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Open innovation

Definizione di Open innovation

Open innovation Apparsa per la prima volta in letteratura nel 2003, l’espressione "Open innovation" indica un modello di generazione dell’innovazione per cui le imprese possono e devono ricorrere a fonti sia esterne che interne per favorire il processo di generazione di nuove idee.

Dai modelli lineari ai nuovi modelli d’innovazione

L’economista austriaco Joseph Schumpeter negli anni ’30 definiva il concetto di innovazione come la prima introduzione nel sistema economico e sociale di un nuovo prodotto, procedimento o sistema. Tale definizione implicava un atto imprenditoriale di natura lineare, capace di far passare un’invenzione dallo stadio di semplice idea a quello di applicazione commerciale. Dalla visione di Schumpeter tanta strada è stata fatta e, oggi, i modelli di innovazione lineari e sequenziali non sono più in grado di rappresentare la complessità dei fenomeni innovativi nell’attuale scenario economico e sociale.  

Se oggi immaginiamo l’innovazione come un concetto legato alla contaminazione di idee, ai network d’imprese e alle relazioni orizzontali, fino agli anni ’80 non era così. Prima di quel periodo, il processo innovativo era parte di un circuito chiuso e controllato. Le attività di ricerca e sviluppo erano confinate all’interno del perimetro aziendale e le idee da trasformare in nuovi prodotti e servizi erano tutelate da meccanismi di protezione come brevetti e segreti industriali. Con l’avvento della globalizzazione, la crescente mobilità del mercato del lavoro, l’aumento dei costi di sviluppo di nuovi prodotti e l’accorciarsi del ciclo di vita degli stessi, è diventato sempre più difficile trattenere le conoscenze e i talenti all’interno dell’azienda. Inoltre, l’affermarsi di modelli organizzativi fondati su relazioni di filiera e alleanze strategiche ha portato i mercati dei capitali a investire su nuovi modelli di business basati su combinazioni di conoscenze e competenze diverse.

Alla luce di tutto ciò, i modelli di innovazione più recenti partono proprio dal presupposto secondo cui le conoscenze necessarie per realizzare innovazioni di successo non possono risiedere unicamente all’interno della singola impresa, enfatizzando l’importanza degli aspetti collaborativi e dell’apertura dei confini aziendali attraverso lo sviluppo di relazioni con i diversi stakeholder .

Il modello di Open Innovation di Chesbrough

Tra i nuovi modelli di generazione dell’innovazione il più conosciuto è quello individuato per la prima volta dall’economista californiano Henry Chesbrough nel saggio del 2003 “Open Innovation: the new imperative for creating and profiting from technology“. 

Partendo dall’analisi di grandi multinazionali del settore high-tech come DuPont, IBM e AT&T, l’autore pone l’accento sulla trasformazione dei modelli di innovazione tradizionali (“closed innovation”) verso nuovi paradigmi che spingono le imprese a ricercare l’innovazione oltre i confini aziendali (“open innovation”). Come scrive l’autore, «L’innovazione aperta è un paradigma che afferma che le imprese possono e debbono fare ricorso a idee esterne, così come a quelle interne, e accedere con percorsi interni ed esterni ai mercati se vogliono progredire nelle loro competenze tecnologiche» (Chesbrough, Open Innovation: Researching a New Paradigm, 2006).

Nel modello di Chesbrough le nuove idee non nascono unicamente da conoscenze e competenze interne all’azienda, ma anche, e soprattutto, da quelle esterne.

Open vs closed innovation

Fonte: Chesbrough H. W. (2003), The Era of Open Innovation, Mit Sloan Management Review.

I risultati di questi flussi bidirezionali di conoscenza accelerano il processo innovativo interno e indirizzano la creazione di nuovi mercati esterni rendendo i confini aziendali fluidi, paragonabili a una membrana permeabile.

Secondo Chesbrough un’azienda può preferire acquisire tecnologie dall’esterno piuttosto che svilupparle internamente oppure può decidere di cedere all’esterno le proprie conoscenze per garantirsi un ritorno economico o lo sbocco verso nuovi mercati. Allo stesso modo un progetto di ricerca può nascere all’interno dell’impresa per poi essere sviluppato all’esterno o nascere al di fuori del contesto aziendale per poi essere inglobato in un modello di business tradizionale.

La parola d’ordine è contaminazione: delle idee, delle competenze, delle risorse aziendali. Contaminazione che genera vantaggi per le imprese e per il mercato.

Inbound e outbound open innovation

Gli strumenti a sostegno dell’open innovation sono molteplici, possono concentrarsi sia sulle fasi iniziali del processo (generazione e valutazione delle idee) che su quelle successive (implementazione e commercializzazione) e variano a seconda della direzione dei flussi di conoscenza attivati. Analizzando proprio tali flussi è possibile operare una distinzione tra due approcci all’open innovation – inbound e outbound – e sulla base di questi distinguere due grandi categorie di strumenti.

inbound open innovation

L’approccio inbound si basa sull’adozione di fonti esterne per generare innovazione all’interno dei confini aziendali. Gli strumenti più comuni sono:

  • collaborazioni con università e centri di ricerca;
  • partner scouting: individuazione di partner e forme di collaborazione interessanti;
  • corporate venture capital: investimenti in startup e PMI innovative in cambio di quote di capitale di rischio;
  • call for idea: concorsi pubblici finalizzati alla raccolta di idee innovative per risolvere problemi reali;
  • hackathon: competizioni che coinvolgono persone esterne all’azienda – solitamente sviluppatori – per generare idee innovative utili al business aziendale;
  • creazione di incubatori e acceleratori aziendali.

outbound open innovation

L’approccio outbound, meno diffuso di quello inbound, si basa, invece, sulla esternalizzazione delle innovazioni generate all’interno dell’impresa. I principali strumenti sono:

  • joint venture: accordi commerciali tra più imprese che si impegnano a collaborare per il perseguimento di uno specifico obiettivo, condividendo rischi, risorse ed eventuali profitti;
  • licensing dei prodotti: cessione ad altro soggetto affinché possa utilizzare il prodotto per trarne dei benefici economici;
  • creazione di spin-off aziendali;
  • vendita di brevetti.

Open Innovation: qualche case study

Oggi il modello di innovazione individuato dall’economista californiano ha quasi venti anni e l’attenzione verso questo nuovo approccio strategico e culturale da parte di PMI e startup sta crescendo sempre di più. Sono ormai tantissime, infatti, le imprese che mettono l’open innovation al centro delle proprie politiche aziendali per creare valore e competere meglio sul mercato. Un nome tra tutte? Google. Tra le tante iniziative, il colosso di Mountain View ha una divisione – Google Ventures – specializzata negli investimenti in capitale di rischio di startup e PMI innovative e incoraggia i propri dipendenti ad utilizzare il 20% del proprio orario di lavoro per sviluppare nuovi progetti.

Samsung, invece, ha aperto i suoi open innovation center per consentire alle startup di avere accesso ai progetti ed entrare in contatto con i dirigenti, collaborare con le università e i centri di ricerca, individuare i talenti più promettenti e trovare forme di collaborazione con le nuove imprese dell’hi-tech.

Cambiando settore, la multinazionale farmaceutica Lilly, ha creato una piattaforma – Open Innovation Drug Discovery – per permettere ai ricercatori di tutto il mondo di condividere in maniera sicura dati biologici per individuare nuovi farmaci.

La banca internazionale britannica Barclays, invece, ha lanciato il proprio acceleratore d’impresa per scoprire nuovi talenti nell’ambito della fintech.

Sempre più imprese italiane, poi, riconoscono ormai il valore dell’open innovation. Basti pensare all’Open Innovation Program lanciato da Enel in partnership con LVenture Group (un percorso di formazione con l’obiettivo di fornire ai partecipanti gli strumenti necessari per risolvere i problemi legati alla transizione energetica) o gli acceleratori di impresa promossi da TIM (TIM Wcap) e da Intesa San Paolo (Intesa San Paolo Innovation Center).

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