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Professione brand reporter: Brand journalism e nuovo storytelling nell'era digitale

Cos’è il brand journalism, perché sempre più aziende ne fanno uso e come si integra in una content strategy? Le risposte in un libro.

EDITORE Hoepli
PUBBLICATO 2017
EDIZIONE
LINGUA italiano
AUTORE
C. Fornaro, D. Cennamo
VALUTAZIONE Inside Marketing
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Recensione Inside Marketing

Tra le varie rivoluzioni di cui il digitale è considerato responsabile, quella sul paradigma dell’informazione è certamente la più dilagante: l’accessibilità e l’economicità degli strumenti di produzione e distribuzione delle informazioni, infatti, hanno reso tutti potenziali creatori di contenuti, con un conseguente overload di input che rischia di lasciare interdetto l’utente comune. Quella del giornalista aziendale, e più in generale di chi si occupa di brand journalism, rientra così, a rigore, tra le figure che più hanno contribuito a “complicare” l’ecosistema informativo attuale.

Le aziende, infatti, non si limitano ormai a implementare strategie sempre più efficaci di content marketing, ma provano a raccontare storie con gli stessi stilemi e la stessa grammatica dei giornalisti e in qualche caso ci riescono in maniera lodevole. Il giornalismo corporate, in altre parole, è parte di quella “disruption”, accelerata certo dal digitale, che sta forse intaccando il valore economico dell’editoria tradizionale ma, come sostengono Diomira Cennamo e Carlo Fornaro in “Professione brand reporter. Brand Journalism e nuovo storytelling nell’era digitale” (edito da Hoepli), ne sta contemporaneamente ampliando il valore intrinseco.

Un manuale per chi muove i primi passi nel brand journalism

Il volume, una sorta di guida ai primi passi nel mondo del brand journalism e della professione di brand reporter, parte infatti da una constatazione storica: la definizione di giornalismo è stata sempre meno statica e meno precisa di come si immagini. Basti pensare al mito dell’oggettività del giornalismo americano che ha sempre cozzato con un giornalismo fatto invece di visioni, com’è stato fin dal principio quello italiano. Già sull’idea e sulla mission del giornalismotradizionale” gravano insomma tre grandi ambiguità: in primis il giornalismo è da sempre, allo stesso tempo, un prodotto commerciale e uno strumento di formazione dell’opinione pubblica; la mancata distinzione tra fatti e interpretazioni, inoltre, può dare adito a episodi di indirizzamento dell’opinione pubblica; il modello basato sulla vendita di pubblicità, utilizzato da gran parte degli editori moderni, fa sì che ci sia una sorta di asimmetria tra due clienti, lettori da un lato e investitori dall’altro. Le contraddizioni, insomma, fanno parte da sempre della pratica giornalistica, per questo anche di fronte alla nuova sfida del giornalismo aziendale l’unica arma di difesa è una chiarezza di regole, responsabilità, strumenti, aree d’azione, quelle che il testo di Cennamo e Fornaro prova appunto a fornire.

Il brand journalism è davvero solo la somma di comunicazione aziendale e pratica giornalistica?

Pur scontando forse una pecca strutturale, “Professione brand reporter” si muove infatti su due linee parallele, quelle della comunicazione aziendale da un lato e quella della professione giornalistica dall’altro. La scelta è funzionale, certo, alla natura stessa del brand journalism, una sorta di precipitato aziendale della pratica giornalistica, per cui fare il reporter aziendale significa padroneggiare da un lato gli strumenti e le tecniche di comunicazione aziendale e, dall’altro, quelle dell’informazione. Nel testo – che non manca di approfondire nel dettaglio storia, applicazioni, best practice di ciascuna – le due materie, però, sembrano non toccarsi mai, tanto che una volta appresi quali siano i principi dell’una e dell’altra a cui un buon giornalista corporate non dovrebbe rinunciare, una domanda rimane almeno in parte senza risposta: come si fa a integrarle al meglio e cosa fa davvero di una persona che conosca i fondamenti della comunicazione aziendale e quelli della professione giornalistica un brand reporter?

Le origini del brand journalism…

La pratica, come succede spesso, offre più spunti di quanto non riesca a fare la teoria e in questo senso non mancano neanche nel testo in questione interessanti casi di studio su come il brand journalism sia stato già praticato in Italia e all’estero (ci sono addirittura due appendici dedicate, di cui una incentrata sul tema della native advertising, ndr). Al contrario di quanto si potrebbe pensare, infatti, il giornalismo aziendale ha precedenti storici notevoli: già nella seconda metà dell’Ottocento la Johnson&Johnson pubblicava un magazine rivolto ai medici e buon seguito aveva anche The Furrow, un magazine prodotto da un’azienda americana di materiale per l’agricoltura. Qualcuno obietterà che si trattava, allora, di semplici “house organ” e che, considerate le caratteristiche specifiche degli ambienti digitali e 2.0, le aziende devono sapersi trasformare oggi in vere e proprie media agency.

…e di una nuova narrativa aziendale

Non si può negare, del resto, che i brand abbiano una certa vocazione a narrare una storia. Il web, però, ha reso il racconto di marca meno lineare e “preimpostato” e l’esigenza è quella di realizzare racconti adatti a un trasmedia storytelling e che riescano a loro volta nella «creazione di universi narrativi dotati di diversi punti di accesso e pensati per coinvolgere maggiormente il pubblico», come scrivono gli autori nel testo. Il brand journalism ha a che vedere, in altre parole, con quello storytelling aziendale così in voga in questi anni. E una narrativa di brand, dal canto suo, è sempre una narrativa che serve a trasformare, per esempio, un alimento assolutamente comune come la pasta in un vero e proprio oggetto di culto com’è successo con Barilla e che più in generale parte da una storia, la storia aziendale, per arrivare a un racconto che è, oggi più che mai, frutto di una «relazione d’uso e di significato che si instaura con il cliente». Gli utenti parlano dei brand e ne parlano indipendentemente dal fatto che si sia disposti ad ascoltarli o che si intervenga in maniera diretta nel flusso di conversazioni: perché non sfruttare, allora, questi “contributi” volontari e spontanei dei propri consumatori per creare un racconto di marca a sua volta più strategicamente spontaneo e credibile?

Tutto quello che un brand journalist ha bisogno di sapere

Si capisce già da questo come un brand reporter debba saper padroneggiare, allora, una serie di strumenti utili per organizzare la presenza digitale dell’azienda di riferimento. I tool che permettono di monitorare le conversazioni sui social, per esempio: non a caso un capitolo di “Professione brand reporter” è dedicato proprio all’importanza del monitoraggio e delle metriche quando in gioco c’è il «raggiungimento degli obiettivi editoriali e di comunicazione del brand che, tradotto in termini di business, vuol dire: impatto sulla reputazione del brand, aumento delle vendite, lead generation e conversion e via dicendo». L’assunto principale da cui partire è, del resto, che non si può pensare a una strategia di contenuto se non se n’è pensata prima una di business: su un’ideale linea logico-temporale ci sono, infatti, obiettivi di business che si traducono in obiettivi di comunicazione, quindi in obiettivi editoriali e infine in una linea editoriale ben precisa.

Per fare di un’impresa di brand journalism un’impresa riuscita – com’è successo, per esempio, a Red Bull che ha un sito aziendale considerato ormai il più importante magazine per gli amanti degli sport estremi – non si può prescindere, però, dal prendere in considerazione anche varie questioni tecniche che vanno dall’importanza di organizzare una buona architettura dell’informazione a quella di ottimizzare i propri contenuti tanto in logica seo quanto per garantire una buona user experience , passando per la necessità di fare content curation e community management . Un buon brand reporter, poi, è oggi anche un data reporter in grado di padroneggiare e dare significato a una grande mole di dati, un real time reporter che conosca bene come inserirsi al meglio nei flussi di conversazione e negli hot topic e tanto altro ancora.

Se il brand journalism è una questione di cultura aziendale

Se ci sono soft e hard skill immancabili per un giornalista aziendale, però, ci sono anche importanti considerazioni da fare a livello corporate prima di cimentarsi in un progetto di brand journalism. Sono considerazioni legali e deontologiche, per esempio, tanto più che la scelta etica è oggi la più desiderabile e la più profittevole per le aziende — secondo degli studi, chi abbia integrato nei suoi asset aziendali programmi di responsabilità sociale ha rendimenti in borsa di un quarto superiori a chi non lo ha fatto. Essere un’azienda etica significa, anche su un piano di strategie di comunicazione garantire che siano rispettate le tre “P” di profitto, pianeta, persone: oggi infatti «l’impresa non è solo un attore economico, bensì ha a che fare con la polis, la città-stato greca dove viveva la comunità. Questo vuol dire che alle aziende è richiesto di prendere posizione sui grandi temi civili che caratterizzano le nostre società. Quella che si sta delineando è cioè una vera e propria citizenship delle realtà organizzate, ovvero la loro appartenenza al territorio in cui operano e la loro diretta integrazione con le società in cui sono inserite».

Soprattutto a livello organizzativo, però, trasformarsi in una media company significa poter contare su una figura, quella dello chief content officer, a cui siano riconosciute responsabilità manageriali e che possa lavorare di sinergia con i responsabili di tutte le altre aree. La prima sfida che il brand journalism deve affrontare, insomma, è a ben guardare una sfida tutta interna all’organizzazione e alla cultura aziendale.

Per chi si stia ancora chiedendo, infine, se il giornalismo corporate non risulti una minaccia al giornalismo tradizionale, la risposta nel testo di Cennamo e Fornaro è chiara. Si guardi a “costole” dei grandi giganti dell’informazione, come Wired Brand Lab o il T Brand Studio del New York Times, che producono contenuti per i brand con gli stessi stilemi delle news più classiche: sono la dimostrazione più evidente che quello dell’informazione è ormai un panorama “polifonico” che trova, proprio nella molteplicità delle voci, uno strumento di creazione di valore i suoi destinatari.

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