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Imprenditoria femminile in Italia: dati e prospettive per le donne che fanno business

Imprenditoria femminile in Italia: dati e iniziative per le donne nel business

Tra quote rosa e soft skill indispensabili: cosa serve all'imprenditoria femminile in Italia per potersi dire davvero matura.

A fine 2017 c’erano in Italia oltre un milione e 330mila attività economiche a conduzione femminile, 10mila in più rispetto al solo anno precedente e quasi 30mila in più rispetto al 2014. Erano attività che rappresentavano circa il 22% del totale delle imprese, concentrate soprattutto in settori come il turismo, i servizi e in valore sempre crescente anche le attività professionali. A guardare i dati del Registro delle Camere, l’imprenditoria femminile in Italia sembrerebbe insomma sana e vitale.

Il contraltare, però, è rappresentato da dati più generici, come quelli che da dieci anni la McKinsey raccoglie in “Women Matter”, sulla condizione della donna in un mercato del lavoro in profonda trasformazione. Secondo la società di consulenza, nonostante rappresentino almeno la metà della forza lavoro mondiale, le lavoratrici donne generano ancora appena il 37% del PIL, ciò significa che se si riuscisse – davvero – a chiudere il gender gap entro il 2025 si potrebbero aggiungere per esempio almeno 12 trilioni di dollari a quello stesso valore di PIL.

Donne in azienda: così cambiano performance finanziarie e qualità dell’ambiente di lavoro

imprenditoria femminile in Italia gender diversity e performance economiche

Come la gender diversity impatta sulle performance di un’azienda. Fonte: McKinsey

Ricondurre la questione dell’imprenditoria femminile, in Italia e nel mondo, a una mera osservazione economica può apparire certo riduttivo e in parte lo è se si considera che l’empowerment delle lavoratrici donne e, ancor meglio, di chi da donna prova a fare impresa è materia complessa e che richiede di tenere sotto controllo diversi fattori, molti dei quali soft e culturali. Numerosi studi, però, collegano una maggiore gender diversity dell’azienda persino a performance economico-finanziarie migliori. Una ricerca sulle attività imprenditoriali femminili in America, per esempio, sottolinea come le aziende in rosa abbiano creato in questi anni nuovi posti di lavoro nell’ordine di milioni (oltre 6,5 fino al 2012). E ancora da McKinsey sottolineano come il ritorno medio sugli investimenti equity sia maggiore nelle aziende con più rappresentanza femminile nei consigli esecutivi e che, più in generale, i business al femminile fanno registrare performance migliori per quanto riguarda la qualità dell’ambiente di lavoro, il management, la coordinazione delle diverse aree aziendali.

imprenditoria femminile in Italia vantaggi board femminile

I vantaggi, per un’azienda, di avere un board completamente al femminile.

«Sembra che il punto di vista femminile riesca a portare sfaccettature diverse – spiega infatti in un’intervista ai nostri microfoni Chiara Cecutti, self ed executive coach e autrice di “Quando il manager è donna. Come fare carriera senza trasformarsi in un uomo” – come se la visione dell’uomo fosse in qualche modo più focalizzata e settoriale, mentre la visione della donna tendesse a essere invece più ampia. La donna, del resto, riesce anche a occuparsi un po’ di più dell’intelligenza emotiva, di quel welfare aziendale di cui oggi si parla tanto, della work life balance”.

Imprenditoria femminile in Italia: tra quote rose e soffitto di cristallo

Un po’ meno immediato è spiegarsi perché se l’accesso al mercato del lavoro è, in parte anche grazie a misure e iniziative speciali spesso previste a favore di lavoratrici e imprenditrici donne, ormai per lo più paritario per uomini e donne (il numero di neo-assunti uomini uguaglia, per esempio, quello di neo-assunte donne), solo un manager su quattro invece è donna. Per riferirsi a un quadro di questo tipo è stata coniata un’espressione ad hoc: c’è un «tubo che perde» nella maggior parte delle aziende internazionali ed è quello che impedisce alle donne di arrivare in posizioni manageriali o di leadership, nonostante skill e curriculum in tutto e per tutti paragonabili a quelli dei loro colleghi uomini. Non stupisce, così, che ogni anno The Economist sia impegnato a stilare un Glass Ceiling Indexsoffitto di cristallo» è l’espressione che viene utilizzata per indicare ostacoli alla carriera che dipendono da discriminazioni di tipo razziale, sessuale o politico-religioso): la maggior parte dei paesi ha ottenuto, nell’ultima edizione, un ranking medio di 60, dove 100 rappresenta l’ambiente lavorativo ideale e più confortevole anche per le lavoratrici donne. Le performance migliori sono quelle di paesi come la Svezia, la Normandia, l’Islanda e più in generale delle nazioni in cui è previsto il congedo parentale anche per i papà: se, anche dopo una gravidanza, una lavoratrice donna è messa in condizione di occuparsi nuovamente e a tempo pieno della propria carriera, infatti, è più probabile che riuscirà a ottenere i risultati sperati; senza contare che proprio la gravidanza delle dipendenti e le misure assistenziali previste per questa sono uno dei punti più dolenti quando si guarda al lavoro e all’imprenditoria femminile, in Italia e non solo.

glass ceiling index 2018

Fonte: The Economist

Da un lato insomma le misure dall’alto a favore di chi, da donna, è determinata a trovare il suo posto nel mondo del lavoro possono risultare anche molto utili. Nel 2011 per esempio con una legge, la cosiddetta legge Golfo-Mosca, vennero imposte in Italia le quote rosa nei consigli d’amministrazione delle società quotate e partecipate. Dopo cinque anni, anche le aziende al primo rinnovo di CDA avevano oltre il 27% di donne nel board e si trattava di lavoratrici più giovani (50,9 anni contro i 58,9 dei colleghi uomini), mediamente più istruite (il 29,7% con un titolo post laurea, contro appena una percentuale per gli uomini ferma al 16,7%) e anche con meno legami personali con gli azionisti aziendali. Una norma come questa sembra aver assicurato, insomma, «maggiore selezione dei consiglieri nei board, più trasparenza, migliori performance economiche», come ha sottolineato in un’intervista ai nostri microfoni Martina Rogato, presidente di Young Women Network, un’associazione che ha come missione favorire networking, mentoring ed empowerment delle giovani donne.

Perché, allora, c’è stato negli anni molto malumore proprio rispetto alle quote rosa e persino da parte di chi ha a cuore le questioni di genere? Poniamo il caso, com’è effettivamente avvenuto, che «varie società di consulenza facciano un accordo che prevede che entro il 2020 debbano assumere centinaia di donne a diversi livelli», continua Martina Rogato, «se dalle risorse umane dicessero a un dipendente dell’unità finance che non può crescere dal livello B al livello A perché non ha corrispettivo femminile, non sarebbe certo una  misura meritocratica, ma si rischierebbe di rafforzare lo stereotipo del “vai avanti perché sei donna, non perché te lo meriti”». E proprio a proposito di stereotipi, Chiara Cecutti sottolinea come imporre un certo numero di donne nei CDA e in posizioni apicali potrebbe portare – e ha portato nei fatti – a commenti come «“hanno dovuto aggiungere le quote rose perché non c’erano donne sufficientemente in gamba per entrare nei board” e questo è offensivo, oltre che retrogrado». Senza contare che per molte aziende puntare sulla gender diversity è stato, in questi anni di forte attenzione anche mediatica sulle questioni di genere, anche una leva strategica – di marketing, quasi – per ostentare la propria sensibilità rispetto a temi di pubblico interesse. Per questo non sorprende che ci siano anche imprenditrici donne, come Sofia Trevisan di Venditore Vero, profondamente convinte che tutti gli interventi che provengono dal di fuori – come le quote rosa appunto – siano inutili, se non discriminanti, per le donne che provano a fare carriera: «attendere un aiuto dall’esterno significa sperare che qualcuno, diverso da noi stesse, possa fare la differenza. Mentre, come per gli uomini anche per le donne, è solo l’imprenditore che determina nel bene e nel male il successo della sua azienda. […] L’imprenditore e l’imprenditrice sono dei panda: ciò significa che se da un lato vanno protetti, da un lato sono ancora più abituati a essere attaccati, cacciati che non a prendersi i meriti che hanno».

Le ricette degli esperti per un’imprenditoria, di se stesse, e al femminile

Insieme a iniziative che vengano dall’alto e strumenti pratici, insomma, e perché questi non rischino di rimanere operazioni isolate, serve lavorare sulla cultura aziendale. Proprio la cultura aziendale, del resto, è il primo ingrediente di ricette come quella di Wyser per favorire l’avanzamento di carriera e l’imprenditoria femminile in Italia. Immediatamente dopo vengono l’adozione di misure che permettano alla donna di bilanciare vita lavorativa e vita privata (l’Italia sarebbe già a buon punto in questo senso con più della metà di realtà lavorative che adottano l’orario flessibile per esempio) e di formule per lo smart working ; il monitoraggio di atteggiamenti virtuosi come la retention delle dipendenti donne e il numero di nuove candidature in rosa che possono suggerire un ambiente di lavoro davvero paritario e la lotta a quei pregiudizi su base di genere che, oltre a rendere macho l’ambiente di lavoro, possono rovinare la reputazione di un brand ; senza contare che, in Italia soprattutto, servirebbero più adeguate misure a favore della maternità per non mettere ancora le professioniste davanti alla scelta tra carriera e famiglia e si potrebbero sfruttare le tecnologie per colmare, finalmente, quel digital gender gap.

Proprio in tema di donne e tecnologia, donne e discipline STEM, da Young Women Network sottolineano come in questi anni si sia fatto molto per avvicinare le giovanissime studentesse delle scuole superiori o universitarie a campi come la scienza, la matematica, l’informatica e tutte le altre discipline tecniche, ma non abbastanza si è fatto altrettanto per le Millennial che si affacciano al mondo del lavoro senza poter contare su eSkill ormai fondamentali come queste. Competenza, del resto, è l’elemento immancabile in tutte le ricette – e sono tante, a volte a rischio di risultare contraddittorie e nel complesso poco utili– per l’empowerment femminile nel mondo del lavoro. C’è, per esempio, quella ancora di Sofia Trevisan che, quando si tratta di arrivare al successo, che si sia dipendenti o libere professioniste poco cambia, ha le idee chiare: non esistono reali differenze tra uomini e donne, bisogna «disobbedire, non ascoltare tutte le voci, guardare i fatti, i numeri, fare marketing, imparare a vendere e circondarsi di collaboratori che siano dei leoni e non delle pecore». Dagli anni di esperienza come consulente e coach aziendale, invece, Chiara Cecutti sembra aver imparato soprattutto che quando si parla di intelligenza emotiva – tra quelle soft skill che, in parte a torto, sono considerate primariamente se non esclusivamente femminili – nella maggior parte dei casi si è portati a pensare che «riguardi solo le emozioni e, invece, riguarda più la capacità di essere assertivi, di guidarsi, di essere fermi rispetto ai propri obiettivi». Oltre che di questo, un’imprenditrice o una lavoratrice donna avrebbe bisogno comunque di «tenacia; ambizione, perché senza è difficile mettere energia in tutto quello che si fa; duro lavoro per ottenere dei risultati e perché, e questo vale tanto per gli uomini quanto per le donne, non si può pensare di raggiungere posizioni apicali o di potere dedicando al lavoro solo poche ore; e ancora impegnodeterminazione; costanza; molta fiducia in se stesse». Se ci si mette in gioco con una propria idea imprenditoriale, del resto, il rischio del fallimento è sempre dietro l’angolo e, tanto per un imprenditore uomo quanto per un’imprenditrice donna, è essenziale imparare a gestirlo.

Ciò può risultare più difficile quando, ed è il caso dell’imprenditoria femminile in Italia, regna un clima di sfiducia generalizzato: nei primi anni della loro carriera, così, «a volte le imprenditrici mollano proprio a causa dell’insicurezza che genera non essere credute e invece basterebbe non solo arrendersi», sottolinea Sofia Trevisan. Peggio, di fronte alle sfide che vengono dal mondo del lavoro, molte donne tendono a trasformarsi in un uomo: lo fanno diventando aggressive, ostentandosi autoritarie ma perdendo forse per questo in autorevolezza, ridimensionando tutti quegli aspetti caratteriali – empatia, capacità di ascolto, maternità, ecc. – che tendono a essere considerati segni di debolezza e prediligendo quelli più mascolini. Si può fare impresa, però, o si può aspirare a una posizione apicale senza trasformarsi – caratterialmente ed esteticamente – in un uomo e, soprattutto, senza scendere a compromessi. Persino l’idea stessa che una donna che lavora, una donna che fa impresa debba puntare al successo a tutti i costi – ricorda Chiara Cecutti – è un’idea stereotipata e prettamente al maschile: «non tutte le donne sono disposte a dedicarsi al lavoro, alcune accettano un part-time, c’è chi vuole meno preoccupazioni e meno pensieri. Non è scritto che ogni donna deve a tutti i costi desiderare una carriera; se lo vuole, però, oggi deve sapere che può».

Perché imprenditrici e lavoratrici donne devono imparare a fare rete

Dove non arrivano la cultura aziendale o le iniziative ad hoc può arrivare il supporto, diretto e quotidiano, che ricevono le lavoratrici donne, a qualunque gradino della loro carriera si trovino. Dalle istituzioni, certo; dall’azienda intesa come organizzazione ma, prima di tutto, è un supporto che deve arrivare dalla famiglia. All’interno di una coppia, e di una coppia con figli in particolare, se l’uomo non si dimostra «evoluto e supportivo» – questi gli aggettivi scelti dalla coach – è difficile che una donna riesca a realizzarsi in quanto tale e a ottenere buoni risultati anche per quanto riguarda l’avanzamento della carriera.

Anche associazioni e punti di ritrovo, fisici o virtuali che siano, a prova di donne lavoratrici, donne imprenditrici giocano oggi un ruolo importante. A volte si tratta di intervenire, con training o programmi di mentorship per esempio, laddove «la giovane donna spesso non ha opportunità di costruirsi un percorso di leadership: non ci sono ancora, infatti, abbastanza donne in posizione apicale in Italia e che possano diventare un role model per le più giovani e per le loro ambizioni», come racconta che la presidentessa di Young Women Network.  Nata sei anni fa è una realtà che offre alle sue associate un calendario di eventi e attività mensili nelle principali città italiane, oltre a un programma di mentoring uno a uno che, affidando ogni giovane a un professionista senior, dovrebbe guidare verso path di carriera e più in generale percorsi di crescita personalizzati e su misura. Soprattutto, però, offre l’opportunità alle sue associate di fare rete. Quello che spesso viene rimproverato all’imprenditoria femminile in Italia e, più in generale, alle lavoratrici donne è l’incapacità di sfruttare i vantaggi che provengono dal networking professionale, vantaggi che a volte consistono nel semplice confronto e scambio di idee e in altri casi sono invece vere e proprie sinergie e collaborazioni. Servono allora «più alternative femminili al calcetto, luoghi non luoghi dove le persone capiscano il vantaggio e l’opportunità di fare squadra. Achieve more together (ottieni di più insieme, ndr) dice, del resto, un proverbio africano, che è poi il nostro motto», sottolineano ancora da YWN. In una buona ricetta per l’empowerment delle donne sul posto di lavoro non può mancare insomma l’ingrediente persone: «quando fai parte di un network, anche professionale che sia, ti crei una rete di amicizie, trovi persone simili a te nei valori e nelle aspirazioni – racconta Claudia Romano, associata di Young Women Network – e non solo ti ritrovi con a disposizione una serie di professionisti, qualificati, che possono darti consigli importanti per la tua vita professionale ma anche privata; confrontandoti sempre con persone migliori di te, sei costantemente portata soprattutto ad alzare l’asticella dei tuoi obiettivi personali».

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