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Arriva in Francia la prima legge per baby influencer europea (ed è un buon primo passo)

Arriva in Francia la prima legge per baby influencer europea (ed è un buon primo passo)

In discussione dal 2019, nelle scorse settimane è stata votata all'unanimità dall'Assemblea Nazionale ed è entrata in vigore in Francia. Con le sue previsioni (su orario di lavoro, retribuzione, possibilità di esercizio del diritto all'oblio) è, però, un precedente significativo in materia di kid influencer marketing.

È la Francia il primo paese europeo a dotarsi di una legge per baby influencer che inquadri meglio, da un punto di vista normativo pure, la presenza dei minori negli ambienti digitali e sulle piattaforme social quando la stessa sia finalizzata al guadagno economico o abbia tempi e modalità di un’occupazione lavorativa. La voce kid influencer rappresenta, del resto, già da tempo una fetta importante del mercato dell’influencer marketing: basti pensare che un solo youtuber, Ryan Kaji, guadagnerebbe in un anno oltre 17 milioni di dollari, entrando di diritto nella classifica di Forbes delle persone meglio pagate al mondo. Fin qui è stata però anche una delle numerose aree grigie e di più difficile intervento normativo, soprattutto se si escludono i tentativi di autoregolamentazione dei diversi attori del settore.

Cosa dice la legge per baby influencer francese

In discussione dal 2019, come racconta tra gli altri Le Monde, il disegno di legge per baby influencer era stato presentato da Bruno Studer, deputato di En Marche. Il voto all’unanimità dell’Assemblea Nazionale è arrivato nella seconda metà di ottobre 2020 e la legge – rubricata, in maniera piuttosto esplicativa, “sfruttamento commerciale dell’immagine dei minori di sedici anni sulle piattaforme online” – è ora pubblicata in gazzetta ufficiale.

Cosa cambia per i piccoli influencer e – soprattutto – per i loro genitori? I kid influencer e più in generale i bambini che collaborano con aziende e altri soggetti commerciali nella realizzazione di campagne e contenuti per la Rete avranno innanzitutto limiti per quanto riguarda gli orari di lavoro e la via scelta sembra essere quella di compararne le attività a quelle di bambini attori e modelli. Ai genitori è fatto obbligo di versare i guadagni ottenuti tramite le attività online dei propri figli su conti a loro intestati che possono rimanere congelati fino al compimento del sedicesimo anno di età. Ancora, la nuova legge per i baby influencer francesi impone alle aziende che vogliano coinvolgere minori di sedici anni nelle proprie campagne di influencer marketing di chiedere esplicita autorizzazione alle autorità locali. La norma prova però soprattutto ad anticipare – e facilitare nella soluzione – quella che fin qui è stata una vexata quaestio al centro di numerose vicende legali e non solo in Europa: cosa succede quando, una volta cresciuto, l’ex baby influencer voglia affrancarsi dalle attività svolte da piccolo in Rete? Grazie alle nuove disposizioni, dovrebbe essergli più facile esercitare in prima persona il diritto all’oblio, anche per via dell’obbligo alle piattaforme di rimuovere in poco tempo i contenuti oggetto della richiesta.

Influencer bambini: una (complessa) questione dalle responsabilità condivise

Previsioni come l’ultima accendono i riflettori su quanto la questione kid influencer sia complessa, come lo sono sempre del resto le questioni che riguardano bambini e Rete.

Di chi è il compito per esempio di tutelare la privacy del minore o il suo diritto all’immagine – che è, a guardare bene, l’elemento che più viene sfruttato quando i bambini diventano il volto di un’azienda o di un prodotto – e, ancora, che succede se una volta cresciuto il bambino reputa le attività fatte online da piccolo e su spinta dei propri genitori come lesive della propria reputazione? Fin qui domande come queste sono state perlopiù oggetto di pronunce da parte di corti e magistrature. Pochi sono invece, anche fuori dall’Europa, i paesi che si sono già dotati di una legge per baby influencer. Il vero precedente storico rimane, così, come sottolinea tra gli altri The Guardian, la “Coogan Law“, una legge californiana, risalente in realtà alla fine degli anni Trenta, che prevede che il 15% dei ricavi nei casi in cui i minori siano impiegati nell’industria dell’intrattenimento sia depositato in un fondo fiduciario e la cui efficacia è stata estesa, nel 2018, con un atto dell’Assemblea anche ai bambini coinvolti in campagne di social media advertising. In Italia gli unici riferimenti normativi sulla questione rimangono invece quelli che regolano l’accesso dei minori ad attività lavorative di carattere culturale, educativo, sportivo, d’intrattenimento sotto stretti limiti per quanto riguarda l’integrità psicofisica del minore, il rispetto dell’obbligo di frequenza scolastica e via di questo passo.

Parte della difficoltà a inquadrare – e normare – il fenomeno influencer bambini deriva comunque anche da come gli stessi genitori lo interpretano. Qualcuno si rivolge a intermediari e agenzie specializzate, convinto di seminare in questo modo per il futuro – economico almeno, se non anche professionale – dei propri figli. La maggior parte si comporta, invece, come se fosse un lavoro, ma che li vede impegnati in prima persona: tra contattare aziende, contrattare condizioni convenienti, gestire l’agenda dei propri figli per ogni bambino influencer c’è un genitore che gli fa da agente. Quasi nessuno pensa che, riprendendo ancora The Guardian, al di là del divertimento e della gioia che i più piccoli possono effettivamente provare nello scartare pacchi con gli omaggi delle aziende o nel provare per primi un nuovo capitolo del proprio videogiochi preferito, quando c’è di mezzo uno scambio di denaro è lavoro e non semplice (sovra)esposizione dei figli in Rete e come tale va normato. Anche le piattaforme, dal canto loro, non sembrano immuni da responsabilità. Basti pensare che la maggior parte ha policy che prevedono formalmente quello di 13 anni come limite minimo per poter aprire un account, sapendo però benissimo che bambini anche di età molto inferiore hanno degli account – intestati o gestiti dai genitori – e che, non di rado, quegli stessi account non solo svolgono attività organiche, ma spendono anche in contenuti a pagamento e in adv.

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