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Investimenti pubblicitari in radio: una panoramica tra vantaggi e criticità

Investimenti pubblicitari in radio: una panoramica tra vantaggi e criticità

Gli investimenti pubblicitari in radio non diminuiscono nonostante crisi e varietà di opzioni per le aziende. Ecco vantaggi e criticità.

In molti l’avevano data per morta con il diffondersi del medium televisivo e ancora di più sono quelli che credevano si sarebbe “estinta” a seguito del successo delle piattaforme per lo streaming musicale come Spotify. Eppure la radio continua imperterrita a sopravvivere nell’universo mediatico, rediviva proprio come il “Revenant” del regista premio Oscar Inarritu. Tanto che oggi non è solo il medium più longevo (nel 2001 compì in Italia cento anni, ma ci sono posti come gli Stati Uniti in cui la parabola del mezzo radiofonico è da datare ancora più in là nel tempo, ndr): grazie al suo cuore “romantico” è riuscita a rimediare se stessa e riconfigurarsi nell’affollato panorama dei media digitali e sia i dati sugli ascolti sia quelli sugli investimenti pubblicitari in radio fanno ben sperare.

Perché gli italiani amano la radio: questioni di contenuti e non solo

Secondo “Come afferrare Proteo”, la prima ricerca di base sulla radiofonia in Italia condotta da GFK-Eurisko e Ipsos, per esempio, nel 2015 la radio era ascoltata ogni giorno da circa 35 milioni di utenti, principalmente giovani, che la ritenevano il mezzo più credibile (era così per il 54% del campione), prima addirittura della stampa (considerata credibile solo dal 50% del campione) e della TV (49%). Il 14° Rapporto Censis sulla comunicazione sembra tracciare, a due anni di distanza, uno scenario simile: la radio ha ancora una percentuale di penetrazione che supera abbondantemente l’80%  della popolazione italiana ed è, dopo la TV, il “vecchio” medium che sopravvive meglio.

Il merito è da attribuire soprattutto agli addetti ai lavori, intendendo in questo senso non solo speaker e personaggi famosi ma anche il vastissimo dietro le quinte fatto di tecnici, registi, autori, redattori che lavorano al di là del vetro di regia e senza i quali sarebbe stato impossibile fare della radio un mezzo davvero all’avanguardia e al passo con i tempi. Non c’è da stupirsi, insomma, se esistono ancora molte opportunità per chi vuole lavorare in radio. Anzi, per affrontare al meglio quella digital disruption che ha investito in questi anni anche la radiofonia, sembrano indispensabili figure professionali nuove, che abbiano una formazione ad hoc. Sono professionisti del digitale, per esempio, come il social media manager o il community manager, che si occupino di far conoscere la programmazione e il palinsesto delle radio anche negli ambienti 2.0, tra le community digitali più affini al proprio target specifico o che provino a massimizzare l’ engagement e la partecipazione degli ascoltatori, non solo “in diretta” in una sorta di second screen tutto sui generis ma anche, una volta finito il programma, nella convinzione che una percentuale sempre più alta di ascoltatori (il 14% secondo un vecchio studio di GFK, ma come mostrano i dati sulle radio italiane il tasso sarebbe molto aumentato negli ultimi anni, ndr) interviene sulle pagine e interagisce ormai con i canali social delle stazioni e dei programmi radiofonici.

Non si possono ignorare comunque le profonde trasformazioni che il digitale ha imposto anche per quanto riguarda i contenuti radiofonici: è aumentata, innanzitutto, sensibilmente la qualità del segnale audio; la transizione verso il segnale digitale DAB+ (Digital Audio Broadcasting, ndr) sta ampliando gli spazi di trasmissione e, di conseguenza, favorendo la nascita di nuove emittenti;  tutto senza contare le infinite possibilità rappresentate da web radio e podcast .

Investimenti pubblicitari in radio: i numeri del successo

In questo panorama anche i dati riguardanti gli investimenti pubblicitari in radio appaiono interessanti, tanto più che, secondo alcune rilevazioni, rappresentano ancora la maggiore fonte di ricavi per buona parte delle emittenti. Nel 2014, per esempio, la radio advertising incideva del 54% sul valore totale del settore e del 74% sui soli ricavi diretti. In un mercato pubblicitario sempre più complesso e diversificato, può stupire notare comunque come, di fronte a una complessiva contrazione generale degli investimenti, la spesa in pubblicità radio abbia subito una riduzione solo parziale e comunque inferiore alle previsioni e a quella vissuta da altri media. Tradotto? Significa che, secondo i dati sul fatturato pubblicitario di agosto 2017 di Fcp-Assoradio, in quel mese sono stati spesi per gli investimenti pubblicitari in radio un totale di oltre 12milioni di euro, con una contrazione di appena lo 0.3% rispetto allo scorso anno. In altre parole? Quello della pubblicità in radio è un settore essenzialmente stabile e che, anzi, ha mostrato negli ultimi anni una crescita, seppur lieve (del 3.2% rispetto al 2016 e di un totale del 6.7% rispetto invece al 2015, ndr).

Perché funziona la pubblicità in radio?

A chi sono da attribuire però i maggiori investimenti pubblicitari in radio, almeno in Italia? Ci sono settori che, tradizionalmente, investono più di altri in questo campo: negli ultimi anni, per esempio, i soggetti che operano nella distribuzione , chi offre servizi per le abitazioni, chi si occupa di finanza e assicurazioni e tutta la filiera dell’automobilistico sembra puntare soprattutto sulla radio advertising. Le ragioni sono molteplici. Hanno a che vedere, per esempio, con la maggiore economicità degli spazi radiofonici rispetto a quelli televisivi: a un livello zero, a parità di budget , le tabelle radiofoniche offrono più passaggi e, di conseguenza, una probabilità maggiore di esposizione al messaggio.

Uno studio di Radiocenter ha provato a dimostrare, in questo senso, come la pubblicità in radio sia più redditizia di quella televisiva, pare di almeno il 20%. Lo ha fatto comparando gli effetti sugli utenti del mandare in onda due TV advertising o una TV ad e due radio ad. Nel secondo caso, quando l’investimento era stato maggiore in radio, ne era risultata aumentata di circa il 6% anche la probabilità che i consumatori prendessero in considerazione il brand (lo studio indagava, infatti, sulle associazioni mentali che venivano fatte a partire dall’annuncio pubblicitario e sulla “share of mind” riferibile al brand dopo l’esposizione allo stesso, ndr): considerando che in media le tabelle radio sono del 15% meno costose rispetto a quelle televisive, ne risulta appunto una maggiore convenienza degli investimenti pubblicitari in radio. Perché funziona davvero però la radio advertising e come? Numerosi studi, sull’uso della musica in store, per esempio, hanno sottolineato la capacità degli stimoli sonori di facilitare il rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore responsabile del buon umore, e di attivare il sistema limbico e quello della ricompensa.

Ciò che viene passato in radio potrebbe aver lo stesso effetto: non a caso sorpresa e gioia sono, secondo una ricerca condotta dal Neuromarketing, Behavior and Brain Lab dell’Università IULM di Milano e riportata da “Advertiser”, le reazioni all’ascolto di un contenuto radiofonico più frequenti, mentre imbattersi in un contenuto televisivo o sul web stimola risposte che hanno a che vedere soprattutto con la componente della concentrazione. Se riferiti a contenuti di tipo pubblicitario, risultati come questi spiegano bene perché la scelta migliore per un brand sia sempre investire in un media mix composito, che garantisca risultati ottimali quanto ad attenzione, interesse, ricordo. Media mix in cui anche la radio, appunto, è irrinunciabile.

Quale futuro per gli investimenti pubblicitari in radio?

Diverso è chiedersi, invece, se i brand abbiano saputo ben sfruttare fin qui gli investimenti pubblicitari in radio. In questo senso il digitale potrebbe aver contribuito  a confondere le acque, almeno stando a chi sostiene che sarebbe in realtà scorretto parlare di semplici investimenti in radio advertising e sarebbe più significativo invece guardare ormai a come si investe in audio advertising. La considerazione più preoccupante è che, come sottolineano da “eMarketer”, la maggior parte dei brand che investono in pubblicità audio non è consapevole per esempio della grande differenza che pure esiste tra le piattaforme e i servizi di streaming musicale, inoltre qualcuno sembra essere ignaro addirittura della distanza che passa tra chi ascolta la radio nella maniera più tradizionale (in FM, ecc.) e chi invece lo fa da digitale. Un errore strategico non di poco conto se si considera che i dati di ascolto sono essenziali se si vuole profilare al meglio l’utente di riferimento.

Quello che spesso si sottovaluta, insomma, è la capacità potenziale della radio di parlare a un target molto ben definito quanto a collocazione geografica, appartenenza socio-demografica, abitudini di consumo, ecc. La strategia migliore allora? Sarebbe cominciare a pensare all’universo radio come un sistema unico e integrato, a cui destinare un budget preciso, meglio se ridistribuito per progetti e su canali più adeguati agli obiettivi specifici di ogni propria campagna. Gli investimenti pubblicitari in radio, in termini più concreti, potrebbero diventare presto investimenti in contenuti branded da distribuire su piattaforme come Spotify o Pandora, per esempio, oppure utilizzati nel caso di particolari partnership con gli stessi player.

Lo scenario radiofonico italiano tra immobilismo e sperimentazioni

Il ritardo in questo senso è da attribuire, in alcuni casi, a una sorta di miopia generalizzata da parte degli editori a cui sembrano interessare quasi esclusivamente i numeri del mercato radiofonico. È facile capire, però, perché finché la pubblicità verrà venduta sulla base del numero di ascolti e non in base alla qualità degli ascoltatori, il panorama radiofonico è destinato a restare invariato. Tanto più se si considera che il panorama delle radio italiane è molto concentrato: ci sono poche radio come RTL 102.5, Radio 105, RDS, Radio Deejay, pienamente generaliste e che, in virtù del loro posizionamento, dominano anche quanto a raccolta pubblicitaria. L’errore è cercare di imitarle per eguagliarne gli numeri: meglio rivolgersi alle nicchie, puntando a farsi scegliere sulla base della proposta musicale, del taglio editoriale, di un format radiofonico innovativo addirittura. Una scelta di questo tipo potrebbe premiare anche dal punto di vista degli investimenti pubblicitari in radio, appunto. Specializzandosi in una nicchia di pubblico si riuscirebbero a vendere, infatti, spazi pubblicitari a brand più interessati e più in linea con il proprio posizionamento, indirizzandosi verso un pubblico più mirato, fidelizzato, appassionato o propenso all’acquisto (si pensi, per esempio, ai clienti di un supermercato, un negozio di prossimità o di catena che abbia optato per avere una brand radio, ndr) e, quindi, potendo fissare anche un prezzo più alto.

Esempi virtuosi sono, in Italia, Radio24 o M2o, due radio che – sebbene in maniera diametralmente opposta – hanno scelto di puntare alla qualità e all’unicità. La prima offre un format quasi unico in Italia: la radio di parola o meglio la radio all news, fatta di niente musica e solo informazione. La seconda è salita sul podio di miglior radio dance italiana, considerato anche il deserto dell’offerta in questo senso, unendo qualità e innovazione . Si tratta comunque di due eccezioni in un panorama che invece tende ancora, purtroppo, a massificare l’offerta del mercato radiofonico… a suo discapito.

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