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Musica digitale: dall'avvento di Internet alla riproduzione in streaming

Musica digitale: dall'avvento di Internet alla riproduzione in streaming

Il panorama della musica digitale ha subito negli ultimi anni grandi cambiamenti, grazie soprattutto a piattaforme di streaming come Spotify.

La musica digitale ha generato un enorme valore aggiunto per il proprio e altri business. È stata capace, infatti, di stimolare lo sviluppo di diverse industrie – non a caso si parla di «distruzione creatrice», ovvero di un processo di mutamento industriale che rivoluziona la struttura economica dall’interno, distruggendo la vecchia e creandone una nuova – tra cui quelle atte alla commercializzazione di prodotti hardware sempre più tecnologici, come lettori mp3, smartphone o tablet. D’altra parte Edgar Berger, presidente e amministratore delegato di Sony Music, in un’intervista alla BBC avrebbe dichiarato: «Che cosa è uno smartphone senza la musica? Gli togli metà del piacere».

La storia del mercato musicale

La diffusione del materiale musicale ha avuto inizio a metà anni Quaranta del secolo scorso con l’avvento del disco in vinile, nelle versioni a 78, 45 e 33 giri: la memorizzazione dei suoni avveniva in analogico attraverso dei solchi sulla superficie del disco. Successivamente si è avvertita l’esigenza di ascoltare la musica registrata anche fuori della propria casa e così è nato lo Stereo8, il cui funzionamento si basava sulla registrazione audio su un nastro magnetico chiuso in particolari cassette.

La vera rivoluzione, però, è rappresentata dalla musicassetta, capace di essere utilizzata in diversi dispositivi: con prezzo ridotto, dimensioni contenute e possibilità di registrazione si è insediata nel mercato come regina madre. Nel 1982, poi, è stato utilizzato per la prima volta dall’industria musicale il compact disc (CD audio), che ebbe una rapida diffusione: offriva, infatti, una maggiore praticità d’uso e una migliore qualità del suono. Il CD per più di un decennio non ha avuto rivali e si è sostituito quasi completamente a qualsiasi altro tipo di supporto musicale.

L’avvento di Internet e la musica digitale 

L’avvento di Internet e del digitale ha caratterizzato il primo decennio del XXI secolo e ha avuto un impatto forte sui fatturati delle principali etichette discografiche, come si evince dal “Global Music Report 2016“, realizzato da IFPI in collaborazione con Nielsen, che descrive lo stato del mercato della musica in tutto il mondo, mettendo in evidenza l’ innovazione e gli investimenti nel settore.

Il servizio di streaming rimane la fonte di entrate nel settore con maggiore crescita: i ricavi sono aumentati del 45,2%, cioè di 2,9 miliardi di dollari e nel corso degli ultimi cinque anni sono cresciuti più di quattro volte. Aiutato dalla diffusione di smartphone e da una maggiore disponibilità di servizi in abbonamento di alta qualità, lo streaming rappresenta il 19% del fatturato del settore a livello mondiale, rispetto al 14% del 2014. I servizi di abbonamento Premium hanno visto una forte espansione negli ultimi anni: nel 2016, ad esempio, sono stati circa 68 milioni a pagare un abbonamento musicale, rispetto ai 41 milioni del 2014 e i soli 8 milioni del 2010. Tuttavia, i servizi di download  rimangono un’offerta significativa, pari al 20% dei ricavi del settore, cioè 1,4 miliardi di dollari, dato superiore ai 983 milioni del 2010 e gli 1,3 miliardi del  2011.

Anche  i ricavi derivanti dal diritto di trasmissione (cioè di esecuzione pubblica di un programma, ndr) sono cresciuti del 4,4% (2,1 miliardi di dollari); questo flusso rappresenta ora il 14% del totale dei ricavi globali dell’industria musicale, rispetto al 10% del 2011.

Il declino dei ricavi

Il declino dei ricavi, però, è iniziato con la diminuzione delle vendite del CD, nonostante una domanda sempre crescente di musica. A essere cambiate sono le modalità di fruizione: lo streaming musicale, infatti, ha ridotto notevolmente i margini di ricavo delle industrie discografiche. La tendenza a fruire in modo gratuito, e spesso non legale, si è sviluppata alla fine degli anni Novanta. L’errore compiuto dalle case discografiche è stato aver focalizzato le risorse esclusivamente sul mercato principale, ignorando completamente le potenzialità del MPEG (Moving Picture Expert Group, ndr) o MP3, il nuovo formato digitale che si stava affermando che permetteva di comprimere file audio in uno spazio dieci volte inferiore rispetto a quello di un CD, così da consentire il trasferimento via web, portando alla consacrazione della musica digitale.

Napster

Nel 1999 con Napster, un programma di condivisione di file creato da due giovani informatici statunitensi, Shawn Fanning e Sean Parker, è stata introdotta l’idea di condivisione di interi repertori musicali fra i singoli utenti in Rete, in maniera gratuita, bypassando la legge e i diritti di autore: si è trattato, infatti, del primo sistema di peer-to-peer di massa, dedicato alla musica digitale. Occorre precisare, però, che non è questa in realtà la definizione più corretta, poiché veniva utilizzato un sistema di server centrali che mantenevano la lista dei sistemi connessi e dei file condivisi, ma le transizioni vere e proprie avvenivano direttamente tra gli utenti. In soli due anni, comunque, furono condivisi milioni di file e, di conseguenza, ci furono milioni di violazioni di copyright. Per questo motivo la RIAA (Recording Association of America, ndr), la lega che raduna le più apprezzabili case discografiche americane, citò ufficialmente in giudizio Napster presso la Corte di San Francisco. Il tribunale americano, lo United States Court of Appeals for the Ninth Circuit, alla fine del processo fece cessare istantaneamente l’attività svolta da Napster perché dannosa per la tutela del copyright, imponendo all’azienda il rimborso alle etichette discografiche per 26 milioni di dollari. Per cercare di pagare queste sanzioni Napster convertì il servizio da gratuito a pagamento e poi, il 17 maggio 2002, venne acquistata da Bertelsmann AG (multinazionale tedesca con sede a Gutersloh, ndr) per 8 milioni di dollari anche se un giudice fallimentare bloccò la vendita, imponendo a Napster di liquidare i suoi asset secondo le disposizioni di legge che regolavano i casi di bancarotta negli USA. Di conseguenza, la maggior parte dei dipendenti venne licenziata, il sito web chiuse e la notizia venne resa nota attraverso la scritta: «Napster was here».

Spotify

Diverso il discorso di Spotify che ha rivoluzionato il mondo della musica digitale o, più in generale, il concetto di musica. L’ormai ex startup è stata fondata in Svezia nell’ottobre del 2008 da Daniel Ek e Martin Lorentzon, supportati da tre grandi investitori. Si tratta di una piattaforma che offre un servizio di streaming musicale, sulla quale sono fruibili milioni di brani di diverse case discografiche ed etichette indipendenti, con un catalogo in continuo aggiornamento.

Come qualsiasi altra nuova azienda che prova ad immettersi in un mercato estremamente competitivo come quello musicale, il percorso di Spotify è stato lungo e colmo di insidie, rappresentate dai competitor già affermati, come iTunes, Amazon e Google, e dalle reazioni contrariate dell’industria fonografica e dei media, ma resta in continua crescita: già nel 2014 era stato raggiunto il valore complessivo di 4 miliardi di dollari. Nel gennaio 2018, invece, sono stati annunciati i 70 milioni di utenti Premium, molti di più dei 27 milioni di Apple Music.

Solo per fare un accenno agli asset finanziari di Spotify, prima della recente quotazione in borsa (aprile 2018, ndr) la piattaforma si rivolgeva soprattutto ai venture capitalist per raccogliere i fondi necessari a supportare la propria crescita, nonostante buona parte degli introiti provenissero dalle pubblicità del servizio free e dai pagamenti delle sottoscrizioni del servizio premium.

Spotify, comunque, non va considerata come una mera libreria musicale, bensì come una vera e propria piattaforma dinamica ed intelligente che consente al fruitore di ascoltare i propri artisti preferiti, trovare la playlist perfetta e fargli scoprire nuova musica consigliando brani e artisti secondo i suoi gusti.

Il modello di business adottato da Spotify è, insomma, quello tipico di un cosiddetto eBusiness, ossia un modello basato su Internet e che offre un servizio esclusivamente digitale – nonostante le sempre più imminenti voci di una possibile brand extension nel mercato degli smart speaker e dei dispositivi per le auto – che risulta essere innovativo nel panorama della musica digitale non solo per la tipologia di servizio che offre, ma anche per il modo in cui viene generato profitto e vengono gestite le risorse, per la modalità con cui si inserisce nel mercato e per come riesce ad adoperarsi nella lotta contro la pirateria.

Musical.ly

Ultima arrivata in ordine di tempo, ma non meno disruptive per il panorama musicale, Musical.ly ha rappresentato (prima ancora di trasformarsi in TikTok, ndr) una delle esperienze musicali più in voga tra i giovanissimi. È un’app che gli iscritti utilizzavano per condividere i loro video mentre cantavano, in playback, le canzoni preferite; per il resto feature e funzionalità erano in tutto e per tutto simili a quelle di un più tradizionale social network : c’era una community che commentava, che poteva mettere like o condividere a sua volta il video e c’erano anche Musers (così si chiamavano “in gergo” gli utenti di Musically, ndr) diventati delle vere e proprie star e che si comportavano da influencer se si guardava alla formazione dei gusti musicali dei più piccoli.

Già così è facile cogliere, allora, quali sono stati i caratteri rivoluzionari di un’app per la musica digitale come questa. «La musica è cambiata: Musical.ly revolution”, una ricerca di Viacom e Super! riportata da Prima Comunicazione provava, però, a elencarli in maniera più sistematica. Innanzitutto, il consumo di musica – come ormai avviene del resto per la maggior parte di contenuti anche di altra natura – risultava essere primariamente mobile (così dice l’80% degli intervistati, ragazzi italiani tra gli 8 e i 14 anni). In secondo luogo, l’esperienza musicale non era più considerata un’esperienza esclusivamente uditiva: su Musical.ly la musica si guardava e, soprattutto, si viveva: oltre la metà degli utenti (il 52%) sembrava apprezzare, infatti, soprattutto la possibilità di giocare con il pezzo originale, modificandolo e reinterpretandolo secondo il proprio gusto. Il risultato? È che un brano era percepito come «più bello» e «più tuo» di quando, invece, era semplicemente ascoltato nella maniera più tradizionale.

Non è un caso che un servizio come Musical.ly sia stato particolarmente amato dai giovanissimi della Gen Z: sono infatti, più in generale, gli utenti che più si aspettano la personalizzabilità dai servizi digitali e che li percepiscono come parte integrante della loro vita quotidiana. Ancora lo studio in questione, così, sottolineava come l’app e i suoi video in playback fossero spesso utilizzati tanto per esprimere allegria (64%) o entusiasmo e felicità (44%), quanto per sfogarsi quando si era tristi e arrabbiati.

Un dato curioso era, infine, la differenza d’approccio tra maschi e femmine: se per le ragazze Musical.ly era soprattutto divertimento, creatività e possibilità di esprimere liberamente il proprio talento, per i ragazzi era per lo più un luogo in cui poter ricevere approvazione dalla propria community di pari e dove ispirarsi ai Musers più famosi. A dimostrazione, qualora ce ne fosse bisogno, che la dimensione social e di condivisione sono la rivoluzione più concreta e visibile quando si parla di musica digitale.

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