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Instant messaging e divulgazione di contenuti riservati: quali tutele?

Instant messaging e divulgazione di contenuti riservati: quali tutele?

Rimedi e responsabilità nell’ambito del dilagante fenomeno della diffusione incontrollata di contenuti riservati.

Ciascuno di noi sa bene come e quanto i sistemi di instant messaging abbiano completamente rivoluzionato il modo di comunicare. Tacendo d’altro, basti pensare al semplice dato per cui i nuovi canali di comunicazione, imperniati su tariffazioni “flat”, offrono possibilità di interazioni pressoché illimitate e a costi praticamente irrisori. Senza dubbio, quindi, siamo in presenza di una vera rivoluzione della comunicazione interpersonale (e di quella di gruppo), giacché è oggi possibile per l’utente raggiungere praticamente qualunque persona del globo, in tempo reale e senza esborsi economici significativi.

Tuttavia, è evidente come ad ogni nuova possibilità possano corrispondere altrettanti rischi derivanti o da un utilizzo dei canali di comunicazione per fini delittuosi o dalla perdita di controllo sui dati che vengono inseriti nei sistemi informatici. Con riferimento alla prima ipotesi si pensi, ad esempio, all’utilizzo da parte dei gruppi terroristici di canali di comunicazione “innocui” e, proprio per questo “insospettabili”, come le chat-room dei videogiochi. Rispetto alla seconda evenienza, invece, basta un rapido sguardo alla recente cronaca nera per avere la misura della pericolosità connaturata ad una diffusione incontrollata di contenuti destinati a rimanere riservati ed invece divulgati abusivamente.

Il caso: la divulgazione sul web di contenuti riservati

Risale a settembre 2016 l’eco mediatica assunta dal caso di una giovane ragazza che, dopo aver girato alcuni video a contenuto erotico destinati ad essere condivisi con una cerchia ristretta o ristrettissima di persone, vedeva gli stessi divulgati sul web, con assoluta impossibilità di arginarne la diffusione data la viralità che in breve tempo gli stessi acquisivano.

L’epilogo della vicenda è il più tragico che possa immaginarsi in quanto la ragazza in questione, dopo aver cercato inutilmente di sottrarsi al ludibrio sia online che nella vita reale, sprofondava in una condizione psicologica di prostrazione e sofferenza tali da condurla al suicidio. La vicenda, oltre ad aver destato molto scalpore nell’immediatezza dei fatti, pone in realtà una questione di grandissima importanza: considerato, infatti, che tra i doveri dello Stato e tra i diritti del Cittadino sicuramente v’è quello alla piena tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), quali sono gli strumenti di tutela che possono essere attivati in ipotesi del genere?

I rimedi civilistici

Cosa accade, quindi, nell’ipotesi in cui determinati contenuti (quale che ne sia la natura) vengano divulgati in maniera eccedente rispetto alle volontà dei soggetti direttamente interessati? In effetti l’ordinamento offre taluni strumenti di tutela, ma occorre verificarne la reale efficacia.

Per quanto attiene ai profili civilistici, ad esempio, sicuramente è possibile richiedere al Tribunale l’adozione di un provvedimento di rimozione dei contenuti disponibili sul web, sia con gli strumenti specifici previsti dal cd. “codice della privacy” (D. Lgs 196/2003) ove venga in rilievo un trattamento dei dati personali non autorizzato, sia con i rimedi di carattere generale assicurati dal codice di procedura civile (provvedimenti d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c.) a tutela del proprio diritto alla immagine e alla riservatezza. Del pari, sicuramente sarà possibile agire nei confronti dei responsabili (se individuati) per ottenere il risarcimento del danno, sia patrimoniale che non patrimoniale causato.

Della effettiva efficacia di tali strumenti, tuttavia, è lecito dubitare. Con riferimento infatti ai rimedi di tipo “inibitorio”, basta infatti anche base una semplice considerazione di ordine logico-pratico: pretendere di estirpare tutte le copie di un contenuto dal web è impresa pressappoco simile a quella di chi volesse recuperare le particelle d’acqua contenute in un bicchiere versato nell’oceano. Rispetto alla tutela risarcitoria, poi, è chiaro che essa non soddisfa del tutto le necessità della vittima della divulgazione la quale – ragionevolmente – non si contenterà della acquisizione di una somma di danaro, avendo interesse alla effettiva rimozione del pregiudizio o almeno ad arginare la sua diffusione.

La tutela penale

Occorrerebbe, quindi, una tutela ben più stringente, ovverosia una tutela penalistica. La norma penale, infatti, attraverso la minaccia di una sanzione (pecuniaria o privativa della libertà personale) dovrebbe rappresentare lo strumento più efficace per prevenire la realizzazione di condotte lesive di interessi avvertiti come particolarmente importanti in un determinato momento storico. E tuttavia – sebbene ciò possa apparire strano –  condotte quali quelle prese qui in esame non appaiono essere sanzionate (direttamente) dalla legislazione penale.

Certo, l’ordinamento positivo risulta essere all’avanguardia per quanto riguarda il trattamento dei dati personali contro il consenso del titolare, prevedendo per questa ipotesi anche delle sanzioni penali. Tuttavia questi strumenti non sembrano applicabili al caso della divulgazione a terzi di video da parte di un soggetto che lecitamente ne ha la disponibilità. Il diritto penale, infatti, è retto dal principio di tassatività delle fattispecie e, quindi, non è possibile applicare delle norme incriminatrici a situazioni significativamente diverse da quelle per cui esse sono state dettate (cd. divieto di analogia): nel caso di specie, infatti, piuttosto forzoso sarebbe affermare che ci si trova in presenza di un trattamento dei dati personali.

Anche altre norme incriminatrici, come l’art. 615 bis c.p. che incrimina le “interferenze illecite nella vita privata”, non sembra possa operare rispetto al caso di specie, prendendo in esame solo le immagini e video che rappresentano scene di vita che avvengono nei luoghi di privata dimora. Parimenti non paiono invocabili le norme poste a tutela della riservatezza della corrispondenza (artt. 616 e ss. c.p.), che incriminano sì la divulgazione, ma solo del soggetto che abbia acquisito illecitamente conoscenza dei contenuti in questione, mentre il problema che qui viene in rilievo è esattamente quello opposto, ossia dell’invio spontaneo dell’autore ad un suo conoscente e della divulgazione abusiva ad opera di questi.

In via del tutto residuale si potrebbe far ricorso alla fattispecie di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione), ma certo si tratterebbe di un utilizzo improprio giacché è chiaro che il profilo di lesione dell’onore non deriverebbe direttamente dalla condotta dell’agente (come richiede la norma incriminatrice) ma tutt’al più dai contenuti materiale veicolato.

Siamo dunque costretti a concludere che, in questo caso, non esiste una fattispecie delittuosa che incrimini in maniera puntuale ed effettiva una condotta sicuramente odiosa quale quella di divulgare a terzi materiale “confidenziale”, anche tenuto conto degli esiti addirittura infausti che tali divulgazioni possono determinare.

Una ipotesi diversa: l’attacco hacker

Occorre precisare, tuttavia, che la prospettiva fin qui delineata cambia radicalmente nel caso in cui la divulgazione di notizie e contenuti personali avvenga sulla base di un procacciamento illecito da parte del soggetto che li carica in rete. Si pensi al caso, verificatosi anch’esso nel settembre del 2016, ai danni di una nota giornalista di un canale satellitare sportivo, di un attacco hacker ai propri account cloud. In questa ipotesi, infatti, la tutela penale risulterà stringente. Sicuramente, infatti, il responsabile dell’attacco risponderà del delitto diaccesso abusivo ad un sistema informatico” (art. 615 ter c.p.), ovverosia di un reato che prevede pene fino a tre anni.

A ciò si aggiunga che anche coloro i quali invieranno, scaricheranno o visioneranno (purché chiaramente in maniera non accidentale) i contenuti in questione potranno essere chiamati a rispondere del delitto di ricettazione (art. 648 c.p.), cioè di un reato che prevede pene molto alte, addirittura fino a otto anni di reclusione.

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