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Surplus cognitivo

Significato di Surplus cognitivo

surplus cognitivo "Surplus cognitivo" è l’espressione con cui, all’interno dell’approccio teorico di Clay Shirky, si fa riferimento a come nuovi media e ambienti digitali abbiano progressivamente cambiato la concezione stessa di tempo libero, spingendo gli individui a spendere il tempo “in surplus” in maniera attiva e partecipativa.

Surplus cognitivo: cos’è e come funziona

Se è stata infatti la società industriale, la società di massa di primo Novecento, a inventare l’idea di tempo libero – e una serie di divertissement altrettanto di massa, come il cinema, tramite cui impiegarlo – secondo la ricostruzione dello studioso, a partire dal secondo dopoguerra e per una serie di fattori socio-demografici come l’aumento del PIL, quello del tasso di occupazione e dei livelli medi di istruzione, la gente ha avuto a disposizione un surplus di tempo a disposizione e ha cominciato a impiegarlo in attività diverse da quelle che erano, fin lì, considerate di svago e di divertimento. In particolare, la possibilità di interagire con nuove tecnologie facili da utilizzare e con quasi nessuna barriera all’entrata – né di tipo economico, né d’abilità e conoscenze – ha fatto sì che sempre più individui impiegassero il loro tempo libero sempre meno in attività solo consumistiche e sempre più in attività creative, di fatto trasformando il tempo in più in surplus cognitivo.

Tanti utenti con tanto tempo libero: cosa produce il surplus cognitivo

Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: un’enciclopedia libera e collaborativa come Wikipedia; forum e blog tematici su praticamente qualsiasi argomento, anche quello più di nicchia; community di subber che rendono disponibili sottotitoli in qualsiasi lingua per film e serie TV; mappe interattive e collaborative su cui segnalare non solo attrazioni e luoghi di interesse ma, anche e soprattutto, situazioni di pericolo ed emergenza. Proprio Ushahidi, piattaforma nata perché ciascuno potesse collaborare a tracciare una mappa dei luoghi teatro di violenza etnica in Kenia e poi di fatto diventata un collettore a livello globale di stati di allerta, è uno degli esempi utilizzati nell’omonimo saggio (Shirky, 2010) per spiegare come il surplus cognitivo sia ateleonomico e privo cioè di uno scopo fisso e predeterminato: è raro, infatti, che l’utente abbia ben chiaro in mente quali saranno meta e risultato finale quando comincia a dedicare un po’ del suo tempo libero a un progetto wiki o alla gestione di una fanpage. Del resto, è più valido che mai in questo caso il mantra del totale che è più della somma delle singole parti: è solo mettendo insieme il surplus di tempo e di risorse di tutti gli internauti che si ottengono risultati di valore e utilità pubblica come ancora Wikipedia o, almeno per come erano alle loro origini, Airbnb e Uber.

Questi ultimi due esempi potrebbero far apparire anche il surplus cognitivo come un naturale prodotto della sharing economy.

La creatività ai tempi del surplus cognitivo

In realtà anche meme , GIF e LOLcat sono tra i prodotti tipici del surplus cognitivo. Che valore collettivo possono avere, però, immagini di gatti in pose buffe? E che servizio utile agli altri crede di fare chi monta GIF e meme divertenti o dissacratori a partire da scene di film o da citazioni di libri o personaggi famosi? La risposta sarebbe nessuno, se non si considerasse che gli ambienti digitali e gli strumenti che mettono a disposizione sono un campo fertile per sperimentare nuove forme di creatività. Più di recente, così, uno studioso come Goldsmith ha paragonato il «perdere tempo su Internet» (Goldsmith, 2017) a un’avanguardia artistica, una «situazione surrealista ideale», in cui sonno e veglia si alternano senza soluzione di continuità, in una sorta di «incoscienza collettiva». Una delle obiezioni più spesso mosse alla cultura partecipativa degli ambienti digitali e a chi ne vanta l’aver reso più democratica la creatività riguarda la qualità dei prodotti ottenuti: se chiunque può, in pochi minuti, creare un meme o remixare un successo pop e condividerlo in Rete non ci si può aspettare sempre una qualità eccelsa, piuttosto anche quello che gli internauti producono nel proprio tempo liberò avrà una distribuzione normale con poche eccellenze e un gran numero di contenuti nella media. Se per un’operazione al cervello è senza dubbio preferibile rivolgersi al miglior chirurgo in circolazione, però, sottolinea Shirky, quando si tratta di cercare un posto dove andare a mangiare un piatto tipico anche delle recensioni amatoriali, scritte da utenti comuni, possono andar bene.

Perché perdiamo tempo su Internet e siamo felici di farlo

Chiunque non conosca bene gli ambienti digitali e le dinamiche al loro interno potrebbe chiedersi soprattutto perché si decide di perdere tempo su Internet – e, nella maggior parte dei casi, si è felici di farlo – piuttosto di impiegare il proprio tempo libero in altre attività. Ancora Goldsmith fa notare che, più che di un tempo perso su Internet, si tratta di un tempo speso su Internet e che la «rinascita creativa» a cui si è accennato è, in realtà, un atto d’amore verso il web e verso la collettività: il fatto stesso di essere disposti a condividere, online e con quelli che sono essenzialmente degli sconosciuti, contenuti e altri “manufatti” sarebbe cioè un forma 2.0 di altruismo. Non a caso, del resto, il sottotitolo del saggio di Shirky era in origine “Creatività e generosità nell’era delle connessioni” (poi trasformato, nella versione ufficiale, in “Come la tecnologia trasforma i consumatori in collaboratori”). In una visione un po’ più tradizionalista, lo studioso individua, comunque, una serie di motivazioni personali e sociali che spingono l’individuo a trasformare il semplice tempo libero in surplus cognitivo. Sono motivazioni personali e sociali che, a ben guardare, assomigliano da vicino a quei bisogni umani schematizzati da modelli come la piramide di maslow o la teoria dei bisogni di mcclelland : chi partecipa più attivamente alle attività creative in Rete lo fa normalmente per allenare le proprie capacità e migliorare i propri risultati, fino a diventare completamente autonomo nell’attività in questione, o ancora per sentirsi più solidamente parte di un gruppo, specie se di quel gruppo condivide gusti, idee, valori. Il surplus cognitivo avrebbe in altre parole valore personale, collettivo, pubblico e civico: personale nella misura in cui, si è visto, provvede al bisogno di condivisione provato dal singolo; collettivo perché più pragmaticamente soddisfa i bisogni specifici di un determinato gruppo (che sia quello di fan di una serie TV ancora non tradotta dalla lingua originale, quello di appassionati di bird watching e via di questo passo); pubblico e civico, infine, in virtù delle esternalità positive che l’impegno e l’attività di tanti utenti, per tante finalità diverse, hanno anche a vantaggio di lurker e utenti passivi della Rete.

 

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