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Social innovation: ecco come è nato il primo vocabolario

Social innovation: ecco come è nato il primo vocabolario

Alessandra Aonzo di Mixura ci ha parlato del vocabolario ideato per rendere accessibili a tutti idee e principi della social innovation.

L'intervista a:

Il termine social innovation ha assunto nel tempo una molteplicità di significati. Una definizione formale è quella presente all’interno del Regolamento UE n. 1296/2013 dell’11 dicembre 2013 secondo la quale con il termine innovazione sociale si identificano «le innovazioni che hanno sia finalità sia mezzi sociali e, in particolare, quelle che fanno riferimento allo sviluppo e all’attuazione di nuove idee (riguardanti prodotti, servizi e modelli) che rispondono a esigenze sociali e, contemporaneamente, creano nuovi rapporti o collaborazioni sociali, fornendo un beneficio alla società e promuovendo la capacità di agire della stessa». Dalla collaborazione di Mixura con Unioncamere e Regione Piemonte, è nato il primo dizionario italiano della social innovation: uno strumento grazie al quale le idee e i principi di questa tipologia di innovazione diventano facilmente accessibili a tutti e forniscono delle linee guida per muoversi all’interno di questo particolare campo.

L’idea nasce da un’esigenza di chiarezza e semplicità che gli stessi addetti ai lavori hanno avvertito nel rendersi conto che la social innovation non è un semplice fenomeno, ma qualcosa di più concreto: un mondo, con le sue complessità e le sue regole o non regole che, come tutti i mondi, possiede un linguaggio che è necessario conoscere al meglio per poterci entrare.

Social innovation: ecco come è nato il primo vocabolario

Alessandra Aonzo, Partner e Operation Manager di Mixura

A parlarci di questa iniziativa è Alessandra Aonzo, Partner e Operation Manager di Mixura, che sottolinea come all’interno dell’azienda tengano molto a curare la parola: «La consideriamo materia fondamentale dei progetti che sviluppiamo per i nostri clienti, senza la quale non avrebbero il successo che hanno – ha aggiunto –. Non è un caso che il nostro logo rappresenti proprio “il dialogo”(due visi che si parlano). Con il vocabolario, realizzato grazie anche al coordinamento di Unioncamere Piemonte e Regione Piemonte, abbiamo voluto rendere più accessibile a tutti, e non solo ad un pubblico “esperto”, le idee e i principi della social innovation, in cui crediamo molto, come reale vento di cambiamento».

Dario Carrera, fondatore di The Hub Roma, afferma che “la social innovation si fa, non si definisce”. Qual è lo stato dell’arte della social innovation in Italia? Quale ruolo ricopre Mixura in questo processo di innovazione sociale?

Se ci limitassimo a guardare i numeri e gli eventi che fanno notizia (crescita di fab lab e coworking , nascita febbrile di startup innovative, continui lanci di contest e di convegni dedicati al tema, apertura di nuove piattaforme di crowdfunding ) saremmo portati a pensare che oggi in Italia la social innovation sia giunta ad uno stadio di maturazione. In realtà, molte delle iniziative di cui sentiamo parlare sono solo “sedicenti” progetti di social innovation, così etichettati per godere di finanziamenti e visibilità; altre, invece, non riescono a portare ad un cambiamento concreto ma si limitano – cosa che considero comunque positiva – a smuovere un po’ la staticità dei vecchi meccanismi, mettendoli in discussione. Questo perché la social innovation è prima di tutto un cambiamento culturale e, come tale, specialmente in una realtà con radici profonde come quella italiana, necessita di tempo per poter davvero attecchire. Quindi la notizia positiva è che c’è ancora molto da fare. Mixura infatti, si sta rimboccando le maniche. Siamo una società di management consulting atipica, da sempre orientata alla responsabilità sociale di impresa che consideriamo l’ingrediente fondamentale di tutti i nostri progetti, e, per questo, il passo dalla CSR alla social innovation è stato per noi piuttosto naturale. Oggi ci rendiamo parte attiva del processo di innovazione sociale sia facendoci veicoli di questa espressione culturale (attraverso l’organizzazione di attività formative, convegni, iniziative di divulgazione come il vocabolario, appunto) sia supportando soggetti pubblici e privati realmente motivati al cambiamento nello sviluppo di progetti di social innovation, ad esempio, realizzando al fianco delle PA laboratori di innovazione territoriale o, come braccio di imprese orientate alla CSI, contest ad hoc per far emergere nuove forme di imprenditoria.

In un suo articolo parla della dicotomia fra Pubblica Amministrazione e social innovation che si può e si deve spezzare. Di cosa è frutto questa dicotomia e quali sono gli elementi da cui partire per renderla una complementarità a tutti gli effetti?

Ci tengo a dire innanzitutto che la distanza tra la Pubblica Amministrazione e la social innovation non è assoluta, ma nasce da alcune differenze strutturali legate principalmente al modello organizzativo delle PA che per anni è stato funzionale a garantire la progettazione, la realizzazione e infine l’offerta di servizi al cittadino, in un’ottica “monologhista” più che di reale ascolto o, ancor di più, di dialogo con la comunità. Oggi scontiamo questo tipo di orientamento e, in alcuni casi, come nel Sud Italia, lo scollamento tra i bisogni e l’azione pubblica è talmente grande che i cittadini hanno cominciato a farsi sentire, chiedendo di partecipare attivamente alla progettazione delle politiche di governance del proprio territorio, reclamando una vera inclusione, insomma. Da qui, a mio parere, bisognerebbe partire, riconoscendo i punti di forza delle pubbliche amministrazioni, che sono tantissimi, il ruolo di “decisore”, la visione di insieme, la capacità di fare networking, la reperibilità di risorse, solo per citarne alcuni, e integrandoli con le caratteristiche dei change maker“: la creatività, la rapidità, la capacità di innovare, la vicinanza al territorio, l’attitudine alla condivisione e alla trasparenza. Sono ottimista perché ci sono già diverse belle esperienze in Italia, come per esempio quella di CO-Mantova, dove le istituzioni hanno sottoscritto un patto con il sistema territoriale degli stakeholder per una governance collaborativa dei beni comuni.

La generazione Millennial, con la sua rivoluzione dei consumi e la nuova distribuzione della conoscenza, è protagonista dell’innovazione sociale. C’è, secondo lei, un’effettiva consapevolezza nei giovani dai 24 ai 35 anni delle prospettive lavorative offerte dagli scenari di innovazione sociale?

Mi verrebbe da rispondere di sì, ma forse non sarei obiettiva in quanto rientro, ancora per un anno soltanto, all’interno di questa generazione. Sicuramente oggi non c’è giovane tra i 24 e i 35 anni che non abbia sentito parlare di sharing economy, crowdfunding, produzione peer to peer, impact finance. Per loro è normale cogliere queste opportunità, è la loro realtà e probabilmente sarà il loro futuro. Si parla di “terza rivoluzione industriale“, di “nuovo rinascimento dell’artigianato“, di “capitalismo sociale“; non so se queste definizioni siano esatte, ma sicuramente siamo di fronte ad un nuovo ciclo dell’economia mondiale, che se sarà capace di puntare ad una crescita sostenibile nella quale il futuro non verrà immolato per generare ricchezza nel breve termine, potrà portare sviluppo e lavoro anche alle nuove generazioni.

Per gli addetti ai lavori e per tutti coloro che fossero interessati a conoscere il mondo della social innovation, il vocabolario è disponibile al seguente link:

Vocabolario della social innovation

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