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Slow journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?

Slow Journalism è un viaggio, a prova di giornalisti e lettori, alle origini della crisi dell'informazione e verso nuove possibili soluzioni.

EDITORE Fandango Libri
PUBBLICATO 2019
EDIZIONE
PREZZO 14,86 su Amazon
PAGINE 246
LINGUA italiano
ISBN/ISSN 9788860445971
AUTORE
A. Puliafito, D. Nalbone
VALUTAZIONE Inside Marketing
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Recensione Inside Marketing

Se anche fosse vero che il giornalismo è morto, giornalisti e professionisti dell’informazione sono stati, fin qui, gli ultimi a sapersene assumere le colpe. In “Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?”, Daniele Nalbone e Alberto Puliafito così fanno proprio questo: tracciare una – lunga – lista di responsabili della fatidica crisi del giornalismo e, insieme, di presunte soluzioni che in questi anni hanno promesso di salvarlo ma, prevedibilmente, non sono riuscite a farlo. Una lista a uso e consumo di professionisti del settore ma non solo: il saggio (edito da Fandango Libri) ha il pregio, infatti, di parlare tanto a chi il giornalismo lo fa quanto a chi il giornalismo lo consuma, entrambi del resto co-responsabili di un futuro possibile per l’informazione di qualità.

Cos’è il giornalismo lento e perché è una soluzione possibile alla crisi dell’informazione

La buona notizia, infatti, è che una via di sopravvivenza per il giornalismo c’è ed è quella dello slow journalism . Una formula – per di più spesso abusata o mal interpretata come questa – difficilmente riesce davvero a rendere la complessità che vi si nasconde dietro e, nel caso di specie, fare slow journalism – come tengono a sottolineare gli autori – non può ridursi a preferire articoli di long form rispetto agli articoli più brevi o a una semplice questione di velocità e tempistica delle notizie. Il giornalismo lento richiede di cambiare mentalità, cultura e modelli operativi all’interno delle redazioni, di ritrovare il piacere per le cosiddette authentic news e, cioè, per le notizie verificate e verificabili, che risultino di valore per chi le legge e che possano svolgere un ruolo di anticorpo sociale e contro le fake news e, ancora, di riscoprire quella cultura del dubbio che ben si riassume nel mantra se tua madre dice di volerti bene, controlla. Soprattutto, però, il futuro di un giornalismo di qualità non può passare dalla sostenibilità – economica, prima di tutto – dell’impresa giornalistica.

Non a caso se c’è un modo per risalire alle origini della crisi del giornalismo italiano è, secondo Nalbone e Puliafito, follow the money: seguire i soldi – e, cioè, il modello di business delle principali testate italiane – è l’unico modo che si ha per capire perché, nonostante i proclami e le contestazioni, è stato impossibile fin qua per gli editori rinunciare al duopolio Google vs Facebook o cosa ha condannato i giornalisti a trasformarsi letteralmente in content factory, spesso tra l’altro senza le dovute cautele legali e salariali e ancora, per esempio, perché il giornalismo di questi anni si è ammalato di «istantismo» alla ricerca spasmodica di click e di «gigantismo» alla ricerca di spazi – pubblicitari – da riempire. A uccidere il giornalismo, insomma, ammesso che sia davvero morto, sembra essere stata la sua stessa cecità nei confronti dei cambiamenti, come dimostrano, tra l’altro, una sorta di (anacronistico) primato culturale ancora affibbiato alla carta stampata o un’organizzazione del lavoro che penalizza ancora desk e redazioni online.

La cassetta degli attrezzi per chi fa slow journalism

A sostenere ciascuna di queste ipotesi, comunque, c’è in “Slow Journalism” un vasto catalogo di casi di studio reali. Se per anni infatti, come già si accennava, il giornalismo ha stentato a fare autocritica e a considerare le sue personali responsabilità nei confronti della crisi che stava vivendo, uno dei pregi del saggio è  proprio la schiettezza nel fare nomi e cognomi di imprese giornalistiche nate sotto i migliori auspici ma, nonostante questo, finite ad alimentare la lunga schiera di fallimenti informativi per esempio o, ancora, di formule per un giornalismo nuovo e sostenibile che lo erano davvero ma solo nei proclami, anche quando questo ha significato mettere in gioco persino i pregressi di carriera degli autori. Soprattutto gli esempi in positivo possono risultare d’aiuto, però, nell’individuare modelli organizzativi e di profittabilità veramente funzionali per un giornalismo moderno, all’avanguardia, di qualità: lo spazio riservato nel saggio a descrivere realtà che dentro e – soprattutto – fuori dall’Italia vivono facendo ogni giorno slow news è la dimostrazione più lampante insomma che, fuori dalla teoria, quella dello slow journalism è una strada buona da percorrere e alla portata di tutti. Ad aggiungere concretezza a riflessioni sul futuro del giornalismo come queste contribuiscono, poi, interviste con professionisti dell’informazione, una serie di risorse messe a disposizione del lettore – nella forma, non scontata, di link abbreviati e di facile consultazione anche nel passaggio dal cartaceo all’online – e, ancora, una bibliografia ragionata di testi, come il Manifesto di Peter Laufer per un consumo critico dell’informazione, che non possono mancare nella libreria di chiunque sia preoccupato per le sorti del giornalismo. Non solo di giornalisti, del resto, ma anche e soprattutto dell’advocacy dei lettori può e deve vivere il (buon) giornalismo del futuro.

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