica piazza” – alimentando più o meno volontariamente nei confronti di questi ultimi la macchina del fango e lo shitstorm –, più ci si convince infatti che la stessa possa funzionare da deterrente.

Blasting: esempi celebri

A blastare la gente sono in genere personaggi noti, interessati ad affermare e a far prevalere sugli altri – opposti, differenti – le proprie posizioni, il proprio punto di vista. In principio fu Maurizio Gasparri, per esempio, a dispensare su Twitter offese a chiunque (dalla cancelliera Merkel alle due cooperanti italiane rapite in Siria nel luglio 2014, passando per l’allora presidente Obama e utenti chiaramente fake come un certo @PuffoBrontolone), tanto da rendere necessario un filone di riflessione sugli epic fail dei politici sui social network e, più in generale, sulla disintermediazione nella comunicazione politica online.

La campagna elettorale per le presidenziali americane 2020 ha visto Donald Trump twittare compulsivamente, almeno prima della grande “depiattaformizzazione”, insulti indirizzati ai destinatari più disparati (The New York Times ne ha raccolto una lista completa che parte già dai primi anni di presidenza) e ha tirato di nuovo in ballo la questione relativa alla legittimità per un personaggio politico del calibro dell’ex presidente repubblicano di arrivare a bloccare gli utenti sui social network.

Episodi – per fortuna isolati – come quello della funzionaria che si è improvvisata social media manager della pagina Facebook INPS per la famiglia” e ha usato toni non certo accomodanti nei confronti di semplici cittadini che chiedevano sulla stessa pagina informazioni su come ottenere SPID e altri bonus ha insinuato il timore che il blasting aspirasse a diventare persino uno “stile”, certo sui generis e provocatorio, di customer care .

Un ipotetico blastometro o una sorta di classifica di chi in Italia blasta di più vedrebbero primeggiare, però, soprattutto Enrico Mentana e Roberto Burioni che, nel tempo, come ha sottolineato su Vice Matteo Pascoletti, sembrano aver fatto del blasting il proprio modo prediletto di stare in Rete.

Da Mentana a Burioni: il blastometro italiano

Entrambi hanno acquisito abbondante seguito online (solo su Facebook la pagina ufficiale di Mentana ha oltre 1 milione e 300mila follower e quella dei “Medical Facts” di Burioni più di 760mila al 22 febbraio 2021), ma sorge spontaneo il dubbio relativo a quanti follower si trovino a seguire le pagine anche perché in trepidante attesa della nuova, ultima, querelle tra il direttore di TGLA7 o tra il famoso virologo e chiunque osi contestarne pubblicamente le posizioni.

Quando si tratta di blastare Mentana ha infatti un nutrito catalogo di soggetti e situazioni prediletti: colleghi giornalisti o fact-checker di professione che gli fanno notare grossolani errori nel modo di trattare una notizia; esperti che pubblicamente smentiscono sue previsioni o analisi rispetto a grandi temi o argomenti tecnici; aspiranti giornalisti delusi per non essere selezionati a fare parte della redazione di Open e chiunque metta in dubbio la validità dello stesso progetto giornalistico; utenti comuni non di rado paragonati dal direttore alle «legioni di imbecilli sui social» di echiana memoria.

mentana blasta la gente

Il direttore di TGLA7 ha ormai per abitudine quella di usare pochi convenevoli e toni decisamente sopra le righe nel rispondere a chi sui social contesta le sue posizioni. Sono nate nel tempo pagine Facebook (“Enrico Mentana che Imbruttisce la Gente”) e altri collettori di meme che giocano proprio su questo. Fonte immagine: Leevia

Diverse, invece, nel caso del noto virologo le categorie da blastare: Burioni, fuori ma soprattutto dentro la Rete, conduce infatti da sempre la propria battaglia soprattutto contro i no vax, a cui si sono aggiunti durante la pandemia anche e soprattutto i negazionisti del COVID-19, e lo fa al suono di «la scienza non è democratica». Proprio con questo commento lo stesso virologo annunciò di voler cancellare tutti i commenti di un post Facebook in cui si discuteva di meningite e migrazioni, decisione piuttosto criticata e che aprì un corposo dibattito su cosa significhi comunicare la scienza online.

burioni blasta utenti la scienza non è democratica

Anche il virologo Roberto Burioni è considerato uno dei più grandi blastatori italiani. Celebre è soprattutto un suo commento in cui sosteneva di non poter discutere «alla pari» con «della gente che non sa nulla» perché «la scienza non è democratica». Fonte immagine: il Post

Blastare le persone in Rete: funziona? E perché?

Il dubbio legittimo, in casi come quelli di cui si è appena detto, è che l’abitudine a blastare sia diventata, oltre che una sorta di cifra stilistica della propria presenza in Rete (e ci sarebbe da chiedersi, in questo senso, se e quanto coerente e proficua per l’immagine che si intende dare di sé), anche una tattica per assicurarsi un po’ di visibilità a buon prezzo . I giornali e la televisione sono sempre molto attenti, infatti, a quello che succede sui social, negli ambienti digitali e non possono che trovare appetibile la notizia di un personaggio pubblico, un personaggio famoso che battibecca con altri utenti provando a far valere la propria superiorità sociale, culturale, di titoli, ecc. Per certi versi, così, blastare i propri clienti o i propri elettori è quasi una forma di newsjacking .

Chi blasta le persone in Rete, bloccandole, silenziandole attraverso apposite feature o allontanandole in diverso modo dalla conversazione, però, non fa niente di molto diverso da usare il vecchio argomento del “lei non sa chi sono io!” per asfaltare il proprio interlocutore: a dimostrazione pratica che la maggior parte delle dinamiche tipiche delle piattaforme online (e succede anche con hate speech , fake news , online harassment, ecc.) non è che un’esasperazione di quanto già comunemente avviene nel dibattito pubblico e nelle conversazioni più quotidiane.

Certamente in Rete più che altrove i blastatori compulsivi dimostrano soprattutto la propria «incultura digitale». Per riprendere ciò che Massimo Mantellini ha scritto su Medium, «simili atteggiamenti di grande spavalderia erano un tempo associati ai cosiddetti “newbie”, gente che capitava improvvisamente dentro ambienti nuovi e strutturati senza percepirne la complessità […]» e, oggi, anche quando ad averli sono grandi nomi dell’establishment socio-culturale di un paese, non fanno altro che negare «la tipica architettura di Rete, immaginata per relazioni orizzontali di peso sostanzialmente analogo».

In Rete uno vale uno: provare a convincere della bontà dei propri argomenti solo in virtù di titoli accademici o di blasonate esperienze pregresse è una chiara, tanto quanto insopportabile, violazione di grammatica e “fenomenologia dei social network” e rischia di funzionare meno rispetto al farlo costruendo un rapporto diretto e paritario con le proprie community (lo sanno bene gli influencer che su questo essere spontaneamente riconosciuti primus inter pares o punti di riferimento rispetto a determinati temi giocano buona parte della propria professionalità).

«Blastare non serve a nulla» – come ha sostenuto l’esperto – se non ad alimentare il carico d’odio degli ambienti digitali e a generare un circolo vizioso e senza fine di offese e insulti capace di assicurare sicuramente un po’ di clamore mediatico e di “effetto wow“, ma non la possibilità di far passare davvero e correttamente il proprio messaggio.

Sembra d’accordo persino l’OMS che, nel contrastare il dilagare di posizioni no vax, ha redatto linee guida per i divulgatori scientifici che vieterebbero agli stessi di utilizzare un atteggiamento di superiorità o ridicolizzante nei confronti di chi non sia totalmente convinto dell’utilità o dell’efficacia dei vaccini. Come a dire che “la disputa felice” (B. Mastroianni, “La disputa felice”, Franco Cesati Editore, 2017) sui social network e in Rete è quella che non si abbarbica su titoli e riconoscimenti accademici o sulle torri d’avorio di chi si rifiuta di dialogare con chi per diverse ragioni non consideri alla propria altezza, ma vive di scambi continui e reciproci.

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