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Che mondo sarebbe. Pubblicità del cibo e modelli sociali

Qual è il ruolo della comunicazione commerciale in ambito food? La risposta fra le pagine di "Che mondo sarebbe", di Cinzia Scaffidi.

EDITORE Slow Food
PUBBLICATO 2018
EDIZIONE
PREZZO 12,32 su Amazon
PAGINE 188
LINGUA italiano
ISBN/ISSN 9788884995025
AUTORE
C. Scaffidi
VALUTAZIONE Inside Marketing
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Recensione Inside Marketing

Che mondo sarebbe. Pubblicità del cibo e modelli sociali” è un saggio edito da Slow Food attraverso attraverso cui l’autrice, Cinzia Scaffidi, cerca di attirare l’attenzione dei consumatori sul ruolo che la comunicazione commerciale gioca in ambito food. Lo fa attraverso una riflessione “ad alta voce” sull’influenza reciproca fra le abitudini di consumo del cibo e la rappresentazione di queste in pubblicità. Una lettura scorrevole che, come da premessa dell’autrice, non vuole avere la pretesa di un carattere scientifico. Una lettura ricca di richiami a spot del passato, ma dei quali sarebbe stato utile avere qualche riferimento in più per andare nostalgicamente a ricercarli. Una lettera aperta ai creativi dei giorni nostri affinché si ricordino che «è vero che la pubblicità ci dice quel che ci piace sentire, ma quel che ci piace sentire non sempre è ciò che ci serve per scegliere in modo sensato».

Le note presenti e i riferimenti bibliografici sono esigui, ma l’impianto da cui nascono le riflessioni è frutto di un background umanistico e di profonda conoscenza del settore. All’interno del volume, inoltre, non sono presenti elementi grafici e l’indice analitico semplifica la ricerca per argomento.

Che mondo sarebbe“, allora, è un libro che riesce a strappare un sorriso grazie all’ironia presente fra le righe, un libro consigliato ai non addetti ai lavori per provare a capire le dinamiche di costruzione dell’immaginario attraverso gli spot e quanto inconsciamente ci portino a stereotipizzare la realtà.

“Che mondo sarebbe”… senza gli spot?

Ragionare su cibo e pubblicità diventa l’occasione per analizzare il nostro rapporto quotidiano con l’alimentazione e la comunicazione che la riguarda. Il ruolo di spot e pubblicità è quello di promuovere i prodotti che il mercato offre, ma allo stesso tempo essi presentano merci che raccontano chi siamo, come il mercato ci vede e soprattutto come il mercato ci vorrebbe. La pubblicità si configura come la voce del mercato, lo strumento attraverso il quale ci informa dell’esistenza di un prodotto e ci induce al suo acquisto. Il prodotto cibo non è oggetto in quanto cibo ma in quanto merce e la sua funzione non è quella di nutrire ma quella di significare. La comunicazione commerciale ci descrive per come consumiamo e ci fa orientare fra i modelli sociali: nel primo caso restituendoci la libertà di acquistare meno e meglio, nel secondo caso potenziando la nostra produzione di anticorpi di narrazioni sociali.

Le pubblicità dei cibi sono spesso pubblicità di prodotti processati, che ci sottraggono alla loro preparazione ma che vengono preparati come faremmo noi. Attraverso gli spot passa l’idea che il cibo più adatto alle nostre esigenze è quello di cui un’industria ha bilanciato tutti gli elementi, stabilito il gusto e controllato sterilità e sicurezza. Gli attori della filiera diventano attori di spot che parlano con le galline, come nel caso di Mulino Bianco, gestori di supermercati Conad che confidano alla propria moglie di pensare a milioni di donne e camionisti Barilla che hanno a cuore la qualità della merce che andranno a portare sulle tavole delle famiglie.

La famiglia, la casa e il momento di mangiare

La famiglia intesa come luogo in cui si consuma il cibo viene descritta attraverso gli spot. Nessun membro della famiglia viene risparmiato, così come nessun momento della giornata, tanto che fra le pagine si creano delle vere e proprie situazioni caricaturali che suonano come critica e provocazione nei confronti di chi gli spot li crea. Uomini incapaci di cucinare e di contribuire all’educazione alimentare dei figli, donne che negli spot hanno una connotazione che le riconduce esclusivamente all’ambito familiare, figli che non sanno riconoscere l’amore per i cibi freschi perché cresciuti a bastoncini di merluzzo e pisellini congelati. I ruoli sono sospesi e a volte si lasciano sottintendere situazioni di monogenitorialità.

I membri della famiglia analizzati dall’autrice, poi, vivono all’interno di case immacolate, perfette e lontane dalla quotidiana realtà. La cucina delle pubblicità ha lavelli che non conoscono macchie di calcare e non viene turbata dall’odore del cibo, che risulta elemento volgare e fuori luogo. Il momento del pasto viene proposto come lontano dai canoni della quotidianità delle famiglie e i gesti compiuti sono abbastanza improbabili.

Il cibo al di fuori delle mura domestiche

Se da un lato l’ambiente domestico è il principale luogo in cui viene rappresentato il consumo di cibo, la pubblicità, che è specchio del mondo in cui viviamo, non può non tenere conto delle abitudini di consumo anche in luoghi come il proprio posto di lavoro o la scuola. La colazione è un momento erroneamente non considerato, in virtù di snack veloci che aiutano a ottimizzare il tempo male organizzato dei protagonisti degli spot; la cena delle donne single viene saltata e sostituita da un bagno caldo; il classico “a tavola” è sostituito da un messaggio su WhatsApp corredato da immagine della cena. Non vengono mostrate le mense scolastiche e ad allietare l’intervallo fra le lezioni sono prodotti industriali a garanzia dell’alimentazione di gruppo, normata ed etichettata.

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