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Kid influencer: chi sono e perché coinvolgerli in una strategia di marketing

Kid influencer: chi sono? I migliori esempi

Chi sono i kid influencer e perché coinvolgerli nella propria strategia di influencer marketing? Qualche esempio che ha fatto scuola.

Da un lato c’è il Kids Digital Advertising Report 2017 secondo cui il mercato pubblicitario rivolto principalmente a un target infantile cresce di almeno il 25% ogni anno. Dall’altro, classifiche come quella di Forbes sugli youtuber meglio pagati del 2017 vedono tra i membri più giovani – e più seguiti, con un’entrata stimata di 11 milioni di dollari all’anno – un ragazzino di scuola elementare che recensisce giocattoli. Incrociati, dati come questi dicono qualcosa su come il fenomeno dei kid influencer non sia più tanto un fenomeno, quanto frutto di studi e analisi strategici e a lungo termine da parte di aziende e altri soggetti business.

I kid influencer sono la naturale evoluzione del mercato pubblicitario per bambini?

Nonostante i limiti d’età previsti dalle diverse piattaforme, del resto, non si può continuare a ignorare il gran numero di bambini e under 14 che frequentano gli ambienti digitali.

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Sono giovanissimi appartenenti alla cosiddetta generazione alpha , che non hanno mai conosciuto un mondo senza social, strumenti e piattaforme digitali – Facebook ha appena compiuto del resto 15 anni, loro di anni ne hanno dieci, se non di meno – e che ai classici cartoni in TV preferiscono i canali dedicati di YouTube Kids e sanno benissimo come inviare uno snap o iniziare a seguire su Instagram i loro beniamini. Certo sono i piccoli di casa che non comprano ancora, si potrebbe obiettare. Eppure decidono: ci sono consumi tipici di una famiglia – alimentari ovviamente, ma anche che riguardano vestiti, giocattoli, intrattenimento e leisure per esempio – in cui l’ultima parola, anche se non sono poi loro per ovvie ragioni gli acquirenti diretti, è proprio dei bambini. Non stupisce, allora, che aziende di molti settori come questi provino oggi strategie di influencer marketing a prova di bambini. In questa prospettiva, però, baby e kid influencer e i brand che collaborano con loro non hanno inventato nulla: sono solo la naturale evoluzione di un mercato pubblicitario, quello per bambini appunto, che è sempre esistito e si è solo adattato a bisogni, espliciti o meno, del suo target di riferimento. Non si possono ignorare, del resto, studi e ricerche su generazione Alpha e tecnologia che hanno mostrato chiaramente, tra le altre cose, come un 12% – in crescita – di bambini ammetta di fidarsi e lasciarsi guidare dagli influencer conosciuti in Rete.

Baby e kid influencer: un ritratto

È spontaneo, a questo punto, chiedersi chi siano i kid influencer e quale sia la ricetta del loro successo. Se anche il pensiero dovesse correre subito ai figli delle star, come il piccolo Leone Ferragni, che prima ancora di nascere aveva fatto innamorare e ispirato brand di praticamente qualsiasi settore, o l’ultima arrivata in casa Kardashian, certamente tra i pochi a poter vantare un baby shower firmato Amazon, non è di questo che si sta parlando.

Come per gli influencer adulti e per adulti, infatti, non è tanto la notorietà in sé che conta: contano il poter fare affidamento su una community ampia e affezionata e la capacità di coinvolgere attivamente la propria audience; obiettivi, soprattutto l’ultimo, tanto più facili da raggiungere quanto più ci si riesce a mostrare con un volto acqua e sapone e nella propria quotidianità. Tradotto significa che i piccoli influencer, per semplificare, hanno successo perché, proprio come un bambino qualsiasi, non amano le verdure, non escono di casa senza il peluche preferito, fanno i capricci per cosa indossare e lo fanno davvero (o quasi).

Esempi e campagne (riuscite) di kid influencer marketing

Taytum e Oakley Fisher, due gemelle identiche da quasi due milioni e mezzo di follower , le si vede su Instagram pasticciare e sporcarsi con un gelato, giocare alla cerimonia del tè, rubare fard e rossetti dal bagno dei grandi: niente che non farebbe qualsiasi bambina della loro età, eppure tutto forse un po’ troppo patinato, studiato nei singoli dettagli, dall’estetica alla palette di colori e al tono di voce delle didascalie.

Niente di troppo diverso da quello che succede con Tianna di ToysandMe: youtuber e kid influencer da quando di anni ne aveva sette, non solo recensisce giocattoli sul suo canale, ma ha ormai una strategia ben precisa che prevede, per esempio, che i giocattoli che riceve dalle aziende vengano poi donati in beneficenza.

Esempi e casi di scuola potrebbero continuare a lungo: ci sono Stella e Blaise, sorella e fratello dalla capigliatura afro, va da sé sempre perfetta, che ha fatto innamorare Instagram, o le ClementsTwins già corteggiate dai brand di moda e non solo per piccoli.

Numerosi brand, da Heinz ad Ava, hanno scoperto in questi anni il potere di baby e kid influencer quando si tratta di acquisti in formato famiglia. C’è un universo quasi a sé, poi, che è quello dei piccoli youtuber che provano e recensiscono videogiochi – gli appassionati non possono non aver sentito parlare per esempio di EthanGamerTV o della Gamer Girl, con all’attivo rispettivamente 1,4 e 2 milioni di iscritti – e che non di rado hanno stretto collaborazioni con gli sviluppatori di cult come Minecraft o Roblox.

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Persino Disney, quando si è trattato di promuovere il nuovo merchandising di viaggio ispirato alle principesse, ha scelto Emily Tube: grazie ai 4.5 milioni e passa di iscritti sul canale YouTube e a un video in cui lei stessa veniva trasformata in una vera principessa, si stima che i nuovi prodotti della casa siano stati visti milioni di volte, da milioni di possibili piccoli clienti diversi.

Senza scendere nel dettaglio di cifre che quando si tratta di influencer marketing sono sempre incerte, del resto, anche quello dei kid influencer è un business a svariati zeri e le tariffe per post o per singolo contenuto condiviso possono essere anche molto alte.

Qualche considerazione e i pro e i contro del kid influencer marketing

Anche quando si tratta di influencer bambini spontaneità e autenticità sono, come si accennava, frutto di una strategia ben costruita e di una studiata strategia di contenuti. Ciò significa da un lato che, anche a prescindere dai limiti di età imposti dalle piattaforme, non ci può non essere un adulto – qualche volta un vero professionista, nella maggior parte dei casi i genitori – a gestire profili e presenza digitale dei kid influencer. C’è anzi chi sostiene che se ci sono oggi tanti baby e kid influencer è perché aumenta il numero di mamme e papà Millennial, la prima generazione di consumatori per cui le componenti fiducia e immedesimazione sono essenziali per le scelte di acquisto e che trovano normale, di conseguenza, che i propri bambini possano trasformarsi in micro-influencer o fonti di ispirazione per gli altri. Più in generale, questa autenticità costruita e strategica di cui si è detto non può che avere a che vedere con il target di riferimento: quando si parla con i bambini, infatti, non si può non fare ricorso a uno storytelling emozionale, coinvolgente, che incanti e in cui sia possibile riconoscersi fino al punto di rispondere appunto alla chiamata all’azione. Sbaglia, del resto, chi considera ancora ingenui e creduloni i più piccoli: anche se non sono loro a fare gli acquisti, i bambini sanno quello che vogliono e quello che vogliono è in genere legato a un immaginario, un universo di senso in cui si riconoscono. Tanto più che, come sottolinea AdWeek, quando un brand decide di collaborare con un kid influencer non lo fa solo per parlare alla fetta anagraficamente più piccola del suo target. Coinvolgendoli, facendosi amare dai bambini il brand arriva, infatti, in primis alla famiglia e ai membri effettivamente responsabili degli acquisti. Soprattutto, però, arriva al consumatore grande che sarà, in futuro, il bambino di oggi: in altre parole, una (buona) strategia di kid influencer marketing può essere a lungo termine una strategia di fidelizzazione del cliente.

Ci sono dei rischi in questo? I più critici tendono a sottolineare quelli legati alla sovraesposizione degli influencer bambini, sovraesposizione che potrebbe farsi in qualche caso addirittura dipendenza e che, comunque, si traduce in una perdita di privacy e riservatezza. In America, dove il fenomeno ha già dimensioni consistenti, si invitano aziende e brand che vogliano integrare il kid influencer marketing nelle loro strategie ad assicurarsi che siano rispettate normative ad hoc come il COPPA (Children’s Online Privacy Protection Act).

Più in generale vale la buona pratica della trasparenza: usare opportunamente gli hashtag #adv o #sponsored per segnalare un contenuto sponsorizzato o realizzato in partnership con un brand potrebbe sembrare un gesto di poco conto, ma è una tripla tutela, per tutti i soggetti coinvolti, da commenti negativi o pressioni non così poco comuni negli ambienti digitali.

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