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Kim Kardashian "congela" i propri account Facebook e Instagram per dire no a hate speech e disinformazione (e non è la sola tra i vip)

kim kardashian congela account Facebook e Instagram

Il continuo dilagare di odio, propaganda e disinformazione sulle piattaforme digitali è, a detta della star, il motivo del gesto simbolico. Tanti gli altri personaggi famosi che hanno boicottato Facebook per un giorno, unendosi al coro di chi chiede più responsabilità a Zuckerberg.

Kim Kardashian congela gli account Facebook e Instagram per un giorno e lo fa in segno di protesta contro «odio, propaganda e disinformazione» che continuano a circolare sulle piattaforme di casa Zuckerberg.

«Amo poter stare in contatto con voi direttamente», ha twittato la showgirl ai propri fan, «ma non posso starmene seduta e in silenzio. […] La disinformazione sui social media ha un serio impatto sulle nostre elezioni e mina la nostra democrazia». L’assenza dai social di Menlo Park, anche in virtù della brevissima durata, è stata naturalmente un gesto più che altro simbolico. Quelle del presunto immediato calo del 2% del titolo in borsa di Facebook sono solo voci ma, commenta Axio, con i suoi oltre 188 milioni di follower su Instagram e 30 milioni di seguaci su Facebook (a settembre 2020), se Kim Kardashian congela gli account Facebook e Instagram anche solo per ventiquattrore c’è molta probabilità che il risultato per Facebook sia un vero e proprio «disastro in termini di PR». Tanto più che a sparire dai social per un giorno non è stata solo la socialite: da Leonardo Di Caprio a Jennifer Lawrence, passando per Ashton Kutcher, Katy Perry e Sacha Baron Cohen, tante star hanno aderito allo sciopero di ventiquattro ore da Facebook e Instagram congelando i propri profili.

Kim Kardashian congela account Facebook e Instagram? Dietro c’è (ancora) la campagna #StopHateForProfits

Questo boicottaggio è, del resto, il secondo atto di #StopHateForProfit, una campagna con cui già a luglio 2020, dopo l’uccisione di George Floyd e le proteste di piazza del movimento Black Lives Matter che ne erano seguite, no profit e attivisti per i diritti civili avevano provato ad accendere i riflettori sulla responsabilità di piattaforme digitali e loro gestori rispetto alla diffusione di una cultura dell’odio e dell’intolleranza. A essere coinvolti erano stati in un primo momento soprattutto grandi brand come The North Face, Patagonia, Coca-Cola che hanno bloccato per un mese gli investimenti in social advertising sulle piattaforme di casa Zuckerberg, ma – ora è più facile dirlo – senza davvero intaccarne le entrate se è vero che, come riporta tra gli altri The Verge, la revenue di Facebook è continuata a crescere durante l’ultimo trimestre in percentuali del tutto paragonabili a quelle del secondo trimestre 2020.

Coinvolgere vip e personaggi famosi sembra essere stato, insomma, per gli attivisti di Stop Hate For Profit un modo per dare maggiore visibilità alla propria campagna e, va da sé, ai suoi obiettivi. Gli ambienti digitali e più ancora meccanismi e bias che vigono al loro interno rischiano di promuovere una cultura suprematista bianca – è questo uno degli argomenti più forti di chi sostiene la necessità di boicottare Facebook e altre piattaforme simili – e di avallare troppo facilmente hate speech , linguaggio offensivo e veri e propri abusi nei confronti di particolari gruppi di utenti (appartenenti a minorante etnico-religiose, alla community LGTBQ+ e via di questo passo). Anche dopo l’incontro di Mark Zuckerberg con chi ha deciso di boicottare la pubblicità su Facebook, avvenuto già a metà luglio 2020, poco sembra essere cambiato nei fatti.

Facebook ha bloccato ads di Trump contenenti dei simboli nazisti, per esempio, ed è andato avanti nella propria strategia di creazione di hub informativi (come il COVID-19 Information Center, il Voting Information Center o, ultimo arrivato in ordine di tempo, il Climate Science Hub ) che dovrebbero aiutare gli utenti a schivare fake news e disinformazione sui temi di maggiore attualità o, ancora, ha cancellato circa 800 gruppi Facebook riconducibili ai complottisti di QAnon. In direzione diametralmente opposta vanno, però, la ritrosia di Facebook a bloccare una pagina e un evento che incitavano all’uso della violenza armata durante delle proteste in Wisconsin e la testimonianza, fornita a BuzzFeed, di un whistleblower, ex dipendente di Menlo Park, su come sviluppatori e moderatori di Facebook sono da sempre «troppo lenti nell’agire» contro disinformazione e fake news.

Perché è prioritario chiedere ai gestori delle piattaforme più responsabilità contro odio e disinformazione

Atteggiamenti, a più riprese e da più parti definiti lassisti, da parte dei big del social networking che non sembrano più accettabili, tanto più se si considera il perdurare dell’emergenza sanitaria e la parallela infodemia di disinformazione e fake news sul coronavirus  e, ancora di più, l’avvicinarsi di una fase clou della campagna elettorale per le presidenziali americane del prossimo 3 novembre 2020, campagna elettorale che ha già visto toni accesi ed episodi controversi. Dopo che anche Kim Kardashian congela gli account Facebook e Instagram, e dopo cioè aver coinvolto numerosi vip nel boicottaggio delle piattaforme digitali, così Stop Hate for Profit ha ora pronte varie richieste di cambiamento non più rimandabili per i gestori delle piattaforme. Sono richieste che vanno dal sottoporre i dati a propria disposizione su linguaggio dell’odio e disinformazione anche all’attenzione di soggetti terzi e competenti in materia – e renderli pubblicamente consultabili – al creare un meccanismo che automaticamente etichetti come tali i contenuti offensivi e discriminatori all’interno dei gruppi e riesca a identificare e chiudere in poco tempo gruppi pubblici e privati in cui predominano atteggiamenti razzisti, suprematisti o violenti.

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