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Social network e lavoro: storia di un binomio controverso

social network e lavoro

Quello tra social network e lavoro è diventato un rapporto imprescindibile, con aziende che controllano i profili di candidati e dipendenti.

social network e lavoro: il binomio è uno dei più controversi se si guarda a come l’immagine pubblica che i professionisti danno di sé attraverso queste piattaforme sia diventata ormai importantissima, non solo in fase di hiring ma anche nella routine quotidiana di un’organizzazione lavorativa. Non si tratta, infatti, solo di inibire l’uso di social e affini nelle ore di lavoro per evitare inutili distrazioni che possono creare danni seri e tangibili all’azienda (è stato stimato, per esempio, che le ripetute notifiche su Facebook&co. fanno perdere a un lavoratore medio circa il 28% della giornata lavorativa, con perdite potenziali per l’impresa di svariati miliardi di dollari all’anno, ndr). Si tratta anche di considerare che la condotta social dei singoli, in alcuni casi, può parlare per l’intera organizzazione: è il caso soprattutto di opinioni e credenze personali che, anche se espresse dal singolo appunto, possono essere a torto riferite all’azienda nel suo complesso e rispetto a cui le imprese più digital oriented tendono a organizzarsi con policy ad hoc. Non va dimenticato, poi, che quello che i singoli fanno o pubblicano dai loro account può contribuire molto anche a minare equilibri interni e la qualità dell’ambiente di lavoro: si pensi, in questo senso, a tweet al vetriolo contro un capo area, a conversazioni di gruppo che prendano di mira l’ultimo arrivato, eccetera. Per questo vale la pena considerare il rapporto social network e lavoro con più attenzione e in un’ottica, è il caso di dirlo, strategica.

Potenziali candidati, attenzione a cosa i vostri profili social dicono di voi!

A partire, ovviamente, dal momento in cui si sta cercando un lavoro. Com’è stato ripetuto più volte, si dovrebbe considerare per esempio che già uno strumento come LinkedIn può aiutare a trovare lavoro, se per questo si intende la possibilità di venire in contatto con professionisti del proprio settore di riferimento, fare networking professionale e restare aggiornati sulle novità quanto a vacancy, opportunità di carriera, eccetera. C’è un dato, però, che rischia di essere per molti versi uno spauracchio per chi sta cercando lavoro: almeno un terzo di chi si occupa di risorse umane controlla gli account social in fase di valutazione dei candidati. A dirlo, ultimo in ordine di tempo, è uno studio con cui CareerBuilder.com prova a spiegare come e perché le aziende usano i social per scegliere i candidati migliori per l’offerta in questione. Le ragioni di un simile comportamento sono facili da spiegare, dal lato aziendale almeno: conoscere meglio il possibile dipendente, guardare all’immagine che dà di sé attraverso una canale pubblico o semi-pubblico come i social network e, più in generale, farsi un’idea sulla persona che vada al di là di curriculum, lettere motivazionali e di referenze. Secondo lo stesso studio, infatti, il 65% dei responsabili avrebbe usato i social network per vedere se il candidato avesse un’immagine abbastanza professionale, il 51% per capire se la sua personalità o la sua storia lavorativa fossero in linea con i principali valori aziendali e il 45% per saperne di più rispetto alle sue competenze, tecniche e non. Non va dimenticato, infatti, che in una visione sempre più moderna dell’azienda che preferisce la vivibilità e la salute del luogo di lavoro all’efficienza, le qualità umane, le skill comunicative, la capacità di lavorare in team dei singoli hanno assunto un ruolo sempre più rilevante. Né che fare social screening anche quando si tratta di potenziali candidati è il modo migliore per capire cosa gli altri —colleghi, clienti, ex datori di lavoro ancor meglio— pensano di loro. Ci sono, così, una serie di comportamenti sui social che sembrano particolarmente sgraditi a chi si occupa di risorse umane e che potrebbero costare un’esclusione a priori dal processo di selezione (vale la pena sottolineare, infatti, che secondo ancora lo studio in questione il check dei profili social dei candidati avverrebbe nella maggior parte delle aziende in una fase preliminare, prima ancora dell’accesso agli eventuali colloqui o prove selettive, ndr). Contenuti inappropriati, foto o informazioni compromettenti, bugie o prove di comportamenti bordeline come il consumo di droga o quello eccessivo di alcol sono, insomma, da evitare in ogni modo se si sta provando a dare ai propri profili social un’impronta professionale.

social e lavoro cosa dà fastidio ai recruiter

Fonte: Forbes

Ci sono azioni semplicissime che si possono intraprendere, anche se ci si è resi conto troppo tardi della correlazione così stretta tra social network e lavoro. Si può cominciare, per esempio, dallo scegliere impostazioni della privacy specifiche per ogni singolo contenuto o farsi aiutare dalla ricerca Google per capire, attraverso i risultati specifici riferiti ai social, che immagine di sé viene veicolata e offerta a chiunque, potenziali datori di lavoro inclusi. Serve, in altre parole, imparare a fare personal branding , proprio a partire dai social network.

Tanto più che, ancora secondo CareerBuilder.com, le informazioni rubate dai social non sempre servono alle aziende a scartare candidati incompatibili con le proprie politiche aziendali: in quasi il 30% dei casi gli esperti delle risorse umane trovano nei profili dei candidati insight positivi che li confermano nella decisione di assumere persone che si dimostrano particolarmente comunicative o reattive, che hanno buone referenze o che lavorano sodo per migliorare costantemente se stesse. Le più recenti trasformazioni nel mercato del lavoro e la sua attuale competitività del resto insegnano una cosa: non è il momento giusto per essere timidi, neanche sui social!

Badate bene a cosa postare sui social, anche se siete in azienda da anni! Alcuni “casi” famosi

Sempre con moderazione, s’intende. Il rapporto tra social network e lavoro, infatti, si è così consolidato negli anni da riempire la cronaca di casi di dipendenti licenziati per un tweet o un post su Facebook. Com’è successo di recente agli studenti cacciati da Harvard per contenuti sessisti e discriminatori scambiati su Facebook  e al di là delle semplificazioni che, in casi come questi, servono solo a rendere d’appeal le notizie, si tratta di occasioni in cui è stato un uso decisamente poco oculato e strategico di queste piattaforme a costare ai lavoratori (o futuri e potenziali tali) un danno concreto alla propria carriera, oltre che alla propria immagine di professionisti. Uno dei casi che più ha fatto scuola in questo senso è quello di Octavia Nasr, una giornalista della CNN che, nel 2010 e in occasione della sua morte, aveva espresso con un tweet «rispetto» al Ayatollah Fadlallah, noto per la sua vicinanza a Hezbollah e per le sue posizioni nettamente anti-americane. Da quel momento in poi la testata americana e alcune tra le altre più importanti testate internazionali hanno stabilito policy ben precise per i loro giornalisti che stanno sui social, policy che nella maggior parte dei casi bilanciano la necessaria libertà di espressione da lasciare al singolo con il rispetto e la condivisione di alcuni valori aziendali.

C’è però un altro caso tutto italiano, di certo neanche esso passato nell’ombra, che la dice lunga sull’importanza da dare a ciò che si pubblica sui social: nel 2014 una dipendente di lungo corso di Nestlè – Perugina venne licenziata in tronco (misura poi tramutata in un semplice provvedimento disciplinare, ndr) per aver pubblicato un post in cui criticava, senza fare alcun nome, il comportamento di uno dei suoi responsabili. Alla luce di pronunce più recenti da parte della Cassazione che nel nostro Paese, di fatto, hanno equiparato le offese e le diffamazioni sui social a quelle aggravate avvenute per mezzo stampa e ribadito come basti la semplice allusione, purché sufficiente per far riconoscere la persona in questione anche se in una cerchia ristretta, per integrare il reato, sembra persino più concepibile la decisione della Nestlè, motivata in quei giorni dal «rischio di vedere minata l’autorevolezza di chi fa rispettare le regole». Le polemiche, però, non mancarono e anche a distanza di tempo consegnano un quadro abbastanza chiaro che ribadisce l’importanza di pensare a una buona strategia editoriale anche se si è un singolo lavoratore e anche se, al momento, non si è alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. Quello che viene pubblicato sui social, insomma, dice molto del lavoratore e, ancor prima della persona: per questo il proprio profilo social dovrebbe dare un’immagine, onesta certo, ma migliore possibile di sé, delle proprie competenze e del proprio passato e presente come professionista. Tanto più che in Italia non è reato neanche, per il datore di lavoro, creare un profilo falso per controllare l’attività dei dipendenti sui social network.

Poco importa, si potrebbe pensare, nel caso in cui si sta lasciando un’azienda dove si ha avuto un’esperienza di lavoro negativa e i propri post al vetriolo sui social non sono che una sorta di riscatto per la cattiva esperienza vissuta. Anche in questo caso c’è, però, un precedente che dovrebbe insegnare qualcosa. Era l’autunno 2013 quando una venticinquenne taiwanese che lavorava per un famoso animation studio del Paese (la Next Media Animation) comunicò ai superiori il suo licenziamento attraverso un video, presto diventato virale. La scelta del canale fu tutt’altro che casuale: il core business dell’azienda, infatti, erano i video innovativi e, a detta dell’impiegata, l’unica preoccupazione dei responsabili il successo e le visualizzazioni ottenute, poco importa se a costo del totale sacrificio degli affetti e della vita privata dei dipendenti. Tra le ragioni che avevano portato la giovane lavoratrice a questo licenziamento di certo sui generis c’era, insomma, un ambiente di lavoro tutt’altro che stimolante e poca propensione da parte dell’azienda a curarsi di aspetti legati al benessere dei propri collaboratori. Per questo ad andar via non si doveva che essere contenti: contentezza che la ragazza espresse nel video cantando e ballando sulle note di “Gone” di Kanye West, in una sorta di sfida all’ultima visualizzazione che serviva, neanche tanto implicitamente, a mostrare all’azienda da cosa dipendesse davvero il successo dei suoi prodotti video e, cioè, la creatività dei dipendenti.

In pochissime ore il video fu visto su Youtube almeno 8 milioni di volte. Pronta arrivò, però, anche la risposta dell’azienda: un altro video in cui gli ormai ex colleghi della giovane vantavano, invece, le lodi dell’organizzazione e dei suoi responsabili e in cui erano gli stessi capi, un po’ parodiando la ragazza, ad annunciare un posto vuoto da riempire e a invitare chiunque stesse vedendo quel video a candidarsi, con tanto di mail in sovrimpressione a cui inviare il curriculum. Le reazioni a questa inconsueta querelle a colpi di video furono controverse: ci fu chi non apprezzò la risposta creativa dell’azienda che dava in parte ragione alle accuse della ex dipendente — i capi non stavano forse, ancora una volta, rubando e spacciando per loro idee che non lo erano? — e chi invece obiettò che un licenziamento che desse meno nell’occhio avrebbe certo aiutato di più il futuro professionale della giovane.

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