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Innovazione nei musei: quando la tecnologia rinnova l’arte

Innovazione nei musei: best practice e alcuni casi di studio

Fare innovazione nei musei significa anche utilizzare le tecnologie a disposizione, come realtà aumentata, realtà virtuale e intelligenza artificiale.

Non si tratta soltanto di sfruttare le potenzialità offerte dal digitale per migliorare la propria comunicazione e rendere la propria offerta culturale d’appeal anche verso un target più allargato. Quando si parla di innovazione nei musei si fa riferimento a un territorio più vasto, diversificato, che vede i luoghi d’arte sfruttare le tecnologie più moderne per migliorare la fruizione da parte dei visitatori — ossia quella che in altri contesti sarebbe indicata come customer experience — e più in generale rendere coerente, immersivo, aumentato, sensoriale, persino personalizzabile, il loro stesso racconto.

Quando la tecnologia entra nei luoghi d’arte: a cosa fare attenzione

Realtà aumentata, realtà virtuale, chatbot , videogame infatti entrano oggi sempre più spesso all’interno di musei, mostre, luoghi d’esposizione. Non lo fanno solo per rendere un’offerta, come quella legata al patrimonio artistico-culturale di un Paese, che rischia di apparire agèe, competitiva anche davanti ad alternative che – come sottolinea anche un articolo del Guardian sulla realtà aumentata nei musei – provengono di frequente dall’industria dell’intrattenimento. Innovare, quando si ha a che fare con la cultura, significa sempre rinnovare lo spirito dell’oggetto in questione e riscriverne, in una certa misura, portato e significato. Il digitale che entra nei musei e nei luoghi d’arte così, se ben sfruttato, può aumentare tanto il valore concreto del patrimonio in questione, quanto quello percepito dell’esperienza al suo interno. L’innovazione nei musei, come dimostrano alcuni casi diventati di scuola, ha del resto come vantaggi non trascurabili un approccio davvero centrato sul visitatore e i suoi sensi, una dimensione esperienziale molto marcata, spesso anche un livello di comprensione maggiore.

Perché risulti davvero funzionale, però, l’introduzione della tecnologia nei luoghi di cultura dovrebbe essere frutto di una visione strategica: il suo ruolo deve essere quello di avvicinare il fruitore all’oggetto d’arte, per questo non può esserci competizione attentiva tra gli stimoli – si deve evitare, cioè, l’overload di sollecitazioni nei confronti del visitatore – e l’eventuale presenza di dispositivi hi-tech deve essere funzionale all’esperienza di visita, deve aggiungerle qualcosa e non risultare gratuita. Il corollario è che non si può non puntare sulla qualità: la tecnologia nei musei e negli altri luoghi di cultura deve essere invisibile e poco invadente, il che significa – per fare due esempi pratici – che se si usano visori per la realtà aumentata questi non possono rappresentare un intralcio per il visitatore o non possono stancarlo al trasporto e, allo stesso modo, le immagini ricreate in rendering non possono per alcun motivo mostrare pixel o mash.

Se innovare l’arte la rende democratica

Diverse realtà in diversi Paesi hanno trovato comunque la loro via all’innovazione nei musei. Alcune iniziative hanno avuto soprattutto carattere e obiettivi marcatamente filosofici: vincere la paura della soglia. Significa, semplificando molto, rendere più democratica l’esperienza artistico-culturale e convincere anche i target con meno familiarità con questi ambienti a superare pregiudizi e false credenze, come il presunto carattere elitario della cultura, appunto. A questo filone appartengono iniziative come il Google Art Project: grazie alla collaborazione con centinaia di istituti d’arte (c’è il Musée d’Orsay di Parigi, quello di Arte Islamica del Qatar e, per l’Italia, eccellenze come la Reggia di Venaria) e a tecniche di imaging delle più avanzate sono state messe online le opere d’arte di oltre 6mila artisti internazionali; gli internauti le possono vedere da vicino – letteralmente, anche zoomando su particolari e dettagli – esattamente come possono concedersi tour virtuali di intere sezioni di musei.

Uno spirito simile e una visione dell’arte decisamente open source ha animato il Rijksmuseum di Amsterdam: con il Rijkstudio, infatti, le oltre 100mila opere del sito sono state rese disponibili online, su board dichiaratamente ispirate a quelle di Pinterest, e liberamente scaricabili perché gli utenti le trasformassero nel loro, personalissimo, capolavoro (questo il claim dell’iniziativa, ndr).

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Grazie al Rijkstudio del Rijksmuseum, “Still Life with Flowers”, un dipinto del XVII secolo di Jan Davidsz. de Heem è diventato un tatuaggio.

Come coinvolgere chi visita un museo e farlo attraverso le tecnologie

Coinvolgimento, non solo in remoto ma anche e soprattutto durante la visita, sembra essere insomma la parola d’ordine quando si tratta di innovazione nei musei. Chi si occupa di progettare e ottimizzare l’esperienza in store, del resto, lo sa bene: un ambiente piacevole, gli stimoli sensoriali giusti possono aumentare il tempo di permanenza e migliorare la percezione stessa e il ricordo dell’esperienza di marca . Per un museo succede lo stesso: per questo non deve stupire che le nuove tecnologie siano state sfruttate soprattutto da curatori e museologhi per creare ambienti e uno storytelling immersivo. Il Museo Civico di Bolzano per esempio, già nel 2015, ha avviato “Suoni per vedere”, un progetto che ricrea un ambiente sonoro a tutto tondo per migliorare la fruizione e la comprensione di alcune delle opere esposte: otto in totale, appartenenti a epoche diverse dal Medioevo al primo Novecento e con soggetti molto diversi, sono state associate a una traccia sonora tridimensionale che il visitatore può ascoltare in cuffia e solo chiudendo gli occhi e che ricostruisce grazie a canti e inni religioni, rumori della strada, chiacchiericcio, ecc. l’ambiente tipico del tempo in cui è stata realizzata l’opera.

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Al Museo Civico di Bolzano, “Suoni per Vedere” associa una traccia sonora tridimensionale ad alcune delle principali opere.

Se è difficile trovare una correlazione diretta tra iniziative come queste e l’aumento delle visite – e delle entrate quindi – di un museo e di un luogo d’arte, più facile è osservare la scalabilità delle tecnologie impiegate. Non è un caso che, insieme ai grandi musei e in qualche caso forse più di questi, sono state soprattutto le realtà più piccole e con un forte legame col territorio a sperimentare con nuove tecnologie e digitale. Alcune lo hanno fatto provando a sfruttare anche un elemento in più: la gamification.

ChatbotGame è, per esempio, un gioco interattivo che ha provato ad approfittare dell’ondata di bot che hanno invaso app di messaggistica istantanea come Telegram o Messenger per rendere più partecipata la visita di quattro case d’arte milanesi: un personaggio virtuale, con cui comunicare appunto attraverso i chatbot, conduce infatti i visitatori che lo desiderano attraverso un percorso guidato, fatto di indizi, curiosità, piccoli misteri da risolvere per potersi godere davvero la visita al museo.

Il Museo Archeologico Nazionale di Napoli – MANN invece ha rilasciato a marzo 2017 “Father and Son”, un vero e proprio videogioco – in 2D, a scorrimento orizzontale, con missioni da compiere e obiettivi da realizzare a partire da una storyline coinvolgente, quella di un figlio che prova a ricostruire la vita del padre archeologo – che ha come ambientazione proprio le sale del museo e che, nel suo svolgersi, porta l’utente a scoprire meglio le preziose collezioni presenti all’interno, arricchendo così l’esperienza di visita nel caso sia giocato da visitatori reali o facendola vivere in maniera virtuale e vicaria nel caso si tratti invece di persone che non si trovino al MANN.

Quando realtà aumentata e VR entrano nei musei e nei luoghi d’arte…

Un trend difficile da ignorare, quanto a innovazione nei musei, è però soprattutto l’utilizzo di realtà aumentata e realtà virtuale. L’obiettivo degli allestitori – in qualche caso si potrebbe parlare più di veri e propri artisti digitali – è quasi sempre espandere l’esperienza in museo e renderla quanto più coinvolgente, partecipativa possibile, anche se non se ne possono negare, certo, anche le applicazioni pratiche. Ci sono occasioni in cui restaurare un pezzo o prestarlo a una mostra o a una esibizione temporanea rappresentano una chiara perdita per il museo originario in virtù della rilevanza dell’opera o del suo potere attrattivo: offrire la possibilità di osservarlo comunque, grazie a un visore di realtà aumentata da puntare sullo spazio vuoto, per quanto per certi versi distrugga l’aura dell’opera d’arte originale, può risultare una soluzione efficace, soprattutto se contestualmente si offrono al visitatore plus come contenuti aggiuntivi e di approfondimento, la possibilità di avvicinarsi, zoomando, all’opera, ecc. Interessanti esempi di applicazione della realtà aumentata in museo vengono comunque sia dall’Italia che dal panorama internazionale, in parte smentendo dati come quelli dell’Osservatorio Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali secondo cui, nel 2017, erano ancora pochi i musei e i luoghi d’arte nostrani che utilizzavano allestimenti interattivi o ricostruzioni virtuali all’interno del sito (21%) oppure QR e altri servizi di prossimità (14%), per non parlare della possibilità di una visita virtuale o in 3D (13%) o degli esperimenti di gaming (1%).

Il Museum of Celtic Heritage di Hallein, per esempio, ha pensato a un progetto rivolto soprattutto ai visitatori più piccoli: puntando i tablet disponibili nelle sale sugli oggetti della collezione appositamente segnalati appare il celtico parlante, una guida speciale che conduce i più piccoli alla scoperta della civiltà in questione.

Nel parco archeologico corrispondente all’antica fortezza romana di Carnuntum, in Austria, invece, un’applicazione in realtà aumentata permette di scoprire com’era in origine il sito.

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Un’app in realtà aumentata ricostruisce l’aspetto originario del sito romano di Carnuntum.

Un’operazione simile è stata condotta a Roma con “L’Ara com’era”, un progetto temporaneo che sfruttando ricostruzioni in 3D e video virtuali ha permesso ai visitatori di vedere l’aspetto originale dell’Ara Pacis e di assistere persino a un rito sacrificale in Campo Marzio.

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L’Ara com’era è un progetto temporaneo che, grazie alla realtà aumentata, ha fatto riscoprire il vero volto dell’Ara Pacis di Roma.

Quando l’arte e le collezioni di un museo incontrano, invece, la realtà virtuale il risultato è un progetto come quello che al Museo d’Arte Orientale MAO di Torino permette di visitare la Città Proibita di Pechino e di saperne di più sulle antiche dinastie dei Ming.

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Il rendering della Città Proibita di Pechino al MAO di Torino. (c) Lifegate

… e collaborano alla riqualificazione ambientale

Non solo l’innovazione nei musei, però, realtà aumentata e realtà virtuale applicate in campo artistico-culturale possono diventare anche un veicolo per riappropriarsi di spazi urbani abbandonati, periferici, vittime del degrado. Due esperienze tutte italiane rendono bene l’idea.

Il MAUA è un progetto di riqualificazione di periferie urbane milanesi come Giambellino, Lorenteggio, Niguarda, Bovisa e che vive grazie alla collaborazione di street artist e artisti digitali: sono stati selezionati infatti cinquanta murales in giro per la città che se inquadrati con lo smartphone si animano e si trasformano in vere e proprie opere d’arte digitale; segnati su una mappa guidano il turista attraverso un tour inedito di luoghi della città spesso dimenticati.

Con un’app di realtà aumentata e delle immagini in rendering, chi visita i vecchi edifici dell’Italsider di Bagnoli, sulla costa napoletana, può scoprire invece tanto come funzionava lo stabilimento quanto i progetti esistenti ma non ancora realizzati per il suo recupero: è la missione di “Vuoto a rendering”, un progetto di Scienza Nuova che dimostra come si possano riqualificare aree e beni collettivi, partendo dalle tecnologie che si hanno a disposizione e anche con un budget limitato a disposizione.

Decisamente più provocatorio è lo spirito di MoMAR, l’app progettata da un gruppo di artisti indipendenti e che usa ancora una volta la realtà aumentata ma per appropriarsi e remixare, quasi in senso avanguardista, collezioni classiche come quelle del MoMa di New York: a essere stata presa di mira è in particolare la sezione contenente le opere di Pollock, trasposte grazie al digitale e alla creatività degli artisti in questione in immagini con un’estetica molto contemporanea (c’è persino uno smartphone aperto su Instagram).

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MoMAR è l’app che sfrutta la realtà aumentata per appropriarsi e “vandalizzare” le opere di Pollock conservate al MoMA di New York.

Se operazioni come queste prescindono dalla progettualità museale e distruggono, per certi versi, la sacralità stessa di un museo e di un luogo d’arte, gli utilizzi che fin qua sono stati fatti dell’intelligenza artificiale all’interno dei siti artistico-culturali sono invece decisamente più istituzionali e formalizzati. Secondo l’American Alliance of Museums, utilizzare l’AI in museo potrebbe risultare utile per diverse ragioni. Per meglio organizzare cataloghi e collezioni e per cercare continuità e organicità anche tra collezioni di enti diversi, per esempio: per un algoritmo di intelligenza artificiale è oltremodo semplice infatti riconoscere elementi visivi o cromatici ricorrenti, associarli a una corrente o a una espressione artistica e creare così collezioni e cataloghi più coerenti. È quello che ha provato a fare il Norvegian National Museum che sfruttando il machine learning e le reti neurali ha aggiunto meta-dati ai dipinti delle collezioni che potrebbero rivelarsi molto funzionali soprattutto per chi le studia.

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Il Norvegian National Museum ha utilizzato l’intelligenza artificiale per aggiungere meta-dati alla sua collezione e catalogarla meglio.

C’è tutta l’area della logistica e della gestione di un museo, infine, che potrebbe trarre molti vantaggi dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale: dai biglietti d’ingresso alle informazioni pratiche per la visita, la componente artificiale potrebbe sostituire quella umana velocizzando e rendendo più efficienti molti processi. L’AI potrebbe rendere però non solo più pratica ma anche e soprattutto più gradevole l’esperienza di visita di un museo.

Uno dei campi di maggiore sperimentazione sembrerebbe essere, per esempio, quello delle audio-guide e, ancora una volta, l’intelligenza artificiale potrebbe rendere più immersivo e coinvolgente l’ascolto e quindi l’esperienza di visita. La Pinacoteca di San Paolo del Brasile ha collaborato con IBM in questo senso e il risultato è stato “A Voz da Arte”, un progetto che sfrutta intelligenza artificiale e riconoscimento vocale per dare, letteralmente, voce ad alcune opera d’arte selezionate, in grado non solo di parlare e fornire informazioni al visitatore, ma anche e soprattutto di rispondere alle sue domande.

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