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Immersive journalism: quando la cronaca è da rivivere immergendovisi

Immersive journalism: da una definizione agli esempi migliori

L'immersive journalism permette all’utente di vivere la notizia, immergendosi letteralmente in essa: qualche esempio e best practice.

Non sbaglia chi dice che il giornalismo è figlio del tempo: ogni epoca ha infatti la sua narrativa, narrativa che chi fa informazione non può che conoscere per provare a sfruttarla al meglio. È facile spiegare, allora, il successo dell’ immersive journalism nell’era della distrazione e della sovrabbondanza d’informazioni: se l’imperativo è coinvolgere il lettore, l’unico modo in cui davvero lo si può fare è provando appunto a farlo immergere nella storia, anche e prima di tutto attraverso i sensi.

Perché l’immersive journalism non è (solo) il risultato di una tecnologia sempre più moderna

Una definizione unica di immersive journalism, del resto, si perde tra le sue innumerevoli applicazioni e sperimentazioni. L’European Journalism Observatory però, prendendo in prestito le parole di James Pallot che tra i primi ha operato nel campo, parla di giornalismo immersivo come quell’insieme di tecniche multimediali, meglio transmediali, che permettono al lettore di impersonare le storie giornalistiche, virtualmente ma in prima persona. A partire da fonti e materiali originali viene ricostruito, cioè, il contesto narrativo ed è al suo interno che il lettore può muoversi, agire, letteralmente (ri)vivere le notizie.

È facile capire come la tecnologia abbia avuto un ruolo fondamentale, per certi versi abilitante, in questo processo: solo il perfezionamento di strumenti come foto e video in 3D, rendering, ologrammi, realtà aumentata, realtà virtuale hanno reso possibile, infatti, sperimentare narrative nuove come quelle dell’immersive journalism.

mmersive journalism tecnologie

Come si può fare giornalismo immersivo? Fonte: StoryBench

«Le aspettative dei consumatori, più della tecnologia e del suo costo, però nel futuro prossimo spingeranno gli imprenditori a utilizzare tecniche di immersive storytelling», sottolinea però in un’intervista ai nostri microfoni Jeremy Gilbert, Director of Strategic Initiatives a The Washington Post. «La tecnologia, infatti, sta diventando sempre più democratica, ma sono soprattutto le aspettative dei lettori che stanno cambiando e crescendo: i consumatori si aspettano storie più ricche, più profonde, più immersive appunto; uno storyteller non può non tenere conto di ciò quando si tratta di innovare». Tanto più che, continua l’esperto, «il punto di svolta per chi produce storie è riuscire a confezionare  la storia giusta, per i consumatori giusti, sul giusto canale di distribuzione. Chi consuma informazione merita, del resto, personalizzazione e opportunità di scelta: le forme immersive soddisfano proprio bisogni come questi».

I vantaggi di un giornalismo immersivo

Da un lato infatti ci sono, e sono chiari, i vantaggi dell’immersive storytelling per chi fa informazione: maggiore coinvolgimento del lettore, tempi di lettura più lungi, tassi di abbandono potenzialmente inferiori. Anche se, certo, a fronte di una visione del lavoro giornalistico e di una sua organizzazione completamente diverse: non è più il singolo giornalista a costruire il pezzo, ma un’operazione di immersive journalism richiede gioco di squadra e il coinvolgimento di figure come l’interaction designer e chi si occupa di usabilità per esempio – nelle forme e per la modalità di interazione, non a caso gli esperimenti di questo tipo sono stati paragonati spesso a dei veri e propri videogiochi. Cosa cambia, invece, per il lettore? Già parlare di lettore potrebbe risultare innanzitutto riduttivo in riferimento al giornalismo immersivo, in virtù della sua natura multimediale: le notizie immersive si vedono, si ascoltano, si esplorano, letteralmente si vivono. In questo senso l’immersive journalism è forse la forma più genuina di giornalismo che mette davvero al centro l’utente, dal momento che tutto sembra essere pensato in riferimento al suo corpo e ai suoi sensi. Il corpo dello user è presente sotto forma di avatar, di ologramma o, grazie a realtà aumentata e realtà virtuale, come punto di vista e prospettiva privilegiati. I sensi sono coinvolti in una maniera che potrebbe essere senza dubbio definita olistica, nonostante gli esperti insistano spesso sull’importanza che ha soprattutto il suono nella (ri)costruzione, immersiva, di una storia, fosse anche di cronaca. In molti casi, poi, è la notizia stessa che accade in virtù della presenza dell’utente: utente che, del resto, quando ha indosso un visore oculare, scrolla una pagina e ruota un video a 360 gradi, compie appunto azioni in grado di far andare avanti la storia.

Non è un caso se c’è chi (in particolare Eva Dominguez, in un articolo da titoloGoing Beyond the Classic News Narrative Convention. The Background to and Challenges of Immersion in Journalism”, ndr) si riferisce al giornalismo immersivo non tanto come a una tecnica o a un genere di giornalismo, quanto come a una vera e propria «esperienza d’azione».

Esempi e best practice

È facile capire già da questo come non ci sia una ricetta unica per l’immersive storytelling, specie quando applicato al mondo dell’informazione. Molto dipende dalle risorse (economiche, professionali, ecc.) che si hanno a disposizione, dalla piattaforma a cui è destinato il progetto, dal tipo di storia che si intende raccontare ovviamente. Non ci sono, in questo senso, notizie naturalmente più adatte di altre: si può usare il giornalismo immersivo tanto per parlare di viaggi – è quello che ha fatto il Washington Post permettendo ai suoi utenti di visitare e scoprire storia e curiosità della Elbphilharmonie Concert Hall di Amburgo grazie alla realtà aumentata – quanto per affrontare temi di ecologia – come ha fatto invece Discovery con esperimenti di immersive storytelling dedicati alle specie in via d’estinzione – e di scienza – il Los Angeles Times ha realizzato in questo modo un reportage dai crateri di Marte – o di società. Anche le grandi cause umanitarie possono rivelarsi soggetto ideale per l’immersive journalism: i primi esperimenti in materia riguardano proprio questo. “Gone Gitmo”, un progetto del 2007, utilizza la realtà virtuale per riprodurre e costringere l’utente a immedesimarsi nelle dure condizioni in cui erano costretti a vivere i condannati di Guantanamo.

Hunger in Los Angeles”, invece, ricostruisce una giornata tipo nelle mense per poveri di Los Angeles e, sebbene progettati in maniera completamente diversa — uno facendo uso della realtà aumentata, l’altro sfruttando più semplicemente i video navigabili e a 360 gradi — “Project Syria” e “House to house. The battle for Mosul” provano a raccontare, da prospettive diverse, la complicata situazione in Medio Oriente.

In altri contesti, esperimenti di giornalismo immersivo hanno provato a costruire una narrativa nuova per temi come l’immigrazione.

Esempi come questi e il loro successo di pubblico spiegano perché l’immersive journalism funziona: non solo intrattiene gli utenti, li coinvolge e li rende partecipi in una sorta di processo di gamification; riesce soprattutto a garantire un forte coinvolgimento emotivo.

Dall’emotività al rischio manipolazione: i limiti dell’immersive journalism

Storie che puntano soprattutto, se non in maniera esclusiva, sull’emotività possono essere considerate però davvero giornalismo? È questa una delle critiche più frequenti che vengono mosse all’immersive journalism. Un altro dei rischi più frequentemente associati al giornalismo immersivo è la possibile manipolazione delle notizie. Un formato che deliberatamente trasforma il fattuale in finzionale potrebbe apparire contraddittorio, infatti, allo spirito di un tempo in cui i professionisti del settore sono impegnati a discutere di fake news e post-verità e si prodigano in iniziative contro il dilagare delle bufale. Tanto più che, proprio in considerazione delle tecnologie coinvolte, confezionare maliziosamente informazioni, fonti, storie verosimili potrebbe risultare oltremodo semplice per chi fa immersive journalism: quale utente, escluso un vero professionista della materia, riuscirebbe del resto a distinguere sul suo visore una clip reale che abbia come protagonista il presidente Trump da una confezionata ad arte e per scopi politici?

Un’altra obiezione spesso rivolta all’immersive journalism è di ridurre il ruolo da garante del giornalista o del professionista dell’informazione: se è, come si accennava, l’utente a far succedere la notizia, mancherebbero diversi passaggi tipici dello stesso processo di newsmaking. A guardarla bene, però, sembra un’obiezione che non tiene conto che, dalle linee narrative adottate alle modalità d’interazione, tutto anche in un pezzo di immersive journalism parte da una chiara premessa giornalistica.

Rimane, infine, il problema della sostenibilità economica del giornalismo immersivo, tanto per le redazioni quanto per i consumatori. Oggi che la maggior parte delle tecnologie su cui si basano esperimenti di questo tipo è diventata più accessibile sembrano esserci tutte le premesse perché soluzioni come queste siano adottate più diffusamente anche da realtà più piccole come le redazioni locali. Tanto che se una posizione di determinismo tecnologico è inutile, come si diceva, non si può non chiedersi come realtà aumentata e realtà virtuale, oggi onnipresenti in qualsiasi progetto di immersive journalism, stanno cambiano il mondo della narrazione giornalistica. Ci spiega ancora Jeremy Gilbert di The Washington Post:

La realtà virtuale garantisce profondità e concentrazione, dal momento che i consumatori bloccano qualsiasi tipo di distrazione quando consumano VR. Le barriere all’ingresso, però, sono alte: gli utenti devono avere tempo e l’attrezzatura giusta per consumare le storie in realtà aumentata quando vi si imbattono o, se così non fosse, sono costretti a “salvarle” per quando verrà il momento giusto. La realtà aumentata, invece, rende l’immersive storytelling molto più accessibile. Le storie in AR, infatti, possono essere consumate tramite un oggetto onnipresente come lo smartphone. Non solo: portano alla luce aspetti chiave della storia, introducendo oggetti virtuali nella realtà fisica del consumatore. Per queste ragioni l’AR non solo piace ai consumatori, ma riesce a dare un impatto visivo allo storytelling che non si potrebbe sperare di avere altrimenti, tramite l’uso di tecniche più tradizionali.

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