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Brand hijacking: cos'è e che effetti ha su brand e consumatori

Definizione di Brand hijacking

Brand hijacking: cos'è e che effetti ha su brand e consumatori Per Brand hijacking si intende quel complesso di attività attraverso cui un soggetto terzo si appropria, malevolmente o meno, di identità e brand equity di un'azienda.

Del resto, le aziende sono ormai sistemi aperti, tanto alle influenze dei mercati quanto a quelle di clienti e stakeholder che, dalla natura del prodotto alle strategie di marketing, hanno un ruolo sempre più attivo e collaborativo nella definizione dell’identità e della proposta di brand. In virtù di questa stessa apertura, però, si possono dimostrare altrettanto vulnerabili ed è proprio con questa vulnerabilità aziendale che il  brand hijacking ha a che vedere.

Cos’É il brand hijacking

Letteralmente è quel complesso di attività — dal furto di dominio alla violazione di marchio registrato, passando per una serie di azioni svolte online, su siti Internet e social network — tramite cui qualcuno si appropria dell’identità di un brand con l’intento di sfruttarne la visibilità, il valore percepito dai consumatori, gli asset strategici, in altre parole la sua  brand equity . Non a caso l’espressione, comparsa per la prima volta nel 2007 sulle pagine di Business Week e spesso contratta in brandjacking, deriva dall’inglese «hijack» nel suo significato letterale di dirottare: si fa brand hijacking, così, tutte le volte in cui si usa un prodotto o servizio per scopi completamente diversi da quello per cui è stato pensato o in cui ci si appropria di elementi di riconoscimento di un brand ( slogan , marchi sonori, packaging, ecc.) per diffondere messaggi diversi o persino contrastanti con quello originale. Se è spontaneo presumere così che operazioni di questo tipo comportino danni economici consistenti per il brand originale (crollo delle vendite, perdita di valore delle azioni, cattiva pubblicità, ecc.), non si può non tenere conto che tale danno potrebbe non essere visibile né nell’immediato, né nel breve periodo. Senza contare che, si vedrà, ci sono stati casi di scuola in cui il brand hijacking si è rivelato addirittura provvidenziale per la salute dell’azienda. In altre parole? Se una definizione precisa non esiste – o se, almeno, tante e diverse sono le forme che assume – si può agilmente pensare al brand hijacking come a quel complesso di occasioni in cui i consumatori si appropriano di un brand e gli aggiungono significato, positivo o negativo che sia.

Brand hijacking: esempi storici e casi di studio

Spesso il risultato di operazioni di brandjcaking sono state, del resto, la trasformazione dello stesso in un love brand . È quello che è successo a Dr. Martens, un’azienda di stivali per il giardinaggio destinati a un target anziano e poi, invece, diventati spontaneamente uno status symbol per gli adolescenti. Simile è la storia della Corona che, quando fu scoperta condita con sale e limone dai surfisti, passò dall’essere l’ennesima birra messicana all’essere spontaneamente associata a un’idea di libertà e di fuga. Sono due esempi che mostrano in macro gli effetti concreti del brand hijacking: a essere intaccato nella maggior parte dei casi è il brand purpose e, cioè, il fine ultimo per cui esiste un brand, al di là della semplice monetizzazione. In casi come questi, la scelta per l’azienda è allora o mostrarsi aperta e ricettiva nei confronti di ciò che viene dall’esterno o, al contrario, mettere in atto le modalità di protezione del brand che ha a disposizione.

La prima alternativa è preferibile in casi come quelli di Dr. Materns o Corona in cui il dirottamento da parte dei consumatori aiuta il brand a guadagnare nuove fette di mercato e, più in generale, migliora la sua immagine. Difendere i propri asset produttivi e valoriali, invece, diventa essenziale quando il brand hijacking rischia di danneggiare definitivamente la propria brand image: è quello che hanno provato a fare, per esempio, numerosi luxury brand quando alcuni dei loro prodotti iconici hanno rischiato di diventare segni di riconoscimento di gruppi sociali non in linea con il proprio target, come le gang band americane, e che avrebbero potuto creare alienazione proprio tra il core target.

Una riflessione culturale: perché il brand hijacking è figlio della cultura convergente

Già questo basta a capire come sia impossibile stabilire a priori come si dovrebbe comportare un’azienda in caso di brand hijacking. Ed è un’impossibilità che è metafora di quella ambiguità che si porta tradizionalmente dietro la cultura dell’apertura e della convergenza di cui il brandjacking è figlio. Basti pensare alla questione, mai risolta, degli open source: da un lato se ne apprezza la disponibilità, la possibilità di arrivare a soluzioni innovative e personalizzate attraverso un modello collaborativo unico nel suo genere, dall’altro la leggerezza li ha resi di fatto simili a beni comuni e, in quanto tali, li ha esposti al dilemma del free rider.

Anche l’era della convergenza ha un effetto culturale difficile da ignorare: l’effetto remix, e cioè la consuetudine con cui ci si appropria di caratteri, simboli, linee narrative depositate nell’immaginario pop e li si riutilizza in contesti completamente diversi da quelli originali. Nemmeno i brand sono esclusi da questo processo di remixaggio, con fan o hater che si appropriano di elementi riconoscibili come loghi, identità visive – o di personaggi e plot, nel caso in cui si tratti di prodotti dell’ industria culturale – e li rendono oggetto di investimenti di senso a sé stanti e diversi appunto dal brand purpose originario. Così sono nati alcuni esperimenti interessanti di fan fiction e altre operazioni che hanno avuto, invece, una vena di marketing più spiccata.

Non a caso uno dei casi più citati di brand hijacking è quello che ha colpito Mad Men: per un periodo di tempo ci furono account Twitter attivi con il nome dei personaggi della serie, account non ufficiali di cui la AMC ordinò quasi subito la chiusura. La scelta protezionista dell’emittente televisiva fu motivata dalla necessità di mantenere un certo controllo sulla storyline e, più in generale, di evitare che il nome della serie venisse associato a iniziative in nulla collegate alla casa madre. Non è, però, la sola via percorribile: su Twitter ci sono account di Lord Voldemort, Darth Vader, Frodo Baggins che nulla hanno a che vedere con case editrici e di produzione e che, pure, sono rimasti aperti e contribuiscono ad alimentare il mito dei prodotti culturali in questione.

Questi ultimi casi sono una dimostrazione in più del fatto che che il brand hijacking può non essere negativo a tutti i costi, a patto certo di saper sfruttare strategicamente iniziative di questo tipo o di essere pronti, almeno, a fronteggiarle.

Qualche esempio di brand hijacking in Rete

Se c’è una ragione, infatti, per cui i consumatori sono sempre più nella possibilità di rovesciare i messaggi di un brand è il superamento di quella condizione di asimmetria informativa che lasciava i primi, di fatto, in balia delle informazioni che ricevevano direttamente dalle aziende. Le community di consumatori, il sistema delle recensioni peer-to-peer e, più in generale la condizione di overload informativo tipica degli ambienti digitali fa sì che consumatori e acquisti siano sempre più consapevoli. Questo costituisce un vantaggio per le aziende: possono godere di una base di clienti affezionati e che, avendo fatto una scelta, sono più predisposti a diventare ambasciatori del brand.

Il passo falso che si potrebbe fare per trasformare tutto ciò in uno svantaggio, però, è breve: informazioni sbagliate rispetto al prodotto, forme di pubblicità ingannevole, tentativi di greenwashing, eventuali scandali che hanno interessato l’azienda, ma anche più semplicemente messaggi che non sono in linea rispetto ai valori e alla storia aziendale rischiano di essere subito smascherati in Rete. È quanto successo a McDonald’s quando con la campagna “Pay with Lovin’” offrì un pasto a chi semplicemente si abbracciasse, facesse una telefonata alla persona amata, ecc.: i salari dei dipendenti non erano certo pagati con amore, dissero allora i brand hijacker del fast food, parafrasandone lo slogan e in riferimento appunto alle politiche salariali del fast food.

In un’altra occasione McDonald’s chiese ai suoi follower su Twitter di raccontare le loro migliori #McStories: anche in quel caso ci fu una forma di brand hijacking con centinaia di utenti che usarono l’hashtag soprattutto per criticare le scelte di menù, reputate ancora poco sane e quasi per niente attente ai bisogni speciali. Una sorte simile toccò anche a Starbucks quando, durante un’iniziativa contro il razzismo, propose una speciale versione dei suoi bicchieri da asporto in cui al posto del nome del cliente c’era l’invito a vivere #RaceTogether: proprio il brand che continuava a non scrivere correttamente i nomi meno comuni, osservò allora la Rete.

brand hijacking starbucks

Il packaging pensato da Starbucks per la campagna #RaceTogether…

brand hijacking starbucks tweet

…e il tentativo di brandjacking da parte degli utenti Twitter.

Proprio l’esempio di Starbucks dice molto, tra l’altro, sulle ragioni per cui si fa brand hijacking: se in alcuni casi ci sono chiare posizioni politiche, sociali, persino di gusto che portano a boicottare messaggi e prodotti di un brand, in molti altri casi è semplicemente il basso costo (un click, il tempo di un tweet, ecc.) del partecipare a operazioni come queste, e in parte anche il loro anonimato, che convince il grosso degli utenti.

Dal brandjacking all’urban brand hijacking

Ha ragione, insomma, chi considera il brand hijacking una versione 2.0 delle scritte che imbrattano insegne, cartelloni pubblicitari e così via. Tanto più che il brand hijacking esiste anche fuori dalla Rete: è quello che è stato chiamato «urban brand hijacking» – così si esprime Vincos in un blog post sui casi Barclays e Diesel – e che per certi versi assomiglia un po’ all’ambient marketing, nell’intento di sfruttare almeno gli spazi umani nella confezione del messaggio da veicolare.

brandjacking barclays

Un esempio di urban brand hijacking.

Ammesso, insomma, che non c’è un modo per evitarlo del tutto, come un’azienda dovrebbe farsi trovare pronta davanti a possibili iniziative di questo tipo? I consigli degli esperti contro il brand hijacking vanno dalla necessità di registrare il marchio in modo da avere tutte le tutele legali del caso, a quella di utilizzare gli appositi tool per il monitoraggio delle conversazioni sui social che permettono di rimanere aggiornati su tutti i flussi in cui è coinvolto il proprio brand. Una buona idea comunque potrebbe essere anche avere una policy specifica in merito, da integrare semmai con quella per la gestione dei social.

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