Storie che incantano. Il lato narrativo dei brand
Quali sono le storie che incantano i consumatori? E, soprattutto, come fa un brand a trasformare la sua storia in una storia che incanta?
EDITORE | Roi Edizioni |
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PUBBLICATO | 2018 |
EDIZIONE | 1° |
PREZZO | € 20,40 su Amazon |
PAGINE | 254 |
LINGUA | italiano |
ISBN/ISSN | 8885493130 |
AUTORE | A. Fontana |
VALUTAZIONE | Inside Marketing |
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Recensione Inside Marketing
- Di Virginia Dara
- 4' lettura
Avere una strategia di contenuti, persino fare del buon storytelling aziendale non basta più: l’utente medio è esposto oggi a una quantità di storie decisamente inedita, senza contare che ogni singolo contenuto deve competere con l’alta carica emotiva e coinvolgente di bambini e gattini sul web, solo per fare un esempio. In questo scenario di «continuità contenutistica», però, come si può dar vita a delle “Storie che incantano”? È su questo che si interroga il testo di Andrea Fontana (edito da roi edizioni).
Come e di cosa sono fatte le storie che incantano
A partire da una premessa: un brand – qualsiasi brand, che sia aziendale o personale poco importa – non verrà ricordato certo «per aver gridato più forte, ci sarà memoria di voi perché avrete nutrito e stabilito un legame con delle moving stories. Storie con iper-contenuti: argomentazioni di alta qualità e nutrienti». La ricetta perfetta per delle storie che incantano, insomma, è presto spiegata: sono storie che muovono all’azione chi le sente raccontare o, di più, sono storie che gli fanno dire “voglio essere parte anche io di questa storia”. E i brand diventati di culto, love brand come Apple solo per citarne uno, lo sanno bene.
Chiunque pensi al saggio di Fontana come a un manuale di storytelling, del resto, sbaglia almeno in parte. Non che manchi l’inquadramento teorico: man mano che le pagine scorrono, aumenta la familiarità del lettore con concetti come agenda, ciclo narrativo, attivatori cognitivi e vengono richiamati elementi fondanti le teorie narrative più classiche. Gli esempi concreti di brand, o altri soggetti non per forza business, che sono riusciti a creare storie che incantano sono, però, il vero plus testo: non solo per chi racconta storie di professione, per cui il saggio diventa un mezzo per guardare indietro a cosa è stato già fatto e come invece poter fare meglio; ma anche e soprattutto per chi ha bisogno, nel quotidiano, di imparare a raccontare (e bene) il proprio prodotto o il proprio brand e allenare le proprie capacità di story-thinking.
Da come, in maniera diametralmente opposta, Obama e Trump hanno raccontato agli elettori americani storie che incantano a «storie di trasformazione» che non hanno certo appassionato meno il pubblico, come quella di Chiara Ferragni, e passando per storie che raccontano fatti come il surriscaldamento globale o il dramma delle stragi nelle scuole americane, il testo appare per certi versi un prontuario di casi narrativi e insegnamenti che si possono trarre da questi.
Utili in questo senso sono persino gli esercizi proposti da Fontana ai suoi lettori, esercizi con cui gli ultimi possono allenarsi a raccontare e ancora prima a individuare le proprie, personalissime, storie che incantano. Ora che lo storytelling – aziendale, legato al proprio personal brand, ecc. – può sfruttare strumenti e canali fin qui inediti e che ne amplificano le potenzialità, del resto, raccontare storie coinvolgenti, storie che incantano è quasi ed esclusivamente una questione di «mindset», avverte l’esperto, e la buon notizia è che, al di là delle predisposizioni e partendo dalle giuste premesse, è possibile allenare la propria stessa predisposizione a raccontare storie. Ancora una volta schemi, tabelle riassuntive, modelli narrativi rendono il saggio un buono strumento nelle mani di chi voglia raccontare storie che incantano.
A cosa e quando servono delle storie che incantano
Senza scendere nel dettaglio delle tassonomie indicate – comunque mai rigide, ma sempre piuttosto vive e ancorate alla realtà – e per capire meglio la proposta di Fontana per uno storytelling che funzioni davvero, bisogna fare subito i conti almeno con due idee. Che «raccontare significa […] trovare rimedi profondi alle paure esistenziali e ai grandi disagi dei propri lettori», innanzitutto. Poco importa, in questo senso, che il rimedio consista semplicemente nel poter sfruttare un prodotto per quello che è il suo proposito più commerciale o, piuttosto, legarsi a una marca per l’immaginario e i valori a cui fa riferimento. Sono gli anni del brand activism , del resto, anni in cui i clienti chiedono alle aziende di prendere posizioni nette davanti alle questioni più rilevanti nella loro, personalissima, agenda e di proporsi, in questo modo, esse stesse come soluzioni alle paure del momento.
Il corollario di tutto questo è che, tra le storie che incantano, la «storia suprema» è una storia che è la somma di tutte le possibili storie di legame, di salvezza, di fatti che un brand o qualsiasi altro soggetto, di qualsiasi altra natura, potrebbe raccontare e che più che alla scienza, se davvero ne esiste una, dello storytelling guarda alla capacità tutta umana di emozionarsi e immedesimarsi che non sempre si può razionalmente spiegare.