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Più ascolti, più fiducia nei media professionali ma anche più disinformazione e meno pubblicità: un osservatorio su media e coronavirus

Più ascolti, più fiducia nei media professionali ma anche più disinformazione e meno pubblicità: un osservatorio su media e coronavirus

Media e coronavirus: da ascolti e fiducia nei media professionali alla raccolta pubblicitaria, i principali effetti sistemici della pandemia.

Stimare l’impatto dell’emergenza sanitaria sul sistema dell’informazione: è questo l’obiettivo di un’edizione del “Media for Democracy Monitor 2020” interamente dedicata a media e coronavirus. Filo rosso tra i diciassette paesi partecipanti sembrano essere stati in questi mesi l’aumento delle audience e della fiducia verso mezzi d’informazione tradizionale da un lato e dall’altro la crisi del modello pubblicitario.

Crescono ascolti e fiducia per i media, ma anche la paura delle fake news

Già altri studi su come la pandemia ha cambiato i consumi avevano sottolineato un aumento del tempo dedicato a leggere i giornali, guardare la TV, ascoltare la radio, navigare in Rete. Lo studio in questione conferma in questo senso che tanto i media di servizio pubblico quanto i network privati e commerciali hanno registrato negli scorsi mesi un aumento delle richieste di contenuti offline e online. La maggior parte di questi contenuti, circa il 70% secondo lo stesso studio, era rappresentata da contenuti che riguardavano i diversi aspetti della pandemia (quello medico-scientifico, quello sanitario, quello politico-economico, quello sociale) e proprio la pervasività del tema ha portato a parlare del rapporto media e coronavirus come di una infodemia, una sorta di emergenza mediatica contemporanea e parallela a quella sanitaria. Guardando alla qualità dell’informazione sul coronavirus, tante sono state infatti fake news , notizie non verificate o manipolate ad arte diventate virali negli scorsi mesi, tanto che già altri studi su media e coronavirus avevano identificato proprio la paura delle bufale come una delle più forti preoccupazioni di utenti, lettori e spettatori e che gestori delle piattaforme e fact-checker e debunker terzi e task force ministeriali sono dovuti correre ai ripari con iniziative ad hoc.

Se arginare la disinformazione a tema coronavirus è stato quasi impossibile, comunque, secondo il “Media for Democracy Monitor 2020”, la pandemia ha fatto tornare a crescere la fiducia attribuita ai media, da anni ai minimi storici stando ad altri studi di settore: a beneficiarne sarebbero stati soprattutto i media che avevano alle spalle il lavoro di redazioni professionali e i soggetti con una lunga tradizione di attività, segno che l’expertise dei professionisti dell’informazione e la familiarità con le logiche del settore sono ancora considerate dal pubblico garanzia di qualità per il prodotto mediatico.

Meno pubblicità e la sfida del sostentamento pubblico dell’informazione durante la pandemia

Quello che più ha accomunato le industrie mediatiche dei paesi considerati nello studio è stato, però, il crollo degli introiti pubblicitari: in questi mesi gli outlet media hanno raccolto dal 30% al 50% in meno in pubblicità, a dimostrazione del fatto che un modello di business basato principalmente sull’advertising è stato ciò che ha ucciso davvero il giornalismo, o meglio la qualità dell’informazione. Le conseguenze sono state, nei casi più gravi, la completa cessazione delle attività di pubblicazione, il passaggio a pubblicazioni solo online o, dove possibile, il ricorso a sussidi statali e altre forme di sostentamento per l’informazione. Natura e modalità di erogazione dei fondi pubblici per l’informazione sono state diverse da paese a paese, ma, come emerge dall’osservatorio su media e coronavirus, questi hanno aiutato a garantire il normale flusso dell’informazione e la retribuzione dei giornalisti (quelli a contratto almeno, perché in maniera nettamente diversa sarebbe andata per i collaboratori freelance).

Media e coronavirus in Italia: tre tendenze

Guardando più da vicino a cosa è successo ai media italiani durante la pandemia, dalle interviste condotte ad alcuni protagonisti chiave del settore sono emersi chiaramente almeno tre trend.

Se è parte del normale processo di agenda building adattare l’agenda media di giornata agli appuntamenti governativi o istituzionali, durante il lockdown più che mai sono stati i soggetti ufficiali a scandire il ritmo dell’informazione e con esso, con ogni probabilità, persino la percezione del rischio legato all’epidemia. Il bollettino quotidiano della Protezione Civile, le conferenze stampa settimanali di governatori come il campano De Luco o quelle del premier Conte alla vigilia di date cruciali per lo stato d’emergenza si sono trasformate, sotto gli occhi di tutti, in veri e propri media event.

In secondo luogo, in Italia più che in altri paesi, a parlare di coronavirus sui media sono stati intermediari come virologi, infettivologi, epidemiologi, ufficialmente nel tentativo di aiutare i professionisti dell’informazione a comunicare la scienza nella maniera più corretta ed efficace possibile. Il ricorso agli esperti, però, ha contribuito a polarizzare il discorso pubblico in scuole di pensiero diverse e diametralmente opposte.

Non si può parlare di media e coronavirus, infine, senza guardare alle sfide organizzative che l’emergenza ha posto alle redazioni e ai media outlet più in generale. Come per molte altre categorie di lavoratori, infatti, per giornalisti e professionisti dell’informazione smart working , telelavoro e lavoro agile hanno chiesto di rivedere iter, processi organizzativi ma anche rapporti di forza consolidati negli anni all’interno degli ambienti di lavoro.

Come in molti altri settori, insomma, l’emergenza coronavirus potrebbe essere per il giornalismo allo stesso tempo «devastazione o rinascita», come prova a chiedersi già dal titolo il “Media for Democracy Monitor 2020”.

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